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Dalla Fondazione Prada all'Expo: prima puntata PDF Stampa E-mail
Rubriche - Letture e spigolature
Martedì 10 Novembre 2015 14:42

di Franco Romanò

I cambiamenti di Milano negli ultimi venti anni sono stati profondi ma poco guidati. Il testo è l'inizio di un viaggio interno alla città per tornare a scoprirla.

Milan deeply changed during the last twenty years, but these changes were not ruled. This essay is the beginning of a journay inside the city, in order to discover it again.

Während der letzen zwanzig Jahren, hat Mailand sich verwandelt, sondern waren diese Wandels nicht gefhürt. Diese Schrift ist den ersten Rastplatz einer Reise ins Mailand.

Prima puntata

La città sta cambiando di nuovo, anche nelle periferie. Non dico a ritmi cinesi (un palazzo di dieci piani costruito in una settimana), ma è indubbio che due cicli di trasformazioni si sono compiuti: il primo è quello seguito alle dismissioni industriali interne al tessuto urbano, avvenute durante gli anni '80 del secolo scorso e completato agli inizi del decennio '90; poi il secondo, nato dallo scontro sulla destinazione delle aree urbane. Tale fase si è intrecciata con i fasti della new economy, seguiti rapidamente dai suoi nefasti. In mezzo e in contrasto con tutto ciò, nuove pratiche di opposizione e resistenza territoriale si sono fatte strada faticosamente, nel mezzo del vuoto politico a sinistra, sempre più grande.

Centro direzionale Milano 1975 Porta Nuova

Due cicli interi di trasformazioni nel corso di una trentina d'anni non sono poca cosa e forse tentare un bilancio di quanto avvenuto non è tempo perso; per questo mi sono messo in viaggio per Milano e ho cercato libri e analisi che potessero aiutarmi nell'impresa.

Gli anni successivi alle dismissioni industriali furono di alto degrado: ricordo ancora la vecchia stazione della Bovisa a pezzi, intorno il deserto. Ci fu un delitto che scosse la città: una ragazza fu aggredita di notte, violentata e uccisa. Tutto il quartiere si mosse, ci fu una fiaccolata commovente, ma essa attraversava un territorio lacerato, con qualche sacca di resistenza costituita dalle vecchie sedi dei circoli operai intorno a Piazza Bausan: ma anch'esse sembravano assediate. Poi, pian piano, sono venuti il Politecnico, la biblioteca di via Baldinucci cominciò ad assumere un ruolo di aggregazione per cui è diventata famosa in tutta, sono sorti centri di aggregazione, nuove occupazioni, nacque la Scighera, un locale che continuava e rinnovava (e tuttora lo fa) la tradizione della vecchia Bovisa operaia, a contatto con i movimenti e i centri sociali di più recente formazione. Tutto bene allora? Per niente se l’espressione viene presa alla lettera: le aree abbandonate, le terre di nessuno sono ancora tante (ma a Berlino è anche peggio nel profondo est della città), però si è ricostruito un tessuto sociale e da qui si può ripartire, purché si capisca che occorre farlo dal basso.

La prima sensazione, dopo qualche giorno di peregrinazioni, tanto per cominciare e quindi in un modo discretamente casuale, è di sgomento; non tanto per quello che vedo (anche), ma per la distanza che esiste fra quello che è già avvenuto e avviene e la percezione che la popolazione ne ha e ancor più per l'assenza di riflessioni da parte di chi dovrebbe farlo: la politica, ma non solo.

La sinistra tutta, una volta espunte da ogni riflessione recente parole come ristrutturazione capitalistica e conseguente trasformazione dei modi di produrre e dei modelli territoriali e architettonici, obnubilati dalla teologia neoliberista alcuni, altri ad esercitare contro di essa le virtù di una rassegnata testimonianza critica, senza la capacità di andare alle radici delle trasformazioni avvenute, è caduta nell'afasia, al di là degli slogan oppure delle periodiche manifestazioni altrettanto impotenti del violentismo black block.

Tuttavia, fuori dal circolo vizioso della politica chiusa nel dogma della propria autonomia da tutto, cieca e sorda nei suoi apparati, c’è molto e ci sono stati anche tentativi generosi di collegare questo molto che esiste in termini di movimenti e iniziative di solidarietà sociale dal basso; ma sono tentativi per il momento falliti, oppure che hanno fatto sì un pezzo di strada, ma troppo breve per sedimentare e consolidare una pratica adeguata alle trasformazioni in corso.

