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Martedì 22 Giugno 2021 06:28

di Paolo Rabissi

La memoria, le mutande, il Caos

Giordano Bruno: "Mi par cosa ridicola il dire che extra il cielo sia nulla. Di maniera che non e? un sol mondo, una sola terra, un solo sole: ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose."

Nato a Nola, bruciato a Roma sul rogo il 17 febbraio 1600. C'è ancora. Lì a Potsdamer Platz, temevo che la furia ricostruttrice su Berlino est dopo la caduta del muro si portasse via la bella grande scultura a testa in giù di Giordano Bruno. E' lì, come se quella fosse la sua posa naturale con quella testa schiacciata che lo assomiglia a ET del film di Spielberg. Giusto così. Intellettuali e poeti e poete e scienziati e scienziate, non in pochi né in poche, sono spesso a testa in giù, vanno contro, vengono da un altro mondo. Godono tutti e tutte di un trattamento speciale soprattutto se mettono in discussione ruoli e poteri, allora gli si scatenano contro chiese religiose e laiche, i fascismi, gli stalinismi, i razzismi, i sessismi. Allora li-le ammazzano e prima li-le torturano. Così è capitato a Giordano Bruno. Gli hanno inchiodato la lingua al palato con un solo grosso chiodo perché non parlasse.

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Impressionante qui a Berlino l'esercizio quotidiano della memoria, non puoi sfuggirgli, anche se sei in vacanza. Come a Milano non puoi sfuggire alla pubblicità delle mutande, soprattutto delle donne, qui non sfuggi alla memoria del nazismo. Postadamer platz è attualmente tappezzata di foto di polacchi deportati e condannati al lavoro forzato dopo il '39.

La città si dilata su una superficie otto volte superiore a quella di Milano. Tre milioni e mezzo di abitanti, pochi se pensiamo che sulla stessa superficie a NYC ce ne stanno più di dieci. Le strade non sono stressate dal traffico, ma anche quando frotte di turisti si disseminano frastornate sempre in cerca di qualcosa raramente fanno resse tipo quelle di piazza del Duomo a Milano. Unter den Linden, la strada usata dai nazisti per le adunate lunga un chilometro e mezzo e poi famosa per il muro dal 1961, è larga sessanta metri: non tutte sono così larghe ma, aggiungendo i marciapiedi che sono larghissimi, la sensazione resta quella di un territorio di pianure estese che devi conquistarti gambe in spalla. Altrimenti ti perdi tutto. In realtà ci sono le Ubahn, metropolitane sotterranee che ti portano ovunque, e poi ci sono le Sbahn che sono come le Ubahn solo che viaggiano in superficie ma su percorsi sopraelevati o comunque protetti dunque veloci come le prime. Non puoi pensare di andare da un quartiere a Ovest a uno a Est a piedi, ti va via la giornata. Da un quartiere all'altro invece si va in metro anche con la bici. Grandi biciclette che nei vagoni occupano grandi spazi e devi stare attento a non esserne infilzato.

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A differenza che nel 2008, nel '13 invece di rinchiuderci per una settimana nei musei, abbiamo vissuto per un mese sulle strade. Abbiamo saccheggiato con lo sguardo la città. Senza la conoscenza della lingua sei costretto a usare di più gli occhi. Occhi da turisti disimpegnati. Gli altri sensi sono anch’essi chiamati a un surplus di esercizio ovviamente. Il naso lavora su materiale abbastanza inedito. Anzitutto il profumo di cucinati. Minestrone, brodo di carne, erba cipollina, curry, sesamo, cumino, caffè mit sahne, donerkebab, tutto mescolato insieme ti avvolge già verso le dieci del mattino quando ti sprofondi negli anditi delle metropolitane. E’ un afrore, molto simile a quello di altre città, ti prende alle narici e resta lì, non va più a fondo ma non ti abbandona più, neanche se esci sulle piazze sterminate che per attraversarle non bastano due semafori, neanche se si mescola agli odori di qualche umano. Finisce che lo cerchi, sfuggente e intenso, colto e perso in un metro di banchina. Ma in fondo niente altri impegni per il naso. Solo in qualche zona ti arriva grato il profumo dei tigli, di per sé beatificante ti gratifica ancora di piu? se i filari sono lunghi sulla allee. Ma in Unter den Linden la delusione è grande, ne hanno rimessi solo un centinaio delle migliaia che c’erano prima che i nazisti li spianassero per fare più grandi le adunate.

