Riflessioni della redazione sulla mostra tenuta al Palazzo reale di Milano, col titolo Anni settanta addio (senza punto interrogativo!) e conclusasi ai primi di settembre del 2012.
A cura della redazione.
Paolo:
Comincio dal titolo: perché addio? Tanto più che le presentazioni scritte fanno di quegli anni un laboratorio tutto da spiegare. Anni settanta dunque non addio, c'è troppa roba là dentro ancora da metabolizzare e la mostra stessa, tutto sommato, ne dà conto. Mancano però molte cose: la scuola, gli studenti, l'università ma poi anche le tecnologie nuove che affascinavano (improvvisamente si parla poi dell'informatica e sembra come che i marziani siano scesi tra noi). Però che sberla! Io sono rimasto anche un po' schiacciato, a un certo punto io e Adriana ci siamo detti: ma noi dove eravamo mentre succedevano tutte queste cose?Presi molto di più dalle relazioni politiche, seguivamo meno i fermenti artistici tranne quelli di cui ci portavano l'eco i nostri studenti e qualche collega. E tuttavia c'è da meditare sul fatto che le sparatorie, l'autonomia operaia, la violenza di massa non viene storicizzata: qui nella mostra tutto ciò accade e basta, dell'autoritarismo nelle fabbriche e a scuola, della repressione delle lotte operaie, contadine e studentesche con tutti i morti dagli anni sessanta in avanti niente. Però il materiale sulle forme espressive per informarsi e discutere c'è ed è abbondante.
C'è Balestrini ovviamente, ma non c'è Moroni, voglio dire insomma i centri sociali appena nati, dove trovavi sempre tanto materiale cartaceo di fumetti, volantini, pamphlets, roba non ufficiale ma che, con una piccola ricerca, potevano essere accolti invece di privilegiare quasi esclusivamente le testate ufficiali di allora (che però erano molte, appena nate e fuori mercato, come Squilibri, ecc.) Insomma a dirla tutta due ore non ti bastano. Ma è gratis, ci si può tornare. Una cosa su tutte: il quadro di Bay sulla morte di Pinelli, che nella sua fantasmagorica riproduzione di Guernica, è irridente e violento.
Adriana
Sì c'è qualcosa anche del femminismo, che in Italia è stato uno dei movimenti cardini degli anni Settanta, per esempio il catalogo della mostra Esistere come donna, La coscienza di sfruttata, e qualche libro edizioni Mazzotta, ma manca tutta l 'anima dei femminismi: i collettivi di donne delle fabbriche, delle scuole, del sindacato, di autocoscienza..., i periodici: Sottosopra, e altro, i libretti verdi di Carla Lonzi, le edizioni della Tartaruga (Lepetit), il collettivo di via Cherubini e in seguito la Libreria delle donne di Milano, che ha fatto scuola in Italia, non a caso in quegli anni si è delineato il Movimento delle donne, a indicare l'uscita da una dimensione di nicchia, sfondando soprattutto nelle fabbriche e nelle scuole. Il femminismo di Milano negli anni settanta è stato pioniere, sia nella teoria che nella pratica; malgrado questa ennesima trascuranza (eppure a Milano ci sono centri di studi e documentazione da consultare) la mostra è interessante.
Paolo:
Aggiungo una riflessione.
Non mi è capitato in nessun' altra occasione di riflettere su due aspetti così apparentemente lontani tra loro come nella mostra di ieri, e di stabilire tra loro un non-nesso.
