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L'Oscar a 'La grande bellezza' fa discutere PDF Stampa E-mail
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Martedì 11 Marzo 2014 09:14

Redazione

La redazione ha raccolto commenti e critiche all’articolo di Paolo Borzi sul film La grande bellezza. Perlopiù le critiche hanno messo sotto esame da una parte lo stile, considerato troppo faticoso, ampolloso e bizantino, dall’altra in merito ai contenuti la lettura dell’autore è risultata troppo ideologica.

A queste critiche lo stesso Borzi ci ha inviato una risposta che qui riportiamo.

A seguire pubblichiamo anche un intervento di Franco Romanò per la redazione e infine l’intervento di un esterno – Silvio Pacillo - che ci ha inviato una sua lettera di commento.

 

Paolo Borzi:

IDEOLOGISMI: quando qui si è parlato di scelte ideologiche, si intendevano le operazioni intellettuali adeguate al rango dell’opera sulla base della sua stessa auto presentazione, e non necessariamente alla tendenziosità politica delle stesse. Se il termine “commedia” è molto invalso nel cinema, e Sorrentino stesso lo usa per distanziarne il suo film, non altrettanto invalso è il termine “tragedia”. Eppure, persino quelli della Mondadori ancora sanno che se una cosa non è l’una (leggera, comica, semiseria o seria privata) è nella sostanza l’altra.  Infatti scrivono nel loro dvd circa contenuto e personaggi: Dame dell’Alta Società; parvenu; politici; criminali d’alto bordo; giornalisti; attori; nobili decaduti; alti prelati; artisti e intellettuali veri o presunti (e con questo confutiamo chi ha notato che si voleva parlare solo degli ultimi, ma resta significativo che l’impressione sia stata quella). La Mondadori audiovisiva, nella sostanza, tiene il passo lungo che il regista auto proclama ma che nella sostanza non fa, celebrando uno scorcio di macchiette, timbrate queste sì di marchi partitici, nessuna delle quali sfiora un establishment  preciso (se non gli agenti di Pittura e i nobili, guarda caso due categorie ormai autoteliche). Non sono gap colmabili infinocchiando con paroloni, bella musica e riprese panoramiche. Con ciò, se la definizione conclamata fosse stata “fantacommedia”, magari intitolata “La Terrazza di Jep”, per dirne una, parametri e giudizi sarebbero cambiati, come dovendo giudicare un passo di foxtrot in quanto tale, e non in quanto valzer inglese. Nessuno se la sarebbe presa per radical chic e comunist  pink messi per la milionesima volta alla berlina, garantito; anzi, è da apprezzare il fegato di chi li ritiene ancora tanto, addirittura estremamente rilevanti. Gli scorci privati, i tic, le caricature, si addicono infatti alla commedia. O Anche alla “tragedia” se come, nel Gattopardo (anche come film), in una villa del Risorgimento siciliano passa di tutto relativamente all’epoca prescelta, e dentro tutto un Paradigma nodale. Cosa passa, nel terrazzo di Jep, del Vaticano reale, dei reali usi e costumi di quelli che determinano le nostre sorti anche estetiche, finanziando quando va bene un monumentale pastrocchio come questo e accreditandosene via stampa cartacea e on line (mica battute al Transatlantico) la paternità economica e l’affinità intellettuale? Io consiglierei di prenderne atto senza dimenarsi troppo, anche perché aver gustato questo film non diminuisce l’intelligenza e la sensibilità di nessuno.