Con l’udito non c’è storia. I rumori sono quelli delle grandi città. Il treno, Ubahn o Sbahn che sia cioè in sotterranea o in sopraelevata, sferraglia proprio come un treno velocissimo e potente nel cuore della città. Stazioni di ferro, di acciaio e cristalli, percorsi di ferro sui ponti di ferro sullo Sprea. Le porte si aprono e chiudono con jingle che sembrano tutti accordi delle sinfonie di Beethoven e forse lo sono davvero. La vista dunque. Ma non è come a NYC. Lo sguardo lì è costretto continuamente a guardare in alto. I giochi dei riflessi dei grattacieli gli uni negli altri tengono la tua testa alzata, ma tieni la testa alzata anche perché sai che lassù c’è il Central Park al termine della avenue che sale o perché, al contrario, sai che laggiù c’è Battery Park, al termine della avenue che discende verso la foce dell’Hudson e dell’East River. A Berlino è diverso perché i palazzi sono alti ma non troppo e devi subito fare i conti con la loro struttura quadrata, rettangolare, esagonale ecc. Figure geometriche classiche cioè armoniche cioè leggere, quasi un paradosso. Lungo i viali spaziosi non incombono, massicci e solidi nello spazio ma mai pesanti. Respirano su larghe piazze, spesso così grandi che rinunci ad attraversarle. Si defilano con eleganza se costeggiano lo Sprea, anzi lì scopri la loro vocazione ai vuoti architettonici che liberano spazi con arcate, portici e colonnati neoclassici. Un’architettura sobria e concreta, viva e sonora. Colpiscono la varietà, l’audacia e gli effetti coloristici delle soluzioni formali dei palazzi moderni (sono stati chiamati a realizzarli architetti di tutto il mondo tra cui Piano) ma poi ti ritrovi davanti a estesi quartieri di fattura settecentesca, ancorché rifatti, ma fedelmente, dopo le distruzioni della guerra, omogeneamente neoclassici al punto che ti sembra di entrare direttamente negli spazi della scuola di Atene di Raffaello. Colonnati, porticati, frontoni, spazi vigorosi con statue e fontane che adornano cortili e piazzali. Da manuale cinquecentesco. Anche perché sono i palazzi civili a prevalere, chiese non ce n’è o vivono una vita appartata. In quella che è forse la più bella piazza di Berlino, la Gendarmenmarkt, ci sono sì contrapposte due chiese, quella luterana per i tedeschi e quella ugonotta per i francesi fuggiti dalla Francia a fine seicento, ma non hanno alcun peso religioso nemmeno formale perché ora sono due musei e comunque nella piazza dominano elegantemente neoclassico il teatro costruito da Schinkel durante la Restaurazione e il monumento a Friedrich Schiller. Infine però non puoi fare a meno di renderti conto che il gotico non è passato da qui. Sembra quasi impossibile. Eppure quello stile che ha contribuito a riempire di chiese tutta l’Europa ma soprattutto l’Italia dove si è innestato sul romanico, non ha lasciato gran che in tutto il Brandeburgo. Qui a Berlino una delle poche testimonianze è una chiesetta bicuspidata nei pressi di Alexanderplatz.

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Una tappa obbligatoria con sorpresa. Non potevamo sottrarci alla curiosità di rintracciare in qualche modo nella città la presenza di Bertolt Brecht. Così, lasciata alle spalle la stazione Nord con le sue lucentezze di acciaio, abbiamo sostato per un po’ davanti al Berliner Ensemble e siamo anche entrati nel piccolo teatro ricostruito dopo la guerra ma la sua struttura dimessa e le stesse fotografie appese nell’entrata ci hanno fatto solo malinconia. Non credo che avessimo in animo una specie di commemorazione vera e propria, fatto sta che quel giorno l’abbiamo poi dedicato a rintracciare il piccolo cimitero dove Brecht è sepolto. Dorotheenstädtisch, un cimitero diverso dai nostri che non ha niente di triste, unn parco vero e proprio dove abbiamo riposato un po' tra betulle salici e marmi dorati. Il sepolcro di Brecht è semplicissimo, ha accanto quello della moglie e non molto distante ha sorpreso entrambi la tomba di Christa Wolf. Ci hai lasciato sopra in dono una matita. Così ho fatto io su quella di Brecht.

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La grande storia qui è ovunque. Del muro di Berlino è rimasto un pezzo lungo un chilometro e qualcosa. Costeggia lo Spree. Il territorio tra il muro e l'altra sponda del fiume era considerata zona neutra, chi cercava di attraversarla difficilmente sfuggiva alle mitragliatrici della DDR e veniva ‘giustiziato’ sul posto. Dieter lo sciancato che ricordo in 'Inverno a Colonia' era scappato per un'altra strada, nascosto dentro la fusoliera di un piccolo aereo. Rivedendo oggi il muro mi è tornato in mente lui, per la prima volta mi sono posto il problema se Dieter vive ancora nella Germania unificata. Oggi dovrebbe avere più o meno settant'anni, senza incidenti di percorso è realistico pensarlo vivo. Ma l'italiano non lo conosceva e quindi difficilmente può aver intercettato il mio blog (che altri seguono in Germania). Parlava un inglese maccheronico mentre oggi i tedeschi, quando si accorgono che sei straniero, per risponderti mettono automaticamente il cervello in modalità inglese che è come una seconda lingua materna per loro che lo studiano dalle elementari, se poi vedono che non capisci nemmeno quello allora si bloccano e chiedono aiuto increduli. Dieter non parlo? mai della sua avventura, preferiva chiedermi in continuazione appena mi vedeva che cosa avrei fatto se avessi vinto un milione di dollari!