Nel corso della mostra ci si imbatte a un certo punto in un video intitolato: Il nuovo realismo. Di questo evento artistico non è che non sapessi niente solo che l'avevo scordato. Anche perché si autoproclamò morto proprio nel 1970. Tuttavia i monumenti di Christo impacchettati credo che ce li ricordiamo tutti. ma nell'insieme cosa diceva il nuovo realismo? copio qualcosa da Internet : "Ironia, trionfo della merce come trionfo della morte, utilizzo di materiali di ogni genere, compressioni, accumulazioni, décollages, mescolanze tra l’arcaico e il contemporaneo. Si parte dal vecchio Duchamp ma si va oltre, molto oltre. L’arte si è dissolta, è vero -come ritengono tradizionalisti e benpensanti- ma non è morta. È diventata tutto. Basta isolare un frammento dell’essere, basta impacchettarlo o metterlo dentro una cornice e l’evento estetico accade. Ma se questo è possibile, è perché l’intero mondo è tale evento. L’arte è contaminazione, è la totalità espressiva del reale, è l’ibridazione dell’antroposfera con la teriosfera, la tecnosfera, la teosfera. " ecc.
Il non-nesso è scattato quando mi è venuto in mente che ora siamo di nuovo a una nuova versione del 'nuovo realismo' di cui come sapete parlano di nuovo anche in poesia: allora fatti i conti, tra realismo di fine ottocento, neorealismo del dopoguerra, nuovo realismo degli anni settanta, nuovo realismo dei fortunati dieci del 2000 siamo già a quattro edizioni in un secolo.
Scorrendo le cose più significative della mostra non è difficile imbattersi nella riproposizione in pittura, in fotografia, in scultura di quell'avvenimento storico che fu a suo tempo la fotografia delle Campebell's riprodotte in una sequenza infinita, operazione fatta anche con la foto di Marylin. Queste due immagini ci hanno accompagnato per decenni.
Ieri insomma ho rinnovato la consapevolezza - l'onda lunga della lezione di W. Benjamin - che tutta la mia/nostra vita è stata attraversata dalla ripetizione, dalla ripetibilità, dalla sequenza ininterrotta dell'oggetto: che non è roba del tutto inventata dal fordismo - la natura fa di meglio con la ripetizione delle stagioni - ma certamente il fordismo ha esteso a tutte le manifestazioni dell'essere la necessità della ripetizione che è incamerata nella macchina la quale a sua volta ci induce alla ripetizione. Molta arte in mostra al palazzo reale è ripetizione di cose, di case, di sequenze di assemblaggi ripetute, ecc.
Che nesso c'è tra nuovo realismo e questa faccenda della ripetizione? nessuno, è un non-nesso ma la mia riflessione è appena cominciata e magari vi ci tiro dentro.
Franco:
Sì bisogna partire dal titolo, me ne sono convinto con la seconda visita, che ha diminuito anche l'irritazione della prima seppure confermando alcune pecche messe in evidenza anche da Paolo. Il titolo è un ossimoro perché arrivati alla fine si scopre che gli anni '70 sono quanto mai presenti e tale sensazione si accentua ulteriormente si si pensa al sotto titolo: arte a Milano dal 1968 al 1980. Perché proprio il 1980, tanto più che alcune testimonianze e opere artistiche sono del 1981? Aldo faceva notare che è l'anno della manifestazione dei 40.000 quadri della Fiat. Non so se i curatori lo hanno pensato, ma che sia stata una scelta voluta oppure un lapsus il dato è eclatante e stratifica anche la capacità di contestualizzare la mostra. Tutti sanno cosa sia stato il '68, ma per afferrare il senso della sconfitta operaia del 1980, occorre essere un po' dentro il mondo della militanza attiva, altri non vi faranno per nulla caso. E allora ecco che la drammaticità degli anni '70, di cui la mostra porta poche testimonianze veramente significative (rimozione della lotta armata e molte altre), ecco che rientra prepotentemente dalla finestra. Si potrebbe obiettare che la mostra ha come sottotitolo Arte a Milano, ma sarebbe un escamotage perché essa stessa mostra non può evitare del tutto certi nodi e alcune opere, sia per la loro imponenza sia per il richiamo che hanno alla densità politica e sociale di quegli anni, indicano chiaramente come sia impossibile parlare degli anni '70, qualunque sia l'ambito di partenza, senza imbattersi in questioni brucianti e che bruciano ancora, altrimenti non si capirebbe la quantità industriale di rimozioni che la mostra presenta, oltre naturalmente ai pregi che a una seconda visita mi sono apparsi più evidenti.
