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Come uscire dalla crisi: crescita e intervento pubblico PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Venerdì 13 Luglio 2012 00:00
SEL, 13 febbraio 2012
Crisi Economica: Come Uscirne ?
Giorgio Lunghini
Come uscire dalla crisi: Crescita e intervento pubblico
0. È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non
abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbebastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi sitenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella dellaissez faire.
1. Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspettifinanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzionifinanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementireali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di
produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un
sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se esoltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale -per dirla con Marx -danon generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzionerelativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta,
banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e
riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisidi tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se ladomanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per ilmotivo speculativo fossero tali -by accident or design -da assicurare un
equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia
automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politicaeconomica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di
autoregolarsi.
2. Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella
distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si èdeterminata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione
crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In
condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chiperde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziariaalla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno
partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie allaglobalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie
nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionaledel lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale.
Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisiciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttivedella Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.
3. Il “senato virtuale”, secondo una definizione che N. Chomsky mutua da B.
Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali checontinuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating,
le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche perché
contrarie ai loro interessi -votano contro di esse con fughe di capitali,
attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varieforme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: iloro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa unacrisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto
economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento
europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non
sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente -poiché la seconda volta le
tragedie si presentano come farsa -in forme di populismo autoritario, con Tolkien
al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie. In un mondo fatto diLumpenproletariat e di piccolo-borghesi.
4. Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono iconnaturati difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazionepiena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per
rimediare a questi difetti, nell’ultimo capitolo della Teoria generale Keynespropone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale(imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia delrentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell’economia. È un vero
peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nelcontempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che lakeynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurrenon sia mai stata presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieridella City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa lemisure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal ‘Bolscevismo’; e che ilpiano Keynes di Bretton Woods sia stato prima temperato poi smantellato.
Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva ben chari in mente in tutti e due isensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a un problema di crescita, equae rispettosa dei vincoli di bilancio.
5. La ricetta keynesiana è di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricettaper l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicatadall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento dellapropensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva.
L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalistadi sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti ancheinvestimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, qualinormalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Per quanto riguardal’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, “l’azionepiù importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono
già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degliindividui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato.
La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, efarlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa deltutto”. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre,
purtroppo tradita.
6. Tutti riconoscono che il problema principale dell’economia italiana è un
problema di crescita; e che però i vincoli finanziari sono stringenti. Come
intervenire, sotto questo vincolo? Qui, a integrazione di quanto ho detto sinora,
voglio riprendere un ragionamento di Pierluigi Ciocca che a me pare di grandeimportanza e attualità; anche perché contiene una implicita critica alla politica deidue tempi, una politica per definizione fallimentare. Ricordo che Pierluigi Cioccaè stato il primo a parlare di un “problema di crescita dell’economia italiana”, nellariunione scientifica del 2003 della Società Italiana degli Economisti; e che direcente ha suggerito Tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della
ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore equità e crescita. È
culturalmente e politicamente preoccupante che un così ragionevole e semplicesuggerimento, che qui sotto riprendo, non sia stato preso in nessuna
considerazione.
7. L’economia italiana è minata da scadimento della produttività, vuoto didomanda effettiva, credito internazionale precario. La politica economica
dovrebbe agire simultaneamente sui tre fronti, tra loro strettamente connessi:
7.1 Promuovere la produttività. La produttività risente di incapacità
intrinseche alle aziende italiane. Sono limiti -non solo dimensionali -di cui
l’impresa porta intera la responsabilità e sulle quali la politica economica non può
molto. Ma la produttività trova altresì impedimenti esterni. In primo luogo, lacarenza delle infrastrutture materiali e la pressione tributaria. Manutenzione,
ampliamento e modernizzazione delle infrastrutture fisiche postulano investimentipubblici cospicui. La produttività incontra un ulteriore ostacolo esterno nellainadeguatezza del diritto dell’economia. Si richiede una organica riforma deldiritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tuteladella concorrenza e del diritto amministrativo. Dai primi anni Novanta paradossalmente,
da quando esiste un’autorità antitrust -si è inoltre affievolito
l’insieme delle pressioni, di mercato e no, che costringono le imprese a ricercare ilprofitto attraverso l’efficienza, il progresso tecnico, l’innovazione. Il grado medio
di concorrenza è diminuito, il cambio è stato a lungo cedevole, la spesa pubblicalarga, i salari reali stagnanti. Per più vie, a cominciare da una vera azione
antitrust, la politica pubblica è chiamata a favorire le sollecitazioni
produttivistiche nel sistema, confidando che l’impresa privata -quella pubblica
essendo stata ridotta dal disfacimento dell’Iri a utilities e a alcuni servizi -riscopra
una adeguata attitudine imprenditoriale, risponda alle sollecitazioni, sappia
cogliere le opportunità.
7.2 Sostenere la domanda. Per superare una depressione che altrimentisi protrarrebbe ancora per anni e dovendosi ridurre il disavanzo, è necessario agiresulla composizione•corsivo aggiunto•del bilancio pubblico. Unitamente a minoriimposte, non va ridimensionato -come sinora si è fatto -ma va accresciuto il peso
delle voci di spesa più idonee a alimentare la domanda. Al tempo stesso, è il peso
delle uscite che in minor misura influenzano la domanda a doversi ridurre, nellamisura necessaria a raggiungere il pareggio e a fare spazio nel bilancio alle speseda espandere e alla pressione tributaria da limare. Con una simile, articolatamanovra di finanza pubblica, la domanda globale, anziché contrarsi, riceverebbe
sostegno. Dal miglioramento delle aspettative e dai minori tassi d´interesse
deriverebbero maggiori investimenti e consumi da parte dei privati.
7.3 Ridurre il debito pubblico. Solo il rilancio della crescita di lungo
periodo, unito alla riduzione e ristrutturazione della spesa e a una pressionetributaria perequata, ancorché attenuata, può risanare i conti pubblici. Al di làdell’emergenza e dei provvedimenti salvifici, va posto in atto un programma chenel quinquennio 2012-2016 abbassi la spesa corrente in rapporto al Pil di circa 6
punti. Di questi, 2 o 3 punti concorrerebbero all’azzeramento del disavanzo eassicurerebbero in seguito l’equilibrio del bilancio. Tre punti verrebbero devolutia maggiori investimenti in infrastrutture e alla riduzione del carico fiscale. Per
ragioni di equità e per sostenere i consumi la tassazione va redistribuita in senso
progressivo, in primo luogo attraverso un contrasto all’evasione che sia senzaquartiere e che sul reddito celato incida anche rilevando livello e variazioni delpatrimonio. L’azzeramento del disavanzo si concentrerebbe su tre voci di spesa:
trasferimenti alle imprese, acquisti di beni e servizi, costo del personale. Nellamedia del periodo le tre voci dovrebbero scendere, rispetto a un Pil nominale ereale dapprima in ripresa poi in crescita, grosso modo nelle seguenti proporzioni:
i) i trasferimenti alle imprese (da ridurre prontamente anche in valore assoluto,
perché fonte di inefficienza, se non di illegalità) di almeno di 2 punti percentuali;
ii) gli acquisti di beni e servizi dal 9 al 6%, attraverso severe economie esoprattutto una dura ricontrattazione degli esosi prezzi lucrati dai fornitori; iii) laspesa per il personale -con un parziale turnover, salvaguardando i salari unitari dall’
11 al 10%. Su queste basi l’abbattimento dello stock del debito pubblico
potrebbe essere accelerato cartolarizzando immobili delle P. A. non funzionalialla loro operatività. Il peggioramento delle prestazioni offerte ai cittadini dalsistema pensionistico e dal sistema sanitario -conquiste e collanti della società
italiana -rappresenta invece una fonte di economie a cui solo eventualmente esolo residualmente far ricorso.
8. Nell’insieme le tre voci di spesa corrente indicate sopra rappresentano
circa un quarto del Pil. In un quinquennio la crescita del Pil potrebbe mediamenterisalire al 4,5% l’anno: 2,5% in termini reali, 2% per un’inflazione entro i limitieuropei. Se solo venissero bloccate in termini nominali, globalmente le tre voci dispesa scenderebbero alla fine del periodo del 10% in termini reali e quasi del 5%
rispetto al prodotto interno lordo. Assumendo, per semplicità, moltiplicatoridell’ordine di 0,5 per le spese che perdono di peso (6 punti) e di 1,5 per i maggioriinvestimenti e la minore imposizione (3 punti) l’impatto netto del mutamento dicomposizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe espansivo nellamisura dell’1,5 per cento. L’effetto andrebbe distribuito nell’arco del quinquennio
alla luce del profilo ciclico dell’economia e nel rispetto dell’equilibrio di bilancio
in ciascun esercizio. Il premio al rischio sul debito scenderebbe, perché un piano
siffatto è quanto gli investitori, interni e internazionali, chiedono da anni all’Italia.
* Scriveva Keynes, nel 1937: «La fase di espansione, non quella di recessione, è ilmomento giusto per l’austerità di bilancio».