CAPIRE DI CINEMA: non so quanto capisco di cinema, ma una cosa semplice e certa me l’ha insegnata uno dei massimi registi di questo paese, poco dopo aver completato la sua formazione. Gli fornii della documentazione per un suo lavoro, e venne a prendersela a casa mia. Mi chiese, un po’ tanto per parlare, se avevo una storia, perché con una storia e le risorse adeguate, il gioco è fatto. Qualsiasi diplomato nella fattispecie era capace di produrre emozioni estatiche con uno spot pubblicitario(!), immaginandolo magari un po’ dilatato e senza la doccia fredda dell’offerta commerciale da declamare. Immaginai subito una utopia in cui venivano elargite risorse e storie adeguate a tutti i giovani registi di quella cordata. Un’utopia, appunto. Ingmar Bergman, che capiva di Cinema, capì anche che questa Arte era già decrepita dopo roba come il Settimo Sigillo, il Posto delle Fragole, la Fontana della vergine e altri… anche per questo definisco “manierismo eroico” la nostra stagione immediatamente successiva. E ciò Bergman intese tanto bene che poi si diede a scrivere testi teatrali come sceneggiature o a far girare direttamente la cinepresa in una quinta di teatro, ché si poteva così portare una visione epica dentro il teatro senza uscirne fuori, come logicamente era costretto ad escludere Aristotele. Bergman capì perfettamente che l’alone creato con un po’ di calore sulla pellicola, come dai primordi, o anche un semplice gioco di ombre cinesi, possono sortire un effetto emozionale valido, nel contesto giusto, per qualsiasi fruitore di qualsiasi epoca, anche più di qualsiasi 3d. Ne dedusse, coi fatti,  che il futuro del Cinema non era in tecnica o tecniche ma nella sua nobilissima dipendenza dall’alta narrativa;  però  bisognava farne di nuova per fare un cinema nuovo: narrativa classica di argomento nuovo, visionaria, lineare o franta, allegorica, teatrale o romanzesca come si voglia, ma tale da distinguersi da un altro qualsiasi ordigno audiovisivo. Poi, si applicassero pure tutti i mezzi del Progresso; sempre se al servizio. Oggi tutti, proprio quasi tutti ce l’hanno con le Storie, che non siano storielle. Anche molti di noi, perché il “lineare e circolare” Ottocento è morto e sepolto con le avanguardie, eccetera. Eppure, l’antica funzione anti dogmatica della Storia, rivivrebbe oggi anche come liberazione del Cinema dalla dittatura audiovisiva aliena che lo combatte da fuori e che lo possiede dentro. Inoltre, il problema della cultura popolare ha connotati nuovi e drammatiche urgenze. Sviluppare ciò sarebbe un’autocritica intelligente. Che non posso fare ai compagni del Manifesto, che hanno giustamente notato che per rivedere una fabbrica occupata al cinema dopo decenni, ci è voluto Checco Zalone in “Sole a Catinelle” (sempre Medusa Film, ma lui può). Concludendo, direi che giudizio letterario e cinematografico, attrezzati o meno che siano, se non sono la stessa identica cosa, poco ci manca: e una stessa soluzione o congiuntura, se è ancora ipotizzabile, risolverà i problemi e della letteratura e del cinema. Ha da essere un coraggioso e delicato processo e progresso collettivo, altro che i mandrake Autori Unici del Capolavoro Unico, manco fossero Pasolini.  Nonostante questo parlo di buon accoglimento del risultato, per il futuro del Cinema: ovviamente facendo appello alla auspicabile  iniziativa del tutto individuale del buon regista; ché di per sé col Modello Unico il rischio forte è che Milano 2, dopo roccaforte della Fede dei Padri, diventi anche la Nuova Scuola di Atene, come nella sostanza ha già annunziato. Qui è la “dolce vita” di oggi, l’unica centrale che puoi anche incontrare proprio a Via Veneto.  Altro che Jeppino Gambardella, che ne è l’esemplare da bancone, stralunato dentro la palla souvenir del Colosseo.

LINGUAGGIO AMPOLLOSO: su questo tema chiedo l’attenuante della buona volontà. Se non ci si mette infatti come un certosino a riempire gli appositi spazietti d’un puzzle suggerito (qui è l’epoca scelta, questo è successo veramente, questo vien detto, commedia non commedia, selezioni gradibili a fruitori reali, qui quelle congeniali al finanziatore guarda caso in campo,  là quelle scritte etc..), le logorree pompose nel definire questo film possono davvero sprecarsi e di fatto ben altrove ce n’è stato un profluvio. Pensate a Roma Diva Morta, Eternità e Decomposizione, Vacuità Potente eccetera. Chiunque sa di poter spruzzare con la propria tromba il termine buono che evochi Grottesco Sublime, Apocalisse Mondana, Capolavoro Escatologico etc. Se anche la mia ampolla è ampollosa, mi sono onestamente sforzato di combattere lo stesso eccesso con ingredienti casarecci come parti del discorso abbastanza al posto loro, linearità di concetti direi proponibili, concreti ma certo non sempre semplici etc. Ma forse il tema mi ha contagiato. O più semplicemente, dopo la fine del felliniano ponentino, lo scirocco della Capitale tuona anche nella mia testa.