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Il muro rimasto è un'opera d'arte en plain air per via dei murales che lo ricoprono interamente. Ne esci come puoi uscire dal museo Bergruen dopo aver visto un centinaio di Picasso e altrettanti Klee. Sbalordisci e in più devi fare i conti con il cielo vastissimo e mobile di nuvole che mutano la luce e tu devi registrare lo sguardo dopo ogni click della tua macchinetta. Le due facciate del muro sono dipinte e disegnate secondo l'estro in murales brevi o lunghi. L'omogeneità delle opere è data ovviamente dal tema, interpretato in un paio di centinaia di pezzi dagli artisti di cui molti famosi, ma soprattutto dal tipo di colorazione acida delle bombolette a gas.

C'e? una riflessione cui ti costringe involontariamente una bacheca posta all'inizio e alla fine del muro. Essa avverte che mentre i murales della facciata esposta a Est, il territorio riconquistato, è quello riconosciuto ufficialmente di valore, nel quale cioè si sono impegnati artisti di nome, quella esposta a Occidente con i murales di autori ignoti è ritenuta di natura 'selvaggia'. Si tratta di un paradosso involontario. E' come se si fossero invertite le parti. A Est, che fino a poco fa era occupato dai ‘barbari’, l'Occidente espone la sua arte con i suoi modi coinvolgenti, le sue linee informali ma dirette a un senso, la bellezza di composizioni ammirevoli per genialità. A Ovest l'Occidente espone la serie B e C, opere dei giovanissimi, che curvano lo spray al momento giusto per disegnare un cerchio quasi perfetto ma poi la direzione deraglia da qualsiasi senso. E' difficile cogliere in quei murales sicure emozioni e significati. Se ci sono, sono rimasti in un cantuccio della testa dell'autore tanto che finisci col pensare che la prima è vera Arte e la seconda è solo Caos. Salvo poi non poter fare a meno di considerare che l'ordine dell'Occidente contiene una quantità incommensurabile di caos, quella che si manifesta nella crisi delle democrazie europee, nella crisi della globalizzazione capitalistica, nella insolvenza criminale del pensiero unico e della sua pratica schiavizzante. Forse i giovani della facciata Ovest sono nel Caos ma forse stanno anche cercando una via d'uscita dal Caos dell'Occidente.

I benpensanti tengono all'ordine creativo della prima facciata. Essa contiene una sicura quantità di razionalità che garantisce, almeno a loro, la sopravvivenza. Se tutti i soggetti politici e culturali si acconciassero a razionalizzare al meglio strutture mentali e pratiche, se si adattassero con professionalità alle necessità pragmatiche del mercato tutti starebbero meglio, dicono e pensano, e in ultima analisi non ci sarebbe più un'arte di serie B. Non si rendono conto, o non vogliono farlo il che è più verosimile, che svelano in maniera plateale la propria utopia. Tutti quelli che hanno passato gli ultimi decenni a denunciare i mali delle ideologie, che ovviamente provenivano per loro solo da sinistra, dovrebbero avere il coraggio di affermare che quello era solo il modo per mascherare l'utopia del pensiero unico liberale che stava di casa da sempre di qua dal muro. Adattandosi un po’ di più, accettando le ragionevoli regole dell’unico mondo possibile fondato sulla natura, dicono, questo sistema può evitare il Caos, al quale il grosso dell'umanità sembra essere affezionata.

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Abbiamo lasciato il muro dipinto con questo fardello. Il ponte piu? bello di Berlino, l'Oberbaumbrucke, ci ha accolti sotto le sue arcate in una piccola friggitoria gestita da tre giovani che friggevano patate e cotolette di maiale davanti a noi. Alle pareti tanti manifesti di gruppi rock e jazz. Noi eravamo proprio gli anziani, qualcuno ci ha guardato incuriosito. Tutti e tutte giovanissimi, birretta in mano, nell’altra un teller di patatine fritte, tutte e tutti convinti della propria gioventù e del proprio diritto a godersela, salvando, dentro la precarietà assoluta del presente e la sfiducia nel futuro, il proprio Caos. Per un attimo mi sono sembrati tutti tutte a testa in giù, come Bruno.

 

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