Seguito al recente seminario di Parma del 5,6 novembre intitolato Rigenerare il futuro, il dibattito redazionale si è concentrato su due temi in particolare: la necessaria e non occasionale assunzione nella propria mentalità della cura da parte degli uomini (Picchio) e lo specismo come modello di dominazione su tutti gli animali umani e non.
After the recent seminary held in Parma on the 5th and 6th November last, and entitled To Regenerate future, the debate inside the editorial staff has focused two themes in particular: the necessary and not occasional engagement on care work by men (Picchio) and speciesism as a model of domination on all animals, human and not (Rivera).
Overleft Vervassung teilnahmt an einer Zusammenkunft in Parma: wieder erzeugen den Zukunft. Unsere Debatte zwei Punkten eingestellt hat: die notwending Veranwortlichkeit des Männer für die Pflege Arbeit und Menschen Gattung als ein Modell alles Tiere (menschlich und nicht) zu herrschen.
Franco:
Prima di sentir parlare qui Latouche pensavo che decrescita fosse una parola sbagliata o per lo meno inadeguata per nominare una cosa giusta: dopo quello che ho sentito penso che il problema non sia sulla parola, ma sulla cosa, nel senso che tutto il discorso è fondato su un richiamo alla coscienza individuale, una forma di soggettivizzazione che è legata fortemente al solo individuo. Per questo, passato il primo momento, non mi stupisco più che si sia parlato poco di pratiche e ancora meno di conflitto, perché se il tipo di coscientizzazione si richiama a pratiche personali, al massimo può dare vita a una morale ma non a un'etica. Prendo questa distinzione dal greco, dove la morale è solo personale, mentre l'etica è comunitaria, ha a che fare con il metron, la regola sociale, la legge condivisa. Certe affermazioni di Latouche mi hanno ricordato l'intervista reciproca fra Luis Sepulveda e Carlin Petrini, un libro molto bello, piacevole da leggere sul piano della letteratura, con il suo elogio della convivialità, il richiamo a una vita sobria. Certo che è tutto condivisibile, ma una semplice sommatoria di pratiche personali virtuose non può risolvere i problemi.
Alla fine ho l'impressione che dietro questi discorsi ci sia in realtà una sorta di rinuncia pregiudiziale alla politica, sostituita da una predicazione di tipo laico. Vorrei però a questo punto abbandonare il termine e riprendere invece il discorso aperto da Paolo sui modi di rallentare la distruzione e sul come lavorare dentro la devastazione e la distruzione. Infine, mi piacerebbe di più capire anche la connessione con il femminismo perché la parola decrescita è stata criticata anche in alcuni interventi come quello della Di Dio, per esempio. In sintesi, se a partire dalla proprie pratiche non si introduce un discorso di secondo livello che è la capacità di saltare dalla propria pratica a cui nessuno chiede di rinunciare a un livello di confronto vero con altre, non si esce dal circolo vizioso e ripetitivo e infatti non so bene come si continuerà dopo questo convegno anche se penso che dovremmo fare uno sforzo per sollevare questo problema.
Adriana:
Penso che il termine decrescita risulti troppo connotato di pauperismo e quindi provocatorio verso la maggioranza delle persone, già affaticata da allarmi mediatici e assillanti su tutto, prospettando una vita individuale misera e stentata, con il risultato di oscurare il vero fuoco del problema: l’esigenza di un cambiamento radicale del sistema di produzione e consumo, e di relazioni tra persone, animali non umani e risorse. Concordo con chi, nella giornata del Convegno alla quale abbiamo partecipato, ha sottolineato l’importanza della presa di coscienza, anche individuale, delle tematiche affrontate dal termine, al quale preferirei sostituire l’espressione conversione ecologica, o qualcosa del genere. L’obiezione che fai tu Franco sulla dimensione troppo soggettiva e impolitica mi fa venire in mente i discorsi sul femminismo dell’autocoscienza agli inizi degli anni ’70, quando si riteneva che una pratica così individuale e soggettiva difficilmente potesse approdare a una dimensione politica. Il fatto è che secondo me il momento culturale è già una dimensione politica. Ho notato però che al Convegno si è parlato poco di iniziative collettive, quanto soprattutto di pratiche personali, neppure si è parlato di conflitto, che suppongo si determini con chi si trova a proprio agio nel sistema attuale.