Le analisi migliori della ristrutturazione capitalistica nel passaggio dal capitalismo industriale a quello che Costanzo Preve ha definito post borghese, o se si preferisce turbo-finanziario, sono venute in generale dagli economisti, da settori del movimento femminista che non hanno scisso le ragioni del genere da quella della lotta anticapitalista e dai movimenti ambientalisti che non hanno abbandonato una prospettiva di critica radicale al capitalismo medesimo. Alcuni di questi movimenti o singole personalità hanno posto al centro della riflessioni la dimensione antropologica (Ina Praetorius per esempio).

Sulle trasformazioni territoriali, invece, a parte Bonomi, non c’è molto e l’ho avvertito proprio aggirandomi per i quartieri di Milano, sorpreso io per primo da quel che vedevo e con poche bussole per orientarmi, a parte l’intuizione che l’idea di una città metropolitana è nata a valle e non a monte (e cioè come strumento di governo della mano pubblica), di processi avviati da altri.

 

La morte dei partiti di massa, la scelta del maggior partito della sinistra italiana, il Pci di trasformarsi in un'ameba mediatica all'americana (senza peraltro averne gli strumenti culturali), fin alla mutazione renziana attuale che ne ha cambiato definitivamente la natura, ha avuto come prima conseguenza l'abbandono del territorio, la perdita di controllo sui processi molecolari e macroscopici che in esso avvengono.

Recentemente, una bella iniziativa editoriale, nella sua apparente modestia, ha rotto in parte il silenzio. Ne parlo subito perché è stata anche quest'agenda edita da una piccolissima casa editrice (Agenziax) a spingermi a intraprendere questo viaggio urbano. S'intitola Re/search Milano, è stata varata con il sistema innovativo dal crowd funding ed è il risultato di una collaborazione fra artisti grafici, scrittori, attenti osservatori e osservatrici di quanto avviene in città: ed è anche naturalmente un'agenda con tante informazioni utili, che si snodano sul filo di una narrazione felicissima e avvincente. Ho usato l'aggettivo modesta perché infondo si tratta di uno strumento che non ha la pretesa di un saggio, di un’analisi approfondita del territorio, ma proprio per questo e nell'assenza di altro essa riempie un vuoto in modo intelligente.

Un altro pregio è quello di essere schierata criticamente nei confronti delle scelte amministrative e dei modelli territoriali proposti dai grandi poteri finanziari, ma senza semplificare ed entrando nel merito dei problemi pur nei limiti di una semplice agenda. È una buona notizia naturalmente e speriamo che da questa iniziativa ne sorgano altre e che ci siano molte presentazioni di questo bel lavoro fatto da giovani e meno giovani.

Detto ciò, il mio viaggio, con la preziosa agenda sotto braccio, ma in dialogo dialettico con la medesima, inizia dalla Fondazione Prada e finisce a Expo, sebbene non abbia alcuna intenzione di entrarvi, ma questo lo si capirà strada facendo.

La Fondazione è a due passi da casa mia, Expo dalla parte opposta. Il titolo dunque traccia un percorso ideale che abbraccia l'intera città fin nelle sue periferie più lontane; non sarà un viaggio lineare, ma mi muoverò alternando la via diritta con le mosse del cavallo e i ritorni sul posto; e sarà anche un viaggio nella memoria.

Il quartiere in cui si trova fa parte di una vasta area urbana ex industriale, occupata in passato dalla Om Fiat e dalla ferrovia di Porta Romana, quest'ultima risorta con il passante ferroviario e ora avviata sulla strada di altre opere collaterali, fra cui un’area dedicata a giochi per bambini e giostre.

La Fondazione si trova a ridosso dell'area ferroviaria, non lontano dalla stazione di Porta Romana vicina a piazzale Lodi, all'interno di un quadrilatero di quartieri residenziali di recente formazione che finisce quasi in piazzale Corvetto. Nell'area ci sono ancora vasti terreni da bonificare e corsi d'acqua, racchiusi fra strade di grande percorrenza: Viale Bezzi, via Ripamonti e Corso Lodi sull'asse verticale in uscita dalla città, Via Marco D'Agrate (prosecuzione di Viale Antonini) e Viale Toscana sull'asse orizzontale.

