di Aldo Marchetti
Il 20 e 21 febbraio del 2013 l’intero subcontinente indiano è stato paralizzato da uno sciopero generale nazionale di due giorni con una partecipazione di circa cento milioni di lavoratori. Al centro dello scontro sociale, costato alcuni morti e decine di migliaia di fermi e arresti, c'è la denuncia delle politiche neoliberiste del governo.
On 20th and 21st febbruary last the indian subcontinent was paralized by a two day general strike. Nearly a hundred million workers joined the protest. The core of the social battle was the complaint against neo-liberal politics supported by the government. Thousends of people were arrested and some died during the riots.
Um 20 und 21 Februar, Indien war vor einem zwei Tage Streik gelähmt. Million Arberiteren und Arbeiterinnen teilnahm. Die Arbeitere protestiert gegen die neo liberalen Politischen. Tausende Arbeitere war festgenommen und mehrere getöten waren.
Da due anni l’India, spesso definita come «la più grande democrazia» oppure la «democrazia più complicata» del mondo, è scossa da lotte sindacali che per estensione e partecipazione rappresentano qualche cosa di nuovo nella sua storia recente. Già il 28 febbraio 2012 si era tenuto uno sciopero generale nazionale di 24 ore contro le politiche del governo di Mammohan Singh, esponente di spicco del National Congress Party. Lo sciopero indetto dalle tre maggiori confederazioni Intuc (Indian national trade union congress) di ascendenza gandhiana, Aituc (All indian trade union congress) di origine comunista e Bharatiya Maazdor Sangh, di matrice socialista, assieme al Sewa (sindacato composto da sole donne) e altre 600 organizzazioni minori, aveva coinvolto circa 100 milioni di lavoratori ed era stato definito da molti come il più grande sciopero della storia. Un anno dopo i sindacati indiani sono ritornati sulla scena raddoppiando la posta: il 20 e 21 febbraio del 2013 l’intero subcontinente è stato paralizzato da uno sciopero generale nazionale di due giorni con una partecipazione eguale se non superiore a quella di un anno prima. In ambedue le occasioni in tutte le città del paese, dalle megalopoli come Mumbai e Calcutta ai centri minori, sono state tenute manifestazioni con comizi, cortei, sit-in, barricate, cariche della polizia con alcuni morti e decine di migliaia di fermi e arresti.
Al centro dello scontro sociale vi è una piattaforma rivendicativa con la quale le centrali del lavoro denunciano la politiche neoliberiste del governo e chiedono la rinuncia alla privatizzazione delle imprese pubbliche e alla fusione delle banche, che comporta la chiusura in massa delle filiali dei villaggi rurali, con la conseguente impossibilità da parte dei contadini di accedere al credito; il blocco dei contratti di lavoro atipico o comunque l’equiparazione dei loro trattamenti a quelli dei rapporti a tempo indeterminato; l’aumento del salario minimo garantito e dei sussidi alle famiglie povere; lo stop all’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità; una politica fiscale più equa; un welfare più moderno ed esteso a fasce più ampie di popolazione. Ma è l’intera politica economica del governo Singh ad essere messa sotto accusa, per la corruzione dilagante, l’inefficienza, l’inerzia, la soggezione ai voleri delle multinazionali, l’incapacità ad affrontare i problemi più gravi della miseria, malnutrizione, mortalità infantile.