Grazie di cuore. Paolo Borzi.

 

Franco Romanò:

LA GRANDE BELLEZZA.

Il film di Sorrentino sta scatenando un dibattito infinito, specialmente dopo l'Oscar. Ieri sono arrivate molte critiche in facebook al saggio pubblicato da Paolo Borzi sulla nostra rivista. Fra coloro che hanno visto il film dopo l'assegnazione dell'Oscar e martedì scorso in tv, prevale il pollice verso: si oscilla fra giudizi che vanno dall'osceno al noioso. In quanto redattore di Overleft che concorda sostanzialmente con il giudizio negativo e circostanziato di Borzi  e con gli altri giudizi critici, mi sento chiamato in causa e provo a dire la mia. Prendo atto che se di un'opera d'arte si discute così tanto vuole dire che qualche corda profonda l'ha toccata e questa è prima di tutto un'autocritica da parte mia, che avevo ritenuto non ci fosse poi così tanto da dire su questo film: mi era parso una commedia troppo lunga, prolissa, troppo barocca e basta. Evidentemente su questo mi sbagliavo.

Venendo al merito, mi hanno colpito le frasi particolarmente animose che imputano a Borzi di avere mosso al film una critica ideologica. Nessuno è più ideologico di chi pensa di non aver alcuna ideologia e vede solo quella degli altri: essendo totalmente immerso nella propria, tanto da non riuscire mai a guardarla almeno una volta dal di fuori e non solo dal di dentro, finisce poi per esserne prigioniero. Borzi muove una critica serrata alla visione del mondo che ispira il film di Sorrentino, ma nel finale si interroga anche sui propri dubbi, si guarda dal di fuori e questo secondo me è un merito; ma proprio chi afferma che la Grande bellezza è addirittura un capolavoro, dovrebbe meditare su una parola come questa che, se presa alla lettera, rimanda la pellicola di Sorrentino al confronto con i suoi pari, dunque ai migliori film di Kubrik, di Fellini, di Eisenstein ecc. e visto che il film è pieno di citazioni anche letterarie, pensiamo prima di tutto a Dostoevskij, evocato nel titolo. Tutte le maggiori opere degli autori citati e di altri citati nel film, che ognuno può aggiungere a piacere, hanno alle spalle proprio una grande visione del mondo e anche ideologia ed è per questo che ha senso interrogarsi su quale sia quella di Sorrentino, visto che per molti e molte di capolavoro si tratta.

Per me non lo è e quello che vedo come motivo ispiratore del film è piuttosto una critica all'ideologia (intesa qui nel senso marxiano del termine e cioè di falsa coscienza), della sottocultura di sinistra (ogni visione del mondo ha le sue sottoculture), che Sorrentino vede particolarmente radicata a Roma (e su questo qualche ragione ce l'ha, visto che da altre parti imperversa di meno), ma che non costituisce affatto, a mio avviso, un'allegoria della decadenza italiana, non la sfiora neppure, ma rimanda solo a se stessa in modo auto referenziale. Infatti, il film è troppo pieno di autocompiacimento, di immagini che vogliono piacere a tutti i costi, di troppa bellezza a buon mercato (caspita, basta girare per Roma per coglierla!, ma non si tratta di un documentario), per essere una vera critica e del resto avendo a che fare con un aspetto in definitiva minore come la sottocultura di sinistra che intende mettere alla berlina, perché stupirsene? Il problema nasce quando si prende la rappresentazione di Sorrentino come una metafora o addirittura un'allegoria dell'Italia di oggi, come in tanti che hanno elogiato il film sembrano credere. Per andare a vedere se questo è vero, bisogna allora per forza considerare quali personaggi Sorrentino sceglie come emblemi di questa decadenza romano-universale; oppure, per usare una metafora letteraria, quali sono i correlativi oggettivi di questa benedetta decadenza.

