di Piero Bevilacqua
Riproduciamo, con le note redazionali di Adriana Perrotta Rabissi e Franco Romanò, gli ultimi due capitoli del saggio di Piero Bevilacqua 'Ecologia del tempo. Un nuovo sentiero i ricerca'. L'intero saggio compare su 'Altronovecento, ambiente, tecnica, società. Rivista on line promossa dalla Fondazione Luigi Micheletti'. Dei due capitoli iniziali – Il tempo della fabbrica e Un secolare apprendistato sociale – riportiamo l’ultimo capoverso del secondo che ci sembra riassumere efficacemente la lunga digressione storica.
Il saggio di Bevilacqua ricostruisce il lungo processo storico che ha piegato gli individui e la natura stessa alla logica della produzione capitalistica. Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ha introdotto una drammatica asimmetria fra il tempo della natura e quello del consumo di cui solo recentemente si stanno tutte le implicazioni, così come la percezione del lavoro occulto necessario alla riproduzione sociale, in larga parte delegato alle donne.
The essay written outlines the long historical process which has folded human beings an nature to the logic on capitalistic production.The intensive exploitation of natural resources has created a dramatic asimmetry between time of nature and time of consumption, which only recently we are perceiving all implicaitons on: the same happens for what concerns for the occulto work necessary to social reproduction, mainly delegated to women. *
"Dunque, il sistema industriale di fabbrica organizzato dal capitalismo per produrre merci su una scala incomparabilmente più vasta rispetto al passato ha inaugurato un mutamento epocale: un’appropriazione totalitaria del tempo di vita degli uomini ( e, come vedremo, una dimensione e velocità di sfruttamento della natura destinata a crescere indefinitamente.) Finora gli storici hanno sottolineato, di questo grande mutamento, soprattutto le conquiste della tecnologia, la crescita senza precedenti della produzione della ricchezza, lo sfruttamento dei lavoratori. Assai meno l’inizio una nuova storia della vita biologica e psichica degli esseri umani: quello della perdita del controllo personale del tempo della propria vita e il loro assoggettamento a una potenza astratta e totalitaria che li avrebbe rinchiusi entro ferree delimitazioni e ritmi imposti. Gli uomini sottomessi al tempo della società industriale diventavano gli utensili di una nuova epoca di asservimento. E oggi suona paradossale rammentare che, nell’epoca in cui Immanuel Kant indicava come supremo principio etico del nascente illuminismo quello di considerare « l’uomo sempre come fine e mai come mezzo», gli uomini in carne ed ossa stavano per essere trasformati, nella loro grande maggioranza, in mezzi della società industriale capitalistica."
I tempi di lavoro della natura.
L’epoca che vede nascere la teoria del valore-lavoro, e quindi l’oscuramento del ruolo delle risorse fisiche nel processo di produzione della ricchezza, è la stesso che assiste al più gigantesco sfruttamento di quello che potremmo chiamare a buon diritto il tempo di lavoro della natura. Lo sfruttamento su larga scala del carbone a scopi di produzione di energia, nel corso del XVIII secolo, dapprima in Gran Bretagna e poi in Belgio e Germania, segna infatti una svolta senza precedenti nella storia della violenza antropica sulla natura. Com’è noto, la vicenda dell’uso del carbone in Inghilterra è molto antica. Negli ultimi anni gli storici dell’ambiente si sono insistentemente occupati dell’inquinamento di Londra provocato, già nel Medioevo, dall’uso domestico del carbon fossile proveniente da Newcastle ( P. Brimblecombe,The Big Smoke. A history of air pollution in London since medieval times,Cambridge 1987) Ma, certo, nel XIX secolo questo sfruttamento assume una nuova dimensione. E questo è stato ricordato da tanti storici. Ciò che vorremo ora sottolineare è un aspetto meno considerato, anche se esso non è sfuggito ad alcuni studiosi. La potenza energetica del carbon fossile e la sua stessa esistenza era interamente fondata sul millenario tempo di lavoro della natura.
Erano stati i tempi geologici di trasformazione della sterminata flora diffusa nell’era paleozoica a fornire ai gruppi dominanti dell’epoca un immensa fonte di energia, resa immediatamente disponibile dalla loro capacità tecnica di utilizzo. Artigiani, fornaciai, imprenditori siderurgici e meccanici, fabbricanti chimici ora potevano fare a meno del consumo degli alberi - soggetti a un lento tempo biologico di crescita e di formazione - e ricorrere a una fonte la cui immediata disponibilità e potenza era resa possibile dai milioni di anni di evoluzione della Terra. Essa, formata in epoche remote dal lavoro del sole (J.Martinez-Alier, Ecological economics. Energy, environment and Society, Oxford 1987, trad.it. Milano, 1991, p. 163) non era più soggetta ai cicli di rigenerazione della natura. Il tempo del pianeta veniva ora messo a servizio di pochi e potenti gruppi per scopi produttivi. E, com’è noto, il consumo quotidiano annuo di tale energia - oggi soprattutto del petrolio - corrisponde al consumo irreversibile di materia fossile elaborata dalla terra in centinaia di migliaia di anni. ( P. Sieferle, Perspectiven einer historischen Umweltforschung, in P. Sieferle ( ed. ) Fortschritte der Naturzerstörung, Frankfurt 1988, p.323 )
La rapidità del consumo industriale di energia non rigenerabile inaugura dunque una asimmetria temporale drammatica tra evoluzione geologica e tempo della storia umana. Quel breve segmento che è il tempo storico delle società divora con sconvolgente velocità e voracità il tempo geologico della Terra. Come ha osservato Wolfang Sachs, « the timescale of modernity collides with the timescales that governe life and earth…. Industrial time is squarely at odds with geological time ». ( Planet dialectics. Exploration in environment and development, London 1999, p. 189)
Ma l’uso del tempo della natura non riguarda solo il mondo fossile. In realtà, per quanto ne sappia, un aspetto importante è sfuggito a tutti i calcoli che hanno sin qui cercato di disvelare l’origine della ricchezza e di misurarne il valore: il ruolo del tempo di lavoro della natura. Eppure oggi a noi appare evidente che in ogni processo di produzione, per fabbricare qualunque tipo di merce - ma anche per rendere disponibile qualunque servizio - dobbiamo consumare una risorsa invisibile : il tempo. L’Economia Politica, come abbiamo visto, ha scoperto il valore del tempo di lavoro degli uomini. Ma il tempo di lavoro della natura è rimasto sepolto nel silenzio. Eppure c’è un tempo del mondo fisico inosservato che opera silenziosamente accanto agli uomini, senza il quale nessuna ricchezza - e ovviamente nessuna esistenza biologica - è possibile. Si tratta di una realtà di cui facciamo quotidiana esperienza ma che non riusciamo a osservare e a valutare. L’agricoltore che getta il seme di grano nella terra compie tale operazione in un determinato tempo di lavoro. E un determinato tempo di lavoro dovrà più tardi impiegare per mietere e trebbiare il grano. Ma quando il seme è nella terra comincia il lavoro segreto e invisibile della natura, l’attività chimica del suolo, che si svolge nell’arco delle stagioni, e poi arriva il contributo della pioggia, dell’aria e dell’evoluzione delle temperature, e infine, per tutto il corso della primavera, il sole è all’opera per la maturazione delle spighe. Un consumo di tempo lungo una stagione è dunque necessario per produrre la merce grano. Tutto l’immenso lavoro di formazione della fotosintesi clorofilliana, destinata a produrre beni e materiali su cui si eserciterà il lavoro umano di trasformazione, impiega del tempo per esplicarsi. L’acqua di cui quotidianamente facciamo uso è, certo, resa facilmente disponibile - per lo meno nei Paesi ricchi - dai dispositivi di captazione e conduzione realizzate dalle tecniche degli uomini. Ma dietro la sua abbondanza c’è l’inosservato lavoro del sole che diuturnamente solleva dagli oceani masse imponenti di vapore, le quali ritornano al suolo sotto forma di piogge, di fiumi, di sorgenti che restituiscono acqua purificata ed energia motoria agli usi correnti delle persone e delle industrie. E quest’opera silenziosa impiega del tempo.
In uno dei più ambiziosi tentativi di calcolo che la ricerca ambientalista ha compiuto per misurare i servizi e il capitale naturale che l’ecosistema mette gratuitamente a disposizione delle attività economiche, Robert Costanza e altri studiosi hanno giustamente osservato: « A large part of the contributions to human welfare by ecosystem services are of a purely public goods nature. They accrue directely to humans without passing through the money economy at all. In many cases people are not even aware of them. Examples includes clean air and water, soil formation,climate regulation, waste treatment, aesthetic values and good health » (R. Costanza et alii. The value of the world’s ecosystem services and natural capital in « Nature», 1997, n.387, p. 257) Questa conquista scientifica è oggi per noi di grande importanza culturale e politica. Mentre le corporations transanazionali tentano di appropriarsi, con ogni mezzo, delle risorse naturali collettive - acqua, biodiversità genetica, patrimonio culturale - noi dobbiamo cercare di mostrare che in realtà tutta l’attività economica, tutta l’appropriazione privata della ricchezza è resa possibile dal lavoro immenso e non pagato del nostro comune ecosistema terra. Tale acquisizione, tuttavia, non deve nascondere la dimensione temporale che concorre nel processo di produzione della ricchezza. Infatti, se è vero che gli ecosistemi naturali svolgono un ruolo economico che prescinde dal mercato e che non viene valutato, è anche vero che essi apportano un di più di valore, che è ancor meno considerato, e che consiste nel tempo in esse incorporato. In realtà tutte le risorse della terra che sono intorno a noi posseggono un valore economico, che non è semplicemente dato dalle loro qualità naturali presenti, ma anche, e talora soprattutto, dal tempo di lavoro con cui la natura le ha formate. I mari e gli oceani, la presenza delle terre fertili, il patrimonio delle foreste, il numero prodigioso dei semi e delle piante utili, la miracolosa ricchezza della biodiversità genetica sono tutte risorse immediatamente utilizzabili, ma grazie al fatto di essere il frutto di una lunga evoluzione. Anche il ferro, il rame, il marmo, tutti i materiali che entrano nel processo di lavorazione industriale mettono a disposizione delle qualità (durezza, resistenza, flessibilità, ecc ) che sono il risultato di un processo di formazione avvenuto nel tempo. Se tali risorse dovessero essere formate oggi, per essere impiegate nei tempi veloci del processo produttivo presente, ovviamente non sarebbero disponibili. La loro ricchezza non esisterebbe. I tempi di attesa per la loro disponibilità non sarebbero sostenibili. La velocità attuale nella produzione di merci, resa possibile dalle macchine, si infrangerebbe nella indisponibilità di materiali ottenibili, spesso, solo su una scala temporale di milioni di anni. Senza dire che le stesse macchine sono costruite con materiali appartenenti alla storia remota della Terra. Mentre l’energia è sempre tempo di lavoro della natura, che sia solare o fossile, idrica o eolica. Dunque noi non possiamo vivere sulle risorse del presente, se non in piccola parte. In realtà utilizziamo i millenni di tempo che hanno operato senza di noi. Utilizziamo una ricchezza invisibile che non è producibile da nessuna attività umana. Come ha scritto il fisico italiano Enzo Tiezzi, noi sfruttiamo quella « ricchezza che il mirabolante numero di relazioni della storia evolutiva ha costruito nel tempo » (E. Tiezzi, Fermare il tempo. Un’interpretazione estetico-scientifica della natura. Prefazione di I. Prigogine, Milano 1996, p.8, )
Il tempo è dunque una risorsa necessaria e ineliminabile nel processo di produzione della ricchezza ed esso è stato sempre considerato, anche, come uno dei suoi maggiori ostacoli. L’uso crescente delle macchine, a partire dalla rivoluzione industriale, non è che uno sforzo continuo, a una scala sempre più vasta, di superare i tempi della natura per rendere più veloce il processo di produzione di merci. La continua sostituzione del lavoro umano e di quello animale, con macchine mosse da una energia meccanica esterna - sia attraverso l’acqua che con il vapore, più tardi con il motore a combustione interna, ecc - ha avuto non soltanto lo scopo di fornire potenza, continuità, precisione, velocità alla lavorazione industriale. Si è trattato di sostituire un tempo di lavoro naturale, lento, subordinato ai vincoli biologici del