di Giorgio Lunghini

Intervento tenuto presso SEL nel febbraio 2012.

Il saggio riprende alcune idee di Keynes per formulare proposte di uscita dalla crisi nel senso di una maggiore equità.

The essay refers to some ideas by J.M.Keynes, to formulate proposals of way out from the economical crisis, based on a deeper social justice.

0. È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi sitenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez faire.

1. Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale -per dirla con Marx -da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali -by accident or design -da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica  economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.

2. Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttivedella Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.

3. Il “senato virtuale”, secondo una definizione che N. Chomsky mutua da B. Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating,  le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche perché contrarie ai loro interessi -votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente -poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa -in forme di populismo autoritario, con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie. In un mondo fatto di Lumpenproletariat e di piccolo-borghesi.

4. Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono i connaturati difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per rimediare a questi difetti, nell’ultimo capitolo della Teoria generale Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell’economia. È un vero peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che lakeynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre non sia mai stata presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieri della City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa le misure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal ‘Bolscevismo’; e che il piano Keynes di Bretton Woods sia stato prima temperato poi smantellato. Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva ben chari in mente in tutti e due isensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a un problema di crescita, equa e rispettosa dei vincoli di bilancio.

5. La ricetta keynesiana è di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, “l’azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.

6. Tutti riconoscono che il problema principale dell’economia italiana è un problema di crescita; e che però i vincoli finanziari sono stringenti. Come intervenire, sotto questo vincolo? Qui, a integrazione di quanto ho detto sinora, voglio riprendere un ragionamento di Pierluigi Ciocca che a me pare di grandeimportanza e attualità; anche perché contiene una implicita critica alla politica deidue tempi, una politica per definizione fallimentare. Ricordo che Pierluigi Ciocca è stato il primo a parlare di un “problema di crescita dell’economia italiana”, nella riunione scientifica del 2003 della Società Italiana degli Economisti; e che di recente ha suggerito Tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore equità e crescita. È culturalmente e politicamente preoccupante che un così ragionevole e semplice suggerimento, che qui sotto riprendo, non sia stato preso in nessuna considerazione.

7. L’economia italiana è minata da scadimento della produttività, vuoto di domanda effettiva, credito internazionale precario. La politica economica dovrebbe agire simultaneamente sui tre fronti, tra loro strettamente connessi:

7.1 Promuovere la produttività. La produttività risente di incapacità intrinseche alle aziende italiane. Sono limiti -non solo dimensionali -di cui l’impresa porta intera la responsabilità e sulle quali la politica economica non può molto. Ma la produttività trova altresì impedimenti esterni. In primo luogo, la carenza delle infrastrutture materiali e la pressione tributaria. Manutenzione, ampliamento e modernizzazione delle infrastrutture fisiche postulano investimenti pubblici cospicui. La produttività incontra un ulteriore ostacolo esterno nella inadeguatezza del diritto dell’economia. Si richiede una organica riforma del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo. Dai primi anni Novanta paradossalmente, da quando esiste un’autorità antitrust -si è inoltre affievolito l’insieme delle pressioni, di mercato e no, che costringono le imprese a ricercare il profitto attraverso l’efficienza, il progresso tecnico, l’innovazione. Il grado medio di concorrenza è diminuito, il cambio è stato a lungo cedevole, la spesa pubblica larga, i salari reali stagnanti. Per più vie, a cominciare da una vera azione antitrust, la politica pubblica è chiamata a favorire le sollecitazioni produttivistiche nel sistema, confidando che l’impresa privata -quella pubblica essendo stata ridotta dal disfacimento dell’Iri a utilities e a alcuni servizi -riscopra una adeguata attitudine imprenditoriale, risponda alle sollecitazioni, sappia cogliere le opportunità.

7.2 Sostenere la domanda. Per superare una depressione che altrimentisi protrarrebbe ancora per anni e dovendosi ridurre il disavanzo, è necessario agire sulla composizione del bilancio pubblico. Unitamente a minori imposte, non va ridimensionato -come sinora si è fatto -ma va accresciuto il peso delle voci di spesa più idonee a alimentare la domanda. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influenzano la domanda a doversi ridurre, nellamisura necessaria a raggiungere il pareggio e a fare spazio nel bilancio alle spese da espandere e alla pressione tributaria da limare. Con una simile, articolata manovra di finanza pubblica, la domanda globale, anziché contrarsi, riceverebbe  sostegno. Dal miglioramento delle aspettative e dai minori tassi d´interesse deriverebbero maggiori investimenti e consumi da parte dei privati.

7.3 Ridurre il debito pubblico. Solo il rilancio della crescita di lungo periodo, unito alla riduzione e ristrutturazione della spesa e a una pressione tributaria perequata, ancorché attenuata, può risanare i conti pubblici. Al di là dell’emergenza e dei provvedimenti salvifici, va posto in atto un programma che nel quinquennio 2012-2016 abbassi la spesa corrente in rapporto al Pil di circa 6 punti. Di questi, 2 o 3 punti concorrerebbero all’azzeramento del disavanzo e assicurerebbero in seguito l’equilibrio del bilancio. Tre punti verrebbero devoluti a maggiori investimenti in infrastrutture e alla riduzione del carico fiscale. Per ragioni di equità e per sostenere i consumi la tassazione va redistribuita in senso progressivo, in primo luogo attraverso un contrasto all’evasione che sia senza quartiere e che sul reddito celato incida anche rilevando livello e variazioni del patrimonio. L’azzeramento del disavanzo si concentrerebbe su tre voci di spesa:trasferimenti alle imprese, acquisti di beni e servizi, costo del personale. Nella media del periodo le tre voci dovrebbero scendere, rispetto a un Pil nominale e reale dapprima in ripresa poi in crescita, grosso modo nelle seguenti:  i) i trasferimenti alle imprese (da ridurre prontamente anche in valore assoluto, perché fonte di inefficienza, se non di illegalità) di almeno di 2 punti percentuali; ii) gli acquisti di beni e servizi dal 9 al 6%, attraverso severe economie e soprattutto una dura ricontrattazione degli esosi prezzi lucrati dai fornitori; iii) laspesa per il personale -con un parziale turnover, salvaguardando i salari unitari dall’11 al 10%. Su queste basi l’abbattimento dello stock del debito pubblico potrebbe essere accelerato cartolarizzando immobili delle P. A. non funzionali alla loro operatività. Il peggioramento delle prestazioni offerte ai cittadini dal sistema pensionistico e dal sistema sanitario -conquiste e collanti della società italiana -rappresenta invece una fonte di economie a cui solo eventualmente esolo residualmente far ricorso.

8. Nell’insieme le tre voci di spesa corrente indicate sopra rappresentano circa un quarto del Pil. In un quinquennio la crescita del Pil potrebbe mediamenterisalire al 4,5% l’anno: 2,5% in termini reali, 2% per un’inflazione entro i limiti europei. Se solo venissero bloccate in termini nominali, globalmente le tre voci dispesa scenderebbero alla fine del periodo del 10% in termini reali e quasi del 5% rispetto al prodotto interno lordo. Assumendo, per semplicità, moltiplicatori dell’ordine di 0,5 per le spese che perdono di peso (6 punti) e di 1,5 per i maggiori investimenti e la minore imposizione (3 punti) l’impatto netto del mutamento di composizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe espansivo nella misura dell’1,5 per cento. L’effetto andrebbe distribuito nell’arco del quinquennio alla luce del profilo ciclico dell’economia e nel rispetto dell’equilibrio di bilancio in ciascun esercizio. Il premio al rischio sul debito scenderebbe, perché un piano siffatto è quanto gli investitori, interni e internazionali, chiedono da anni all’Italia.

Scriveva Keynes, nel 1937: «La fase di espansione, non quella di recessione, è il momento giusto per l’austerità di bilancio».

 

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