L’unica che ha parlato di conflitto, interno ai gruppi della decrescita, è stata Alessia Di Dio che ha posto l’accento su una contraddizione tra il suo essere femminista e appartenere alla decrescita, nel senso che ha sperimentato la mancanza di una prospettiva di genere sia nelle teorie che nelle pratiche della decrescita. Non mettere a tema il patriarcato che ha imposto l’attuale divisone sessuale del lavoro trascura tutto il discorso della riproduzione, biologica e sociale, che grava principalmente e massicciamente sulle spalle delle donne. Così quando si parla di riduzione del tempo di lavoro ci si riferisce al lavoro produttivo e quando si parla di tempo liberato si parla di tempo da dedicare al gioco, alla vita contemplativa, al divertimento, agli affetti, senza tener conto del tempo obbligato della cura. Eppure c’è una direzione di pensiero comune tra femminismo e decrescita, relativa alla critica dell’uso delle risorse, l’attenzione alle relazioni tra persone, animali e cose.
Franco:
Mi inserisco qui per entrare nel merito di quanto dice Adriana sull'autocoscienza. Secondo me i due processi di individuazione soggettiva fra autocoscienza e decrescita non sono paragonabili. Non mi sognerei mai di applicare quanto ho detto a proposito della soggettivizzazione individuale rispetto alla decrescita, all'autocoscienza. Le donne non potevano che passare da quella strada perché il loro problema (se ho capito qualcosa delle molte letture di quegli anni), era quello di diventare un soggetto collettivo e non delle una più una rispetto all'uomo, la cui identità gruppale era data per definizione. Il processo di identità collettiva non poteva che partire dalla dipendenza dallo sguardo maschile e quindi in termini marxiani dalla sovrastruttura immaginale prima ancora che dalla condizione materiale. Per fare questo era disponibile solo la via soggettiva e individuale per partire da un sé da mettere in comune con le altre e quindi hanno fatto bene le donne a rifiutare il discorso: “ma guardate che ci sono altri problemi”, perché il loro problema era questo e non c'era che quella via per diventare un soggetto in qualche modo collettivo.
Per la medesima ragione ritengo che invece l'autocoscienza non fosse e non sia la strada per gli uomini che devono imparare a uscire dal gruppo e stare in piedi singolarmente uno per uno e non viversi invece sempre come gruppo anche quando sono da soli. Insomma, per prendersi la responsabilità della propria vita, del proprio corpo e della propria sessualità e persino della propria igiene personale, gli uomini devono uscire dal gruppo le donne devono entrarci. Naturalmente il tutto andrebbe elaborato ben di più perché ha anche a che fare con un paradigma di tipo scientifico. La scienza (maschile o la scienza tout court), non ammette che si possa dare una definizione scientifica della singolarità...
Adriana:
Non capisco Franco quando dici che volevamo diventare soggetto collettivo. Noi donne siamo sempre state considerate appartenenti a categorie, a gruppi sociali caratterizzati dalle funzioni prevalenti :madri, puttane, donne per bene; secondo alcuni dizionari la donna è definita la femmina dell’uomo. Il percorso allora era proprio quello di diventare da appartenenti a soggetti collettivi individue autonome e indipendenti, una per una, con le nostre diversità.
Pensa che ancora oggi molti politici e politiche, sindacalisti e sindacaliste, affermano di parlare in nome delle donne, a favore delle donne, o di parlare di giovani, lavoratori e donne! Per fare questa operazione di individuazione occorreva prima indagare le complicità con l’ordine del discorso dominante che si voleva sovvertire e poi confliggere, una per una, con i vincoli interni e quelli esterni, sociali, culturali, politici. L’autocoscienza è servita per l’analisi e a darci forza, tutte insieme, per i processi individuali. Per questo non ha senso un partito delle donne.