L'area della Fondazione non è ancora completata: si entra nella parte visitabile e in fondo s'intravede la grande gru e gli operai al lavoro. Fra i due lati una rete metallica divide il cantiere dal resto, ma fra i due spazi c'è una continuità evidente. La parte visitabile è una ex fabbrica di liquori, fatta di ampi spazi e magazzini, di porte che sono ancora quelle dei vecchi capannoni industriali. C'è un'aria di famiglia, ci si può immaginare di vedere gli operai in tuta blu aprirle quelle porte, riverniciate, ma lasciate intatte senza nascondere la loro origine. Prada è un esempio di archeologia industriale nel cuore della città.

Mentre mi danno il pass per entrare, penso ai picchetti mattutini davanti all'ingresso della OM Fiat, quando a Milano c'era ancora la nebbia, oggi quasi del tutto scomparsa. Il turno delle sei era il nostro come studenti della Bocconi. Uscivamo dall'università occupata e per arrivare in tempo e non c'era lo spazio neppure per un caffé. Raramente ci sono state botte a quell'ingresso, ma talvolta accadeva. Quando tutto filava liscio, a turno si andava al bar di via Verro, pieno di operai che entravano più tardi nelle piccole fabbriche dell'indotto intorno alla grande fabbrica o nelle botteghe artigianali; di solito non c'era bisogno di picchetti e tutti aspettavano di andare al corteo. Verso le nove quando era chiaro che non sarebbe entrato nessuno l'assembramento si scioglieva lentamente si sfilava insieme verso il concentramento da dove partiva la manifestazione.

Entro con una certa fatica nel primo salone grande, o meglio credo di farlo, perché il gioco di specchi e di colori tutti giocati sul bianco, il grigio fumo e il nero, gettano un po' di disorientamento e così invece di ritrovarmi nel salone delle statue, esco nel cortile e la cosa non mi dispiace affatto; anzi. Esso si trova nel mezzo di due palazzine basse e lunghe, mentre la torre dorata è a ridosso dell'ingresso. La pavimentazione è un selciato grezzo ma elegante di sampietrini, due alberi spuntano dalla terra circondata da un muretto circolare basso: è il solo arredo che sfugge a quella che doveva essere la pianta originale della fabbrica.

Poche sedie comode permettono di sedersi e ammirare le altre palazzine e il grande spazio in fondo, il magazzino, uno dei luoghi più affascinanti della Fondazione. I suoi soffitti altissimi, enormi, in uno spazio dove prevale il vuoto, nonostante la presenza di smaglianti o disastrati esemplari di automobili d'epoca e la pavimentazione originale con pochi o nessun ritocco e i muri di cemento grezzo, mi portano di nuovo dentro l'atmosfera della fabbrica industriale. Poche volte mi è capitato di entrarvi quando erano in funzione, recentemente solo in un enorme capannone di logistica, dove cumuli di pacchi se ne stavano accatastati disordinatamente ovunque, mentre gli operai andavano da un lato all'altro del salone su piccole macchine sferraglianti. Qui c'è solo silenzio, agli angoli, in lontananza, il personale di sala della Fondazione ci osserva mentre ci aggiriamo nel capannone e ci indica l'uscita. Ritorno nel grande cortile fra le palazzine ma dall'altra parte, vicino ad un albero con alcune sedie vuote ai suoi piedi.

Intanto sono entrati in molti, perlopiù ragazzi e ragazze dagli abiti falsamente informali, che attraversano gli spazi con un'ostentata indifferenza, si soffermano a volte in modo casuale e distratto a osservare un particolare o l'altro, entrano ed escono dalle diverse sale parlando fra loro, spesso in inglese. Immagino che siano studenti d'arte, architetti, designer.