Jep Gambardella, giornalista affermato, un po' cinico, ma anche scrittore che però non scrive più, avendo perso troppo tempo in convegni mondani, vittima della propria accidia e pigrizia, peraltro ben remunerata. Stefania, ex sessantottina che vanta meriti politici che sembrano invece dovuti ad altro, un prelato mondano che si intrattiene brillantemente nelle feste e piace tanto alle signore, Ramona, un antico amore di Jep Gambardella, ora ritrovato quasi in punto di morte (e forse se almeno il film fosse finito in quel momento ne avrebbe tratto giovamento), un'artista d'avanguardia la cui performance consiste nel dipingersi una falce e martello sul pube e poi prendere a testate l'acquedotto romano, una suora missionaria che viene dal continente africano. Gli altri e le altre sono comparse, anche quando sono interpretate da attori di un certo peso come Carlo Verdone o Isabella Ferrari. Sarebbero questi, dunque i personaggi emblematici della decadenza romano/italica?

Vediamoli uno ad uno, cominciando dai due meno banali: Jep e la suora missionaria. Il primo ha orrore del demi monde sottoculturale che frequenta (l'alta cultura di cui qualche recensore ha parlato, non saprei davvero dove andarla a cercare nel film), ma ci sguazza benissimo e ce lo mostra con narcisistica voluttà, rappresentandone al tempo stesso la critica. Nel momento in cui indica al pubblico quel mondo come orrore, in realtà prende per mano lo spettatore e gli dice, vieni anche tu nella grande decadenza, c'è ancora posto, anche per te. Gambardella rappresenta un ceto giornalistico italiano che spazia trasversalmente in molti quotidiani, ma specialmente in molta televisione  e questo è certamente un aspetto della corruzione dilagante, ma l'invito rivolto al pubblico a farsi complice della festa macabra toglie in partenza ogni punta di criticità al personaggio.

La suora missionaria una sua strana forza ce l'ha ma, come dice anche Borzi, Sorrentino è stato davvero sfortunato perché se l'arte con i suoi personaggi emblematici dovrebbe darci qualcosa di più della nuda realtà e trascenderla, qui accade il contrario e cioè che un Papa come Francesco risulta in definitiva più credibile anche della suora di Sorrentino, al quale va riconosciuto di essere doppiamente sfortunato, visto che ha vinto l'Oscar due giorni prima dell'intervista rilasciata da Bergoglio al Corriere della sera. La sua lettura mi riporta al terzo personaggio emblematico e cioè al prelato mondano, vanesio e in definitiva corrotto che nei salotti eleganti intrattiene il pubblico magnificando le doti del coniglio cucinato con il vino rosso. Sarebbe questo l'esempio emblematico della decadenza dell'ecclesia romana? Non lo scandalo dei preti pedofili, non quello dello Ior e della finanza vaticana su cui sempre Bergoglio sembra dare qualche colpo di accetta (e io da non credente nella sua fede faccio il tifo per lui e mi auguro davvero che ce la faccia), non lo scandalo di una Chiesa cattolica che non paga l'Imu sugli edifici non dediti al culto ma agli affari (su cui anche Bergolio sembra per il momento tacere), ma le esibizioni salottiere di un cardinale. Per questo è stato applaudito da tutti il film di Sorrentino e il Giornale trova addirittura straordinario proprio il personaggio ecclesiastico magistralmente interpretato da Herlizka. Sempre Bergoglio, non più di un mese fa, rivolto ai suoi cardinali e non a chi non crede nella sua Chiesa, ha detto che “bisogna smetterla con la tratta delle suore novizie!” Frase ben più sferzante, nel mettere il dito nel marcio che c'è nella sua chiesa, di qualsiasi messa in scena di piccole e insignificanti macchiette.