Bisogna tenere conto che i sindacati indiani dei lavoratori non hanno mai goduto di un grado di rappresentanza molto elevato: raccolgono si e no il 10 per cento della forza lavoro. Inoltre hanno sempre agito in concorrenza tra loro e prima di questi scioperi non avevano mai organizzato lotte unitarie, segnati come erano dalla stretta dipendenza dai partiti politici. Inoltre non hanno mai rappresentato i lavoratori del settore informale che in India rappresentano il ’90 per cento dell’intera forza lavoro composta nel suo assieme da quasi 400 milioni di persone. La loro forza è tradizionalmente limitata ad alcuni comparti dei servizi come le ferrovie e i trasporti pubblici, i porti, le telecomunicazioni, l’amministrazione statale. Nell’industria sono per lo più presenti nel settore tessile, nei complessi siderurgici e in qualche fabbrica automobilistica come la Tata. In genere gli studiosi del sindacalismo indiano hanno sempre criticato le grandi centrali del lavoro per la loro rissosità interna, per la presenza nei gruppi dirigenti più di intellettuali provenienti dalle file dei partiti che di lavoratori reclutati nel mondo del lavoro, per favorire i pochi lavoratori già garantiti in una sorta di sindacalismo bread and butter, trascurando la gran massa dei marginali e dei sottopagati. Come mai organizzazioni sindacali come queste hanno trovato la forza di mettere da parte le divisioni politiche e ideologiche e sono riuscite a ottenere il consenso di strati così vasti di lavoratori?
E cosa nota come, a partire dal 1991 l’India, chiusa per quasi mezzo secolo dopo la sua indipendenza in un sistema economico semi autarchico, che si definiva allo stesso tempo socialista e di mercato, abbia aperto le sue frontiere agli investimenti stranieri. Il protagonista di questi cambiamenti è stato proprio Mammohar Singh, l’attuale primo ministro che in quegli anni era ministro delle finanze. Da allora è iniziato un processo che nei primi anni di questo secolo ha visto aumentare il Pil dell’ 8-9 per cento all’anno. L’India si è messa al fianco della Cina, del Brasile e della Russia come uno dei nuovi grandi paesi emergenti. Lo sviluppo economico sembrava dovesse continuare senza ostacoli sino a fare del subcontinente asiatico una moderna potenza industriale che prometteva di superare persino la Cina e forse anche gli Stati Uniti. Nel paese si è formata in poco più di un decennio una classe media di circa 200 milioni di persone che per la prima volta hanno avuto accesso ai beni di consumo durevole come l’automobile e gli elettrodomestici per la casa. I milionari e i miliardari hanno cominciato ad aumentare di numero e a sfoggiare con sempre minor riserbo i beni di lusso di recente acquisizione (Non è raro veder circolare nel traffico infernale di Mumbai i modelli più recenti di Rolls-Royce che non si vedono neanche in una città come Milano). Lamiseria endemica e l’analfabetismo hanno cominciato a diminuire (attualmente, tuttavia, circa il 40 per cento della popolazione è ancora sotto il livello di povertà e cioè vive con meno di un dollaro e mezzo al giorno) ma allo stesso tempo le distanze sociali invece di accorciarsi si sono dilatate. In questo sviluppo sperequato il rancore sociale si è alimentato assai di più di quanto si sia propagata la speranza di un futuro migliore aperto a tutta la società.
Il tempo delle vacche grasse del resto non è durato a lungo. A partire dal 2008 l’economia indiana ha cominciato a dare i primi sintomi di rallentamento e attualmente il tasso di crescita si è quasi dimezzato passando dal 9 al 5 per cento. Ma soprattutto è il settore industriale a dare i peggiori segnali con un indice di crescita che sfiora ormai il 2 per cento e che si sta avvicinando alla stagnazione. In questo contesto molti cittadini indiani hanno capito di essere rimasti esclusi dalla corsa al benessere negli anni in cui l’economia del paese appariva florida e di veder sfumare ogni illusione di miglioramento proprio ora quando la torta si sta rapidamente rimpicciolendo. Il senso di frustrazione, la convinzione di essere stati ingannati, la percezione di una promessa tradita, sono probabilmente alla base del crescente disagio e della rabbia socialmente diffusa, che i sindacati hanno saputo cogliere e interpretare assai più dei partiti politici.
Al rancore nuovo del benessere disatteso si unisce quello antico del mondo contadino e delle caste escluse da ogni diritto di cittadinanza. L’India, nonostante l’esodo verso i grandi centri urbani, è ancora un paese agricolo, con il 70 per cento della popolazione che vive nelle campagne e nei villaggi e che spesso presenta il volto dell’estrema sofferenza. Negli ultimi 10 anni si sono tolti la vita 170.000 contadini poveri impossibilitati a mantenere le famiglie, ottenere il credito per continuare il lavoro o per migliorare le culture, pagare i debiti agli usurai.