Il mio sguardo corre al bar che avevo intravisto all'entrata senza farci troppo caso. È un locale minimalista, come usa dire chi se ne intende, quasi una nicchia rispetto ai capannoni. Le decorazioni alle pareti ricordano i bar della Milano anni ’50, sebbene certe immagini ci riportino ancora più indietro e cioè alle campagne pubblicitarie futuriste di Depero per la Campari. Gli spazi, tuttavia sono modernissimi, come pure i tavolini molto semplici e le sedie. Le poltroncine hanno incorporato una piccola estensione in legno simile a quella delle postazioni in una sala convegni, dove si depositano fogli o quaderni su cui prendere appunti, oppure - come in questo caso - su cui appoggiare la tazzina o il bicchiere. Wes Anderson, il regista che ha progettato lo spazio, aveva in mente l’Italia dell’immediato dopoguerra e infatti la macchina del caffé è una vecchia Faema, mentre nella vetrina dei liquori spicca la Ferrochina Bisleri. Gli elementi più vistosi dell'arredamento, tuttavia, ci portano fino alle propaggini degli anni ’60: due flippers e un vecchio Juke Box, con dischi in vinile d'epoca: nomi noti e altri di cui mi ero dimenticato, come Nini Rosso, per esempio, formano un carnet attentamente studiato.

C'è un elemento che unifica tutti gli spazi della fondazione: la luce. Tutto è stato studiato in modo da farla risaltare: la costante presenza di grandi vetrate, il colore bianco e grigio ma caldo delle pareti di cemento, i muri a specchio delle palazzine che riflettono e abbagliano.

Ora però mi avvio al salone delle statue che dal di fuori sembra un grande acquario nel quale, in mezzo alla riproduzione di opere famose dei grandi scultori dell'antichità classica, si aggirano i giovani e le giovani di prima, distratti, in posa con i loro telefonini ad auto ritrarsi vicino alle riproduzioni: se fossero nudi anche loro, l'opera totale sarebbe compiuta, la copia d'autore riflessa nei corpi vivi di questi ragazzi che guardano gli altri avventori come se fossero trasparenti, sembrano fatti appositamente per una rappresentazione scenica. Quando lo dirò a un'amica critica teatrale, pochi giorni dopo, mi risponderà: “Guarda che è già stato fatto, niente di nuovo.”

Esco dalla sala delle statue e salgo le scale della torre dorata, nella quale si entra pochi per volta per evitare inutile resse. È la sede di una mostra permanente di due artisti: Louise Bourgeois (1911-2010) e di Robert Gober (1954). Difficile trovare un collegamento fra i due assai diversi fra loro, ma anche preso ciascuno nelle loro poetiche, risultano alla fine indecifrabili, forse per le poche opere esposte. L’enorme scatola di farina di Gober è l’installazione che in modo più vistoso si richiama a Warhol, ma anche a Deschamps; altri lavori presenti sul tema della sessualità, in particolare, sono assai suggestivi ma sembrano indicare un percorso di ricerca completamente diverso. Quanto alla Bourgeois la sua installazione e la scultura in stoffa, sono esempi forti di arte povera.

Ritorno nel cortile mi dirigo verso il cinema, che è solo serale ed estivo, gratuito e con una programmazione di gran pregio: rassegne dedicate a singoli registi, film che non si vedono da tempo. Attualmente è di scena Roman Polanski.

Le palazzine l'una dirimpetto l'altra a sud e a nord, sono quelle che assomigliano di più a un museo tradizionale e la stessa cosa si può dire della torre dorata e della cisterna. Dentro quest’ultima vi è una sola installazione, una postazione medica (sono incerto se si tratta di un lettino da parto o altro), trasformata in acquario, entro il quale si aggirano pesci coloratissimi.

Le opere presenti nelle palazzine delineano un scelta molto chiara. Sono tutte contemporanee, tranne che in un caso, appartengono a noti artisti (Fontana, Pistoletto, fra gli altri). La presenza di un quadro di Picabia, il solo che alluda all'avanguardia storica del primo '900, indica quale sia il retroterra dell'esposizione. Insieme ai riferimenti a Magritte, alle composizioni a collages e altro, spicca due opere: la riproduzione in gesso di un sedere che potrebbe appartenere a una statua greca o romana e la riproduzione sempre in gesso di un busto maschile, sempre di origine classica. Forse è proprio la presenza di queste due opere a suggerire il senso del tutto.

Se la copia di un'opera famosa fa ormai parte ormai dell'immaginario collettivo, tanto quanto le citazioni di altri poeti dentro un testo poetico, talvolta con esiti notevoli, la riproduzione del frammento di una statua è un'operazione ancora diversa, meta artistica, che rimanda a una soluzione di continuità che porta alla nullificazione del senso e addirittura alla reliquia: ma almeno, per quanto possa apparire macabra la sua conservazione, il dito di santa Caterina conservato in una teca è davvero il suo dito e non una riproduzione.

Lo aveva ben compreso Walter Benjamin nel saggio sulla riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, risalente agli anni '30 del secolo scorso. Il postmodernismo nasce anche da lì. D'altro canto, tuttavia, la copia era una delle caratteristiche salienti dell'arte antica, la cui poetica in generale si ispirava all'imitazione della natura o di un modello, tanto che la produzione seriale (seppure sempre artigianale) era del tutto normale. L'originalità, invece, è stato uno dei marchi caratteristici della modernità e l'unicità dell'opera un dogma; ma quanto di piccolo borghese c'è in tale modello esaltato dal romanticismo e poi dalle avanguardie che dall'opera sono passate al gesto per poi virare sull'artista come personaggio? L'orinatoio di Deschamps è importante perchè è stato il primo ad avere avuto quell'idea oppure è diventato importante perché quel gesto è stato pensato da Dechamps quando era già famoso, mentre se fosse stato di un altro sarebbe caduto nel nulla? La merda d’artista di Manzoni era al suo tempo un gesto di rottura e di provocazione, ma la riproduzione in plastica della merda medesima da parte di altri, ne fa - a distanza di anni - un gesto effimero.

L'eterno dilemma sull'arte contemporanea si pone in questi musei della Fondazione Prada come un chiasmo. La copia, portata all’esasperazione tanto da diventare copia di un frammento, ci riposta al mondo classico e quindi a una concezione dell’arte che rifiuta il mito romantico dell’originalità e dell’unicità della creazione artistica, dall’altro però l’esasperazione di una sequenza seriale che può passare tranquillamente dai Bronzi di Riace a un particolare anatomico, ci pongono dentro i confini di una poetica postmoderrnista di cui ormai conosciamo tutte le pieghe. Il gioco dei rimandi continua nelle altre sale, perché non è più solo la riproduzione di statue antiche a venire rappresentata, ma questa poetica della copia arriva fino alle avanguardie storico. Così in una grande sala sono facilmente catalogabili come tali le gigantografie delle etichette del Cognac Martell, che ci ricordano la riproduzione delle etichette delle minestre Campbell di Andy Warhol, ma anche le gigantografie di piccoli quadrati colorati che rimandano al cubo di Malevitch oppure a Mondrian. Modelli o copie? Imitazioni oppure originalità? D'altro canto l'esagerazione ci porta assai prossimi a quella nullificazione del senso di cui parlavo prima e alla considerazione conseguente che tutta l'arte è postuma: ma non sarà postuma anche l’umanità a questo punto? Anzi, sembra che ci siamo proprio in mezzo, circondati come siamo da copie antiche e corpi moderni distratti da telefonini immagini e altro. Dunque, se la Fondazione Prada rappresenta tutto ciò vuol dire che siamo in un grande museo? La risposta non è facile. Se penso a certe sale direi di no perché vi prevale una voluttuosa immersione nell’essere postumi, senza alcun residuo critico e anche il pubblico sembra aderire nella sua maggioranza a questa omologazione che è anche l'ennesima trasformazione antropologica del gusto. Altre opere come quelle di Louise Bourgeos e Gober, invece, ci interrogano in modo più enigmatico.

I cortili della Fondazione PradaUscendo di nuovo nei cortili e ancora immerso in queste riflessioni, mi prende tuttavia un sussulto: le forme limpide dell'architettura del luogo, mi riportano al buon umore. Sotto l'albero circondato dal muretto basso, ci sono alcune sedie, Mi siedo e mi guardo intorno, poco più in là un gruppo di bambini gioca con le strutture della Fondazione, corre sugli scivoli o nel cortile-viale che separa le palazzine. Il clima è festoso. Sia come sia, quelle forme architettoniche antiche segnate dal lavoro operaio e la luce mi riconciliano con un luogo che si può godere anche standosene seduti con un libro in mano, senza consumare nulla, perché molti degli spazi sono gratuiti, o a poco prezzo e infondo, la sala delle copie di statue antiche si può ammirare anche dall'esterno.

Il fascino del contenitore antico, la fabbrica industriale, con il suo lavoro incorporato, alla fine si impone e mi viene da pensare che forse è anche meglio del contenuto: in una specie di barocco rovesciato, le forme che coprono e nascondono il vuoto dietro il quale c'è in agguato la morte, sono tutte all'interno; fuori si respira ancora.

 

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