Infine l'artista d'avanguardia già citata, ma anche la folla di scrittori mancati, attrici e altro che gira intorno al demi monde di cui Jep Gambardella è il reuccio. In questo caso è un ceto sottoculturale che viene preso di mira, un ceto fatto di sfigati, talmente caricaturali che diventa facile far passare l'idea che al di fuori dei grandi poteri culturali e mediatici non ci sia niente ma solo una folla di miseri postulanti. E le responsabilità di questi poteri? Nessuna traccia. Che senso ha accanirsi con figure marginali? Forse quello di veicolare un senso comune largamente presente nel milieu sotto culturale nazionale (lo stesso che alimenta il mito di italiani brava gente): che siamo tutti un po' corrotti e un po' santi, sia in alto sia in basso, per cui alla fine una mano lava l'altra.

I LUSTRINI DEL POSTMODERNISMO.

Molti interventi nei confronti dei giudizi negativi sul film insistono sulla mancanza di una critica estetica e sui limiti di una critica contenutistica. Non credo che manchi del tutto, neppure nel saggio di Borzi che parla di un elemento centrale: l'esasperato citazionismo, su cui tornerò anch'io.

Molti estimatori del film scrivono più o meno che una pellicola cinematografica è fatta anche di grandi attori, grandi sceneggiature, gradi colonne sonore e grande fotografia: tutto questo nel film di Sorrentino ci sarebbe e quindi giusto premiarlo. Bene, partiamo dagli aspetti più positivi: la grande prova d'attore di Toni Servillo, Sabrina Ferilli ed Herlitzka. Nessuno contesta ciò: quando si mette insieme un cast come quello assemblato dalla produzione, anche a costo di far fare ad alcuni la parte di comparse, è abbastanza facile, ma bisogna pure distinguere fra la bravura di un interprete e l'opera nel suo complesso. La recitazione è anche una grande magia. Molti anni fa, Andrea Giordana, tenne, in una trasmissione televisiva che non ricordo, proprio una lezione sul fatto che un attore può trasformare anche la lettura di una ricetta di cucina in un monologo shakespeariano. Fu una grande esperienza di educazione all'ascolto e di estetica.

La fotografia del film di sorrentino è di altissimo livello e sta bene. La colonna sonora è un richiamo agli anni '80, cioè al momento in cui comincia la deriva politica e culturale di cui oggi subiamo tutte le conseguenze.

Sulla sceneggiatura, invece, ho molti dubbi. Il soggetto oscilla fra opzioni diverse, sembra modellato su una riedizione de La dolce vita felliniana, ma il trattamento lo smentisce e sfocia in una scaletta di sequenze assai prolissa perché si vogliono assemblare troppe cose, la lunghezza di certe sequenze, finisce per annoiare; ma specialmente la parte del film successiva alla morte di Ramona, appare un'aggiunta del tutto gratuita che aumenta solo la ridondanza. Su tutto questo gravano citazioni letterarie e cinematografie in una quantità veramente debordante. Sono gli stilemi del postmodernismo, peraltro già consunti, niente di veramente nuovo: meta cinema, meta letteratura e parodia, le vere novità non stanno qui.

OSCAR E SUCCESSO.

Il successo del film è indubbio e l'Oscar lo proietta nella storia del cinema e di questo prendo atto. Vorrei cercare di analizzarne brevemente alcune delle componenti, cominciando dalla più facile: la trionfale accoglienza americana. Facile, perché nella divisone internazionale del lavoro culturale e artistico i ruoli sono abbastanza definiti da tempo.

Il cinema d'autore più premiato negli ultimi vent'anni in tutti i più importanti festival, tranne che negli Usa, è quello proveniente dalle cinematografie dei paesi extra occidentali, con l'esclusione dell'India ma per scelta propria perché gli indiani, che hanno la cinematografia industriale più grande del mondo dopo Hollywood, hanno deciso per il momenti di puntare sul mercato interno. Oppure provengono da nazioni occidentali, ma periferiche, con l'eccezione dell'Italia, premiatissima sempre e questo testimonia di una indubbia e nobile tradizione che non perde colpi e che si avvale anche di opere precedenti dello stesso Sorrentino.

Dal greco Anghelopoulos al cinese Yan Gi Mou, all'iraniano Kiarostami, dai turchi Serif Gören e Ylmaz Günev, al montenegrino Manchevski, dal serbo Kusturica al finlandese Kaurismaki e georgiano Ioseliani, l'australiana Jane Campion, sono questi i grandi protagonisti. Uniche eccezioni, il britannico Ken Loach e gli italiani, appunto e forse qualcun altro che avrò dimenticato.

Gli statunitensi occupano il campo del prodotto industriale e lo esportano in tutto il mondo imponendo il doppiaggio nelle lingue dei paesi ospitanti mentre rifiutano il doppiaggio in inglese delle pellicole straniere. Il cinema d'autore statunitense non gode dei favori di Hollywood, tanto che Martin Scorsese, per fare un esempio, ha girato Gangs of New York a Cinecittà e non solo per un problema di costi, ma perché il soggetto del film era ritenuto troppo anti americano.

Quando si tratta dell'Oscar, però, tendono a premiare i film che si sposano meglio con la fascia medio alta del loro prodotto industriale (Spielberg è un autore fondamentale per capire questo), oppure perché incarnano i loro miti e immaginari più amati e in questo l'Italia fa la parte del leone. Non è un caso che fra tutti gli autori citati in precedenza, solo l'australiana Jane Campion con Lezioni di piano (migliore sceneggiatura),  e Kusturica, che ebbe una nomina, hanno ottenuto l'Oscar.

Nel caso specifico de La grande bellezza, cosa c'era di meglio di una Roma bellissima, di un po' di folklore mediterraneo e di decadenza imperiale, visti da lontano? Pochi altri film sono stati più ad hoc di questo per il pubblico americano. A parte Fellini e Antonioni che sono ben altro, anche i film di Benigni e Salvatores avevano altre valenze, ma lo splendido Cesare deve morire dei Taviani l'Oscar non lo ha visto neppure da lontano, così come Nanni Moretti.

Più complesse sono le ragione del successo del film di Sorrentino in Italia. Cominciamo dalla critica, che è sembrata molto più incerta di quanto normalmente non si creda. Il critico citato da Borzi all'inizio del suo saggio non è il solo ad aver espresso giudizi positivi, ma che sembrano esulare dal film stesso. Insomma pare che in molti abbiano pensato vediamo cosa dicono gli altri. L'arte di pararsi alcune parti nobili del corpo è una pratica diffusa e del tutto legittima. Le cose hanno cominciato a cambiare con il conferimento del Golden Globe e poi ovviamente siamo arrivati al trionfo dopo l'Oscar. Alcuni giudizi si capiscono subito. L'entusiasmo del Giornale ha ottime ragioni dalla sua parte: non par vero agli astuti recensori del quotidiano di poter dire che l'Italia che hanno solertemente cercato di demolire da vent'anni è così perché siamo tutti un po' così. Difficile capire invece l'entusiasmo di altri: il microfono aperto dell'emittente radio popolare di Milano dedicato all'Oscar di Sorrentino, mi ha davvero creato momenti di sincero imbarazzo. Sempre il recensore del Giornale, chiude il suo scritto con una frase con cui mi tocca di convenire. Rivolgendosi agli autori di molti peana entusiasti, tutti provenienti da una certo settore politico e culturale, dice più o meno: ma perché applaudite tanto e ridete, guardate che Sorrentino sta parlando di Voi! Il voi cui il quotidiano della famiglia Berlusconi si rivolge è il ceto politico intellettuale che si muove intorno al Pd e nei suoi paraggi e che ha fortemente applaudito al suo successo: indubbiamente alcuni personaggi del film autorizzano tale interpretazione e allora cercando guardare anch'io  dall'esterno la mia stessa critica mi chiedo se Sorrentino non abbia davvero confezionato uno scherzo da napoletano verace e un po' gaglioffo, pensando: Vuoi vedere che se faccio un film così, questi mi applaudono perché pensano che io stia parlando non di loro ma degli altri?

Tale ipotesi non mi induce cambiare opinione sul film, ma se così fosse tanto di cappello e anche una piccola speranza: che chi ancora pensa che da quel mondo finto progressista possa venire ancora qualcosa, decida una volta per tutte di voltare loro le spalle come hanno già fatto  da tempo milioni di italiani e italiane.

Silvio Pacillo:

La grande bellezza. Sì, mi è piaciuto.

Sono una persona cui piace il cinema, l’arte, la letteratura, la musica senza aver loro dedicato studi specifici, salvo una antica preparazione liceale di tipo classico. Guardo, leggo, ascolto per passione e gusto, attratto in particolare dalle esperienze di novità e arricchimento che gli autori possono fornire, se loro tentano davvero di farlo e se io riesco ad entrare in sintonia con loro, cosa che non necessariamente avviene sempre o subito. Allora rappresentano ai miei occhi incontri interessanti ed alternative o supplementi alle mie esperienze di vita o alla mia visione del mondo, per cui ne sono loro grato. Voglio dire che non ho elaborato alcun “metro” critico di giudizio che non sia legato alla mia percezione e sensibilità  dell’esperienza relativa. Non sono un critico né un esperto.

Premetto questa informazione perché mi consente sia di affermare la mia umiltà e nudità rispetto a chi ha ben altri strumenti critici rispetto ai miei, sia di mettere le mani avanti rispetto alla possibilità che i miei argomenti possano essere deboli, arbitrari, soggettivi, contestabili e in definitiva molto poco interessanti. Siccome però mi hanno invitato a dire qualcosa, non vedo perché evitarlo, in fondo tutti hanno il diritto di giudicare col proprio metro.

Bene. Da un film mi aspetto che mi coinvolga in una esperienza diversa, altrui, che non potrei fare o non riuscirei a fare senza l’aiuto di chi il film lo fa, sia perché racconta vite o storie di altri, sia perché le interpreta con la sua sensibilità ed il suo stile. I registi più bravi, secondo me, creano altri mondi, fisici o psichici, in cui ti trovi tuffato a vivere per un paio d’ore e poi per tutto il tempo in cui quell’esperienza te la porti dietro o dentro. Non cerco rigore, modelli, conferme, affinità, e mi irrito se provocano o vellicano artificialmente  le mie opinioni, gusti, istinti allo scopo – prevalente o unico - di farsi “comprare”. Non avverto alcun bisogno di essere d’accordo col regista o di trovarmi sulla sua lunghezza d’onda, anzi, tutt’altro: se mi dice le stesse cose che già penso, esco deluso e con la sensazione d’aver perso tempo. Vorrei solo che mi dicesse qualcosa di nuovo e di suo, che valga la pena di sforzarsi di comprendere. Quando non riesco, cerco di leggere cosa dicono altri, perché può darsi che sia io a non capire. Talvolta mi capita anche di tornare a vedere qualche film. In sintesi: amo il cinema.

Per questo preferisco i films che vengono da paesi o culture che non conosco, da registi nuovi o votati ad una espressività più personale o meno conformista, per citarne uno, Herzog. Per questo sono spesso diffidente di fronte al nostro cinema, e a quello americano in particolare, votati spesso a far cassetta e basta, riciclando messaggi sicuri e gradevoli al palato. Non che ci sia qualcosa di male, il cinema è sempre stato un prodotto di intrattenimento, ma non solo, ed io preferisco se c’è anche qualcosa d’altro. Trovo però che la trasparenza con cui gli americani valutano e misurano il cinema come spettacolo, quindi anche come qualità tecnica e successo commerciale, sia di gran lunga migliore rispetto a chi fa porcheriole senza rispetto per lo spettatore, e magari si paluda da Autore oppure ricicla messaggi graditi o politicamente corretti in polpette predigerite.

Mi scuso, ma tutto questo serve per dire perché a me la grande bellezza pare un bel film.