Paolo:
Devo confessare che la decrescita non mi ha mai interessato più di tanto. Ma non posso negare che ha avuto anche su di me una certa attrazione in buona sostanza perché rovesciava il paradigma della crescita. Ma non ho mai legato comunque il termine a una pratica politica da perseguire. Mi sembra un discorso poco interessante, trovo poi del tutto inutile cercare di indurre a comportamenti da decrescita, cioè sobri e parsimoniosi, per il semplice fatto che sono già imposti a livello di massa dalla crescita e diffusione della crisi globale sul pianeta e con i quali comunque tutti saremo costretti a fare i conti. E comunque fa appello alla sensibilità individuale quindi siamo su un piano prepolitico. Altro discorso invece proviene da una declinazione del termine nel senso di promuovere quei conflitti che servano a rallentare la crisi. Si tratta cioè di individuare le mille situazioni conflittuali che già in parte conosciamo e metterle in contatto, un lavoro cioè che solitamente prevede un forte soggetto politico e un’organizzazione, cose che oggi qui non esistono se non in minima parte.
Uno spunto molto interessante è provenuto nella parte di convegno cui ero presente dall’antropologa Annamaria Rivera (alla quale peraltro va il merito di aver introdotto nel convegno una ventata difreschezza dovuta al suo linguaggio creativo e originale, tipico di quando la ricerca ha sostanza). L’antispecismo non lo conoscevo nella versione che lei ne dà. Non si tratta tanto di amore generico per gli animali quanto del rispetto verso i corpi viventi sui quali ha senso non esercitare quelle violenze che fanno tutt’uno con l’esasperazione ossessiva della crescita a tutti i costi. Il che può significare l’apertura di conflitti contro l’iperproduzione di bestie da macello, di terreni destinati a monoculture per alimentarli, di antibiotici ecc.
Franco:
Riprendo quanto detto da Paolo. Le strategia di lotta per il rallentamento della devastazione sociale e ambientale vuol dire anche fare i conti con una velocità distruttiva che non ammette barriere e quindi è oggettivamente un modo antagonista di contrastare il turbo capitalismo, ma nello stesso tempo apre degli spazi di vita possibile dentro il conflitto. Quanto all'intervento della Di Dio penso questo. Non era ideologico perché è stata ricordata la questione dei calzini degli anni '70 ma perché sarebbe stato assai più interessante che dicesse qualcosa su come nel villaggio ecologico la questione è stata affrontata ed eventualmente risolta o no. Sarebbe stato un confronto su una pratica concreta dell'oggi e allora il richiamo agli anni '70 andava benissimo. Ma senza tale confronto, l'intervento dava forse un po’ troppo per scontato che non ci siano stati dei cambiamenti, mentre io credo che molte nuove coppie che avessero ascoltato l'intervento non si sarebbero identificate con quel discorso.
Adriana:
Sì, è vero che i giovani padri fanno i corsi pre-parto insieme alle loro compagne, ma il discorso è quello di prendersi prima di tutto la responsabilità di se stessi e del proprio corpo, prima che dei bambini, o altro, senza delegare questa responsabilità neppure fantasmaticamente sulle donne.
In questo senso può verificarsi un rovesciamento di paradigma, perché significa impostare diversamente i rapporti con lavoro produttivo, sovvertire l’organizzazione di tempi e spazi e rivendicare tempo per sé, non solo condurre lotte per la conciliazione dei tempi di delle donne, come afferma il promo comma articolo 37 della Costituzione italiana , che recita: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Paolo:
Un altro intervento interessante è provenuto dall’economista Antonella Picchio, le sue parole hanno avuto ahimé scarso riscontro nel convegno e non so come spiegarlo. Il suo ragionamento ha relegato al margine certi discorsi da anni settanta riecheggiati nella sala con i quali si rilanciava la conflittualità maschile femminile sulla condivisione dei lavori domestici e quant’altro. L’assunzione di responsabilità nella relazione, soprattutto da parte dell’uomo nel ‘prendersi cura di se stesso’, ha argomentato Picchio, mette in secondo piano la questione di chi lava i piatti o lava i calzini. Del resto come dice Adriana i tempi in questo senso sono cambiati non poco, le nuove generazioni di padri condividono i lavori domestici con le proprie compagne il che da solo non garantisce la necessaria messa in gioco di stereotipi, paradigmi di comportamento, mentalità.