Ma la campagna indiana è anche uno spazio di crescita dei movimenti ambientalisti che hanno una tradizione assai più lunga di quanto si possa pensare. Risale al 1970, quando si cominciava appena a parlare di ambientalismo. Il movimento si estese alla metà del decennio ‘70 nell’Uttar Pradesh per impedire la rapida deforestazione e per ripristinare gli antichi diritti di sfruttamento delle foreste da parte dei contadini poveri, disconosciuti dal Dipartimento nazionale delle foreste. Da allora i movimenti in difesa delle foreste si sono moltiplicati in tutto il paese propagando ovunque una cultura della difesa del territorio e della vita tradizionale delle popolazioni ad esso legate.
All’esperienza del movimento Chipko è legata anche quella delle lotte contadine nel West-Bengala rese memorabili dagli episodi di violenza di Nandigram. Il governo dello stato, che da decenni era nelle mani del Partito comunista indiano, nel 2008, decise di concedere una vasta zona dell’interno del paese alla multinazionale indonesiana Salim-Group per l’insediamento di un enorme stabilimento chimico. Il piano originario fu poi ampliato e venne prevista la costituzione di una zona speciale dedicata allo sviluppo industriale a cui erano interessate altre multinazionali compresa l’indiana Tata. Per dar corpo a questo progetto era tuttavia necessario deportare qualche cosa come 100.000 contadini e spianare una vastissima area dedicata all’agricoltura. Di fronte alla disperata difesa del loro territorio da parte dei contadini il governo non esitò a mandare un esercito di poliziotti e di squadre paramilitari per ripristinare l’ordine. Seguì un lungo periodo di violenze di ogni genere con più di venti morti, decine di feriti e stupri e uccisioni di alcune donne che si erano distinte nella conduzione della rivolta. Il Partito comunista del Bengala, che era al potere da trenta cinque anni anche grazie all’appoggio del ceto contadino, sarà alla fine sconfitto nelle elezioni del 20011. Qualche cosa di simile, anche se su scala più ridotta, è accaduto nello stato meridionale del Kerala. Anche in questo caso si voleva concedere un’area coltivata alla multinazionale sudcoreana iCosco per la costruzione di uno stabilimento siderurgico. La ribellione dei contadini della zona ha scatenato anche in questo caso la reazione violenta del governo con scontri, morti e feriti. Nella tornata elettorale del 2012 il Partito comunista del Kerala, che era al potere, è stato sconfitto, cedendo il posto al National Congress Party.
Le lotte operaie e contadine dell’India del nuovo millennio pongono problemi che non sono nuovi, che si ripetono ovunque, grosso modo, con le stesse modalità, e che trovano nel subcontinente indiano ulteriori materiali su cui riflettere. Sino a che punto lo sviluppo industriale di tipo tradizionale, per il solo fatto di creare nuovi posti di lavoro, viene accettato dalle popolazioni circostanti quando queste pongono su un piatto della bilancia la possibilità di un nuovo reddito e sull’altro la perdita dell’ambiente, delle occupazioni, delle tradizioni, della cultura originaria? Sino a che punto le formazioni della sinistra sono consapevoli del fatto che lo sviluppo tradizionale di tipo industriale da sogno nel cassetto può trasformarsi in incubo e che forse più che a pensare all’industria chimica o automobilistica è meglio riflettere su un nuovo (e, certo, più difficile da concepire) sistema di sviluppo? Fino a che punto i sindacati, che di solito vedono sempre con entusiasmo l’apertura di nuovi impianti industriali o di nuove miniere (il caso dell’Argentina è esemplare), sono disposti a pensare che la difesa del posto di lavoro in un’industria non è forse il solo modo di difendere le persone e forse anche il lavoro? Nel caso indiano L’Aituc (All Indian Trade Union Congress) in una recentissima dichiarazione si è schierato a fianco dei contadini del Kerala mettendosi contro la multinazionale coreana e il governo locale. Trovo questa presa di posizione degna del massimo interesse. |