Mi addentro un po' nei nei contenuti e comincio dalle critiche alle mancanze più vistose.
La prima sala è dedicata alle riviste, quella successiva ai libri e alle prime installazioni artistiche risalenti a quegli anni. Le riviste sono di difficile consultazione, tenute insieme come sono da fili che si intrecciano e si aggrovigliano troppo. Capisco l'esigenza di evitare furti, ma così è davvero difficile orientarsi e ho visto altri volonterosi dedicarsi in un primo tempo come me al loro spulcio e poi desistere. Tuttavia, anche a uno sguardo superficiale e rapido ciò che colpisce sono le assenze e alcune presenze troppo vistose: Re Nudo è la testata che più emerge, seguita da tre numeri di Alfabeta, bene in vista sotto una teca nella sala dei libri (perché, trattandosi di una rivista? Si vuole forse suggerire in questo modo il suo maggior rango e preziosità togliendola persino dallo sfoglio casuale?), poi riviste minori, fogli anarchici semi sconosciuti, poi di nuovo alcuni numeri di Erba voglio e di nuovo altre testate di cui era davvero difficile ricordarsi. Mi sono chiesto: vuoi vedere che hanno scelto appositamente testate più defilate, non in vista, proprio per documentare il tessuto che sosteneva anche le testate più celebri? Ma se così fosse stato, il rigore della scelta avrebbe imposto la totale assenza delle più note, oppure una rassegna di un solo esemplare per ciascuna di esse, ma a parte. Si replica con i libri: sono pochi e a tratti sembra il pezzo di un catalogo estratto da una mano dadaista. Alcuni testi sono emblematici, altri sembrano lì solo perché sono stati pubblicati in quel decennio, ma cosa diavolo si voglia dimostrare con tale casualità, non è francamente dato di comprendere. Anche fra i libri vistose mancanze: i movimenti femministi dove stanno? Non ci sono, se non in alcuni volumi, ma senza un filo conduttore, visto che manca addirittura una rivista come Sottosopra. Le fotografie, invece, sono meglio e ci danno un panorama più ampio di tutto, con una particolare insistenza su artisti, letterati editori. E allora ecco che compaiono Laura Lepetit, Lea Vergine, Gillo Dorfles, altri e altre. Alcuni scorci di Milano sono azzeccati, i funerali di Zibecchi per esempio (ma perché è morto Zibecchi? Quien sabe? Dalla mostra non si comprende). E il '77? manca pure questo e allora mi sono ulteriormente domandato se questa mostra sia davvero stata montata con una fretta eccessiva e troppa irritante casualità, oppure che fosse una strana mostra sul '68 e le sue immediate propaggini, come se il '77 inaugurasse la stagione della lotta armata e degli anni '80 e proprio per questo fosse bene tenerlo a distanza. Se era un tentativo di rispondere alla campagna che vuole descrivere gli anni '70 come un decennio di pura violenza, mi sembra che il rimedio sia stato peggiore del male.
Eppure, eppure, dopo averne pensato in diversi momenti e passaggi, il peggio possibile, sono uscito dalla mostra convinto che vada vista: il merito è di due sale soltanto, di un'opera e di una serie di opere radunate in un unico spazio. Esse emergono a tal punto dall'indistinto di tutto il resto (compresa molta arte, fra cui spicca ovviamente quella povera), da imporsi come sintesi di un'epoca, travalicando gli stessi anni '70. Nessuna vera sorpresa, dal momento che si tratta di opere e autori celeberrimi e che io stesso avevo già visto: le tavole apparecchiate di Daniel Spoerri e I funerali dell'anarchico Pinelli di Enrico Baj.
Cominciamo dal primo.