E’ coraggioso perché è costoso ma rimane originale e personale. Non si adegua e non indora la pillola. Immagina, inventa e provoca. Come gli altri film di Sorrentino ha uno stile caratteristico che gli conferisce una atmosfera particolare, immaginaria, sopra le righe. Comunque lo si giudichi, piacione o sgraziato, ammiccante o lezioso, estetizzante o spettacolare, iperbolico, ambiguo, allusivo o provocatorio, confuso, ridondante, citazionista o noioso, cinico, malinconico, anti-ideologico, persino qualunquista e nihilista, il film disturba, infastidisce, colpisce, sorprende e a quanto pare emoziona non solo me. Non mi interessa che sia perfetto, corretto, esemplare, chiaro, rigoroso. Non è un saggio o uno studio o una relazione a soggetto, e neppure un esercizio a tema. Per me non deve necessariamente avere il crisma della verità, nemmeno quello del realismo. Mi aspetto invece che dica la sua, giusta o sbagliata che sembri, e a modo suo, che piaccia o no. Che esprima.

Lo sento un film molto espressivo e profondamente umano, che parla di disfatte umane in città e società diventate poco umane con cui è difficile fare i conti e da cui è difficile uscire, ma ne parla attraverso l’invenzione visionaria, la reazione istintiva ed emotiva, l’analogia percettiva scatenate da un bombardamento di immagini/parole e di richiami o rimandi ad altre immagini o parole. E in questa cinica e grottesca carnevalata umana trova modo di rappresentare molte vite smarrite ed alcuni riscatti, trova soprattutto il modo di mettere a braccetto una grande bellezza ed una grande bruttezza in cui poterci specchiare, ognuno a modo suo, con rabbia ed indignazione o con rassegnazione e malinconia, o con tutte queste cose insieme ed altre, più o meno coinvolte o distanziate.

Non mi sembra poco. Né mi interessa riconoscermi o non riconoscermi come Berlusconiano o Pidiessino, Romano o Milanese, Italiano o Occidentale, né ho alcun bisogno di sapere con chi Sorrentino se la prende o di chi è la colpa. Tanto meno devo condividere la sua ideologia, filosofia, opinione o visione del mondo. Lui sta parlando a me, e infatti quello che arriva – e arriva - mi mette a disagio, mi irrita, mi provoca, mi fa incazzare e mi commuove. Mi spiace per chi non ne è stato coinvolto, perché forse ha perso qualcosa. Oppure sono io che ci metto dentro cose mie, che ad altri non toccano. Comunque mi pare difficile credere che questo film lasci indifferenti, mi pare più facile pensare che irriti così tanto da farti distanziare. Non so, posso sbagliare.

E’ un capolavoro? Non credo, soffre della stessa precarietà di cui parla. In fondo né Gambardella né Roma rappresentano un punto di riferimento universale. Inoltre, benché lui lo abbia dichiarato, non credo neppure sia il suo miglior film, anche se mi sembra il più complesso ed è riuscito a reggerlo magistralmente, cosa che fa ben sperare per il futuro. E’ criticabile? Penso proprio di sì, ed ognuno è libero di usare il suo metro, forse è sul metro che potremmo trovarci a discutere ma io, avendo solo il mio, di questo ho fatto uso.

Citazioni di Sorrentino

“Fellini è il genio, il più grande narratore dell'Italia…il tecnico per eccellenza e il più grande produttore di sogni e immagini".

"Il pubblico americano è molto meno legato ai luoghi comuni. Sono più aperti e flessibili, di fronte al film non hanno ragionato per schemi. La maggior parte più che Fellini ha visto ritratte certe miserie o gioie degli esseri umani".

"La polemica va bene, vuol dire che non ha lasciato indifferenti, finché un film riesce a rimettersi al centro dell'attenzione, delle emozioni e dei ragionamenti mi sembra che abbia centrato l'obiettivo".

"Quel che mi piacerebbe e spererei per l'Italia è di rimettere la cultura al centro, perché consente di sviluppare delle sensibilità che allontanano dal dileggio, dalla retorica e dalle manfrine che avvolgono i nostri giorni, e che sono abbastanza deludenti".

 

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