Franco:
Mi domando a questo punto se possono essere d'aiuto anche delle battaglie di tipo legale come hanno fatto per esempio in Francia dove la questione dei congedi di maternità e paternità è stata resa obbligatoria per legge.
Adriana:
Qui torniamo al discorso di prima della divisione sessuale del lavoro, nel senso che molti uomini, anche della generazione precedente la nostra, se costretti a vivere da soli, hanno saputo e sanno prendersi benissimo cura di se stessi. Ma il punto è un altro, se non è una costrizione, ma una scelta, entra in ballo la diminuzione di prestigio sociale. Anni fa i bambini e le bambine di una scuola media mi confessavano candidamente che se un uomo si stirava la camicia da solo non doveva essere tanto uomo. Quindi resta che un uomo può condividere le attività di cura, può svolgerle in assenza o in supplenza di donne, ma la responsabilità ultima è sempre prerogativa femminile.
Rispetto poi al diritto di paternità, più che diminuzione di prestigio sociale c’è una questione pratica: finché le donne continueranno a guadagnare meno degli uomini non è conveniente che abbia una riduzione di salario il percettore del reddito più alto, cioè il padre. Ecco perché il numero maggiore di uomini che ha chiesto il congedo di paternità è costituito da insegnanti, impiegati.
Franco:
Sullo specismo. Mi rifaccio solo all’intervento della Rivera, perché non ho letto il suo libro. Il suo è stato il solo intervento che abbia davvero tenuto insieme produzione e riproduzione in termini conflittuali. Basta pensare al dato del 50% della produzione di cereali e soia che vanno nella alimentazione animale volta a produrre la carne che mangiamo, invece che nutrire direttamente le popolazioni che coltivano questi prodotti agricoli per capire l'entità del problema, cui va aggiunta anche la produzione di cereali per produrre carburanti di nuova generazione. In questo modo viene colpita tutta l'economia di sussistenza. Vorrei capire meglio, a questo proposito, qual è il pensiero del movimento della Via Campesina che raccoglie ben 400 milioni di piccoli produttori agricoli. Il discorso della Rivera ci rimanda al gigantismo della produzione intensiva e del rispetto degli animali.
L'agricoltura intensiva, specialmente nell'allevamento, fa venir meno il limite oggettivo al consumo di carne. Il pollo allevato veniva mangiato un anno dopo, oggi la vita media di un pollo è di 42 giorni, grazie alla nutrizione forzata nelle batterie. Il problema è però che questi benedetti movimenti animalisti e vegetariani pongono come pregiudiziale per qualsiasi discorso la fine del consumo di carne e questo impedisce di vedere che ci sarebbe un ampio margine di lotte e battaglie da fare proprio sul contrasto dell'allevamento intensivo e altro.
Mi domando anche che forse non è il caso di lasciarsi nemmeno intimidire da questa pregiudiziale si può cominciare una battaglia.
Adriana:
Il discorso dello specismo di Annamaria Rivera è per me fondamentale per quanto riguarda il modello di dominazione nei confronti degli animali. Modello poi che è lo stesso che giustifica anche un altro modello di dominazione nei confronti delle donne, delle popolazioni ritenute inferiori, dei bambini, dei deboli. Il modello di considerare esseri viventi, umani e non umani, solo in quanto strumenti di qualcosa, lavoro, svago, nutrimento.
La rapacità del sistema capitalistico poi si ingegna a intensificare l’utilizzo di questi strumenti, per accumulare più ricchezza, e allora abbiamo le multinazionali che praticano le monoculture distruttive di ecosistemi e che affamano intere popolazioni; allevamenti intensivi che sono luoghi di orrore per torture sugli animali. Spesso questi discorsi di rispettare tutti i viventi, anche gli animali non umani, si confondono a causa di posizioni estremiste e fanatiche, oltre che allarmistiche, che hanno l’effetto di allontanare da una conoscenza del fenomeno e dalla ricerca di soluzioni collettive e condivise per attuare forme di rispetto e di equilibrio. |