Le tavole apparecchiate sono esattamente quello che dicono di essere ma poste in verticale. Le pale sono della misura di un vero e proprio tavolo da pranzo, al quale potrebbero sedersi comodamente quattro o sei commensali. Appiccicate ad esse piatti e bicchieri, posate, bottiglie, il tutto in un perfetto ordine. La fissità degli oggetti e la loro densità, tuttavia, nonché la presenza in una sola stanza di diverse tavole apparecchiate con piccole differenze fra l'una e l'altra, creano immediatamente in chi entra un effetto di sovrabbondanza e soffocamento. Gli oggetti, pur così comuni, incombono, sono come dita puntate contro lo spettatore: questa sala di archeologia del consumo o del consumismo ci riporta indietro di qualche decennio, a contatto con oggetti che tutti abbiamo avuto ma che mi sembrano così lontani ed estranianti. L'irruzione della memoria conservativa mi fa percepire la velocità del consumo, la necessità di rallentare e quindi di conservare la memoria, ma c'è qualcosa di sinistro in questa presenza di oggetti, che diventa tanto più ossessiva quanto più essi sono comuni e poveri: bottiglie con un fondo di vino, residui di cibo sul piatto. Spoerri celebra l'insinuarsi lento e inesorabile del consumismo nella vita quotidiana, proprio negli anni in cui lo slogan Abbattere il sistema, sembrava fare breccia persino in ambienti impensabili. Eppure, l'immagine è quella di una estrema povertà e precarietà. Due secondo me sono gli elementi decisivi: Spoerri, a differenza di Warhol, usa gli oggetti nella loro materialità e persino imperfezione e varietà e li colloca nella loro fissità di prodotti artigianali: a ben vedere Warhol non aveva celebrato l'avvento della merce come figura centrale del mondo contemporaneo, così come nel '500 era stata la figura umana a occupare la scena. Warhol celebra in realtà una meta merce e cioè la pubblicità. Spoerri torna all'oggetto nel suo valore d'uso quotidiano, compie il gesto contrario a quello di Duchamps: non più l'oggetto comune collocato in un contesto che lo fa divenire ex abrupto opera d'arte, ma il suo valore d'uso in un contesto domestico ma inquietante, qualcosa che ha a che fare con il Perturbante freudiano. E tuttavia manca ancora qualcosa, perché queste tavole sono troppo in ordine, un ordine che dovrebbe richiamare quello dell'attesa felice di una serata conviviale, la tavola apparecchiata prima che gli ospiti vi si siedano; ma non è così. Gli avanzi di cibo, il disordine che si cela dietro l'ordine apparente creato dalla fissità degli oggetti attaccati, non dimentichiamolo, a una pala disposta in verticale (ma l'effetto sarebbe analogo se anche fosse una tavola vera in orizzontale), indicano che i commensali c'erano, ma sono fuggiti. In questa sorta di ultima cena dell'umanità gli oggetti non parlano semplicemente al posto degli umani, secondo la poetica simbolista o del correlativo oggettivo eliotiano, ma sembrano indicare l'assenza dell'umano, la sua scomparsa dal mondo, tanto da sembrare fissati in un tempo immobile senza tempo; un po' come gli oggetti ricoperti di lava che si trovano nelle case di Pompei e di Ercolano. Un'umanità postuma, di cui solo gli oggetti sono rimasti a parlare, come piccole sfingi domestiche.
I funerali dell'anarchico Pinelli sono una grande opera, che nelle sue dimensioni si richiama subito a un'altra celeberrima del '900: Guernica, peraltro citata anche nella rappresentazione di un volto. La sua collocazione nella splendida sala delle cariatidi, così imponente, elegante e arcaica al tempo stesso, le conferisce una suggestione ulteriore. L'opera di Baj è un compendio delle tecniche, delle suggestioni, delle esplorazioni compiute dalle avanguardie nell'arco di un secolo e si presenza anche come opera totale, nel senso che ricorre alla pittura come alla installazione, si serve del ritaglio per costruire figure stilizzate che potrebbero stare a sé, ricorrendo infine alla tecnica del montaggio per dare all'insieme la plasticità necessaria. Le figure umane, monumentali come in certi dipinti di Leger, sono distorte nel dolore, si protendono tutte idealmente verso il centro della scena, che è occupata dal corpo di Pinelli caduto, come se nel funerale si rivivesse l'intera tragedia. Le bandiere anarchiche, sulle quali prevale il rosso, sono anch'esse una citazione, ma tutta l'opera è al tempo stesso rappresentazione della tragedia e sintesi di quello che l'arte più rivoluzionaria ha prodotto in un secolo: suggestioni cubiste, tratti persino naif, una ingenuità del segno che richiama certe maschere arcaiche e quel corpo caduto nel mezzo disarticolato come un manichino. Alla base delle figure, un letto di fiori che hanno l'effetto visivo di innalzare tutto il resto: la composizione vista plasticamente da lontano potrebbe sembrare persino un altare laico, e l'opera nel suo insieme la celebrazione di un rito: c'è persino una eco di realismo socialista in alcuni brevi scorci. Tuttavia, anche nell'opera di Baj, ciò che prevale è la fissità, la sua pittura-scultura-installazione fissa per sempre un momento che sembra essere il culmine di una storia gloriosa e sanguinosa che ha occupato più di un secolo con le sue dinamiche e al tempo stesso l'inizio del suo declino: la rappresentazione del quarto stato alla fine del lungo percorso che ci ha portato alla soglia di quella che Marx definiva fine della preistoria, e che invece da quel momento in poi ha cominciato a rivolgersi all'indietro. La monumentalità dell'opera suona antica e arcaica, come certe immagini delle statue dell'isola di Pasqua.
Abbandonando la sala, assorto al pensiero di quanto avevo appena ammirato di nuovo a tanti anni di distanza, l'occhio corre a un video: sono immagini montate un po' alla buona del festival del proletariato giovanile al parco Lambro di Milano, con tre donne nude e un uomo altrettanto nudo in prima vista, in mezzo ad altri che ostentano l'indifferenza rispetto a un atto che poteva ancora sembrare trasgressivo o addirittura liberatorio: l'immagine un po' patetica e provinciale di una Woodstock minore, chiusa nella lettera dei tempi, ben diversa dallo spirito dei tempi che è altra cosa.
Aldo:
Credo che al curatore della mostra, direttore di non so quale museo di Chigaco, gli anni 70 non piacessero. Perché dare la responsabilità della organizzazione di una mostra ad uno a cui il tema stesso della mostra non piace? Non piacendogli l'argomento ha lasciato la preparazione della mostra a gruppi diversi di persone. Ne deriva un lavoro disgregato senza tragitti e senza significati. Frattaglie di un decennio. Sono d'accordo con Paolo: perché fare una mostra per chiamarla "Addio anni '70"? Non era più semplice allora non farla? Anche io ho provato un senso di estraneazione: dove ero? Possibile che tutto debba riassumersi in Nanni Balestrini?
Ma non tutto va perduto. Si trae nell' insieme un senso di profonda ambivalenza: tra il comunitarismo e la solitudine, il collettivo e l'individuale. Come due metà che non si guardano più. Nella mostra gli anni '70 sembrano solo preparare il decennio successivo come se sapessero già cosa sarebbe successo. Ma l'insieme è una mancanza di senso. Le passioni sono già spente e nelle foto sui raduni di parco Lambro non c'è la gioia che invece c'era, mentre le grandi abbuffate, di non so quale ristorante pop, rinviano ancora una volta al consumismo pacchiano dei decenni successivi.
Ma c'è una frase in francese dipinta quasi di nascosto su un muro: "ciò che limita il vero non è il falso ma l'insignificante". Ma anche questa frase è terribilmente ambigua. L'insignificante è il decennio ‘70 o la minaccia del decennio '80?
C'è un video su una assemblea in Germania con Rudy Dutschke. Sono colpito dalla straordinaria forza di carattere che emanava dalla sua figura e dal suo carisma. Ma non c'è la traduzione e non si capisce nulla. Così come non si capisce nulla accostando ad un orecchio i bicchieri fonici delle spiegazioni dei vari video. C'è un video poi di un tizio che si accanisce a spaccare un pianoforte con una mazza. Sono colpito dalla resistenza del pianoforte: sembra non volersi rompere mai neanche sotto i colpi più tremendi. Forse il senso sta là.
Bellissime solo le seggiole e i tavoli di legno chiaro e fresco all'ingresso. Le scalette sbilenche, periclitanti da percorrere solo dopo aver scritto una liberatoria in caso di smarrimenti, svenimenti, travveggole e ictus sono lì per spiegare il tutto. Gli anni '70, suggeriscono, sono vertigine pericolosa e priva di senso, un andare in alto e in basso smarrendo il contatto con la realtà. Ma anche questo è sbagliato, andrebbero messe alla fine non all'inizio. Metterle all'inizio è già un dare per scemo l'incauto visitatore. Sono stati scemi gli anni 70? Ovviamente no.
Paolo:
Faccio una coda a quanto dice Aldo: non ricordo di aver visto nemmeno i Quaderni piacentini, che erano piacentini e non milanesi ma che a Milano hanno contato! In effetti rischiavano di costituire un filo rosso troppo impegnativo per la mostra!
Più ci penso e più mi vengono in mente le assenze: niente quotidiani dell'epoca! Lotta Continua, Potere operaio, Servire il popolo, Lotta comunista, Il quotidiano dei lavoratori...
Aldo:
In effetti non c'erano i Quaderni Piacentini ma neanche nessuna delle tantissime riviste della sinistra. Solo Re Nudo e riviste simili.C'è l'accentuazione Hippie e capellona con qualche sguardo molto distratto e lugubre alla politica. Il movimento delle donne è sottorappresentato ma anche ristretto ad alcune riviste e poi in fondo alla nudità degli incontri al Parco Lambro (una nudità che ora sembra provenire da un passato remotissimo e risulta perfino imbarazzante per quanto è diversa dal ritornato moralismo silenzioso ormai perfettamente padrone del territorio). La scelta dei libri e delle riviste, ancora più in generale, mi pare casuale come uno che avesse preso tutto da un magazzino e messo la alla rinfusa. No no. Caro Franco io non riesco proprio a riconciliarmi, come fai tu alla seconda visita, con una mostra che mi pare mostruosa, mortifera, anticulturale, pedante e assolutamente non esplicativa di niente. Non si tratta di dimenticare gli anni '70, si tratta di dimenticare la mostra sugli anni '70. Del resto ha stimolato qualche dibattito? Voi avete avvertito qualche cosa del genere?
Laura:
Hai ragione, Aldo. Mi è sembrata una mostra in via di allestimento, con qualche giornaletto trovato in soffitta, a caso. perciò mi irrita ancor di più l'Addio del titolo. Sarà così per chi non li ha vissuti intensamente come noi, ma addio non lo accetto. Dentro di noi sono maturate tante cose, consapevolezze, sentimenti, atteggiamenti irrinunciabili. Per me l'unica cosa che davvero spicca è la sala dedicata a Baj e ai funerali di Pinelli.
Paolo:
Ho fatto una rapida ricerca sulle recensioni alla mostra: non ho trovato né a sinistra né a destra neanche una nota negativa, tutte hanno rilevato nella mostra la doppia anima di quegli anni e si sono dichiarati soddisfatti per la polifonia delle voci artistiche presentata in un contesto di grande creatività e tensione politica.
E’ proprio il caso di dire che siamo una voce fuori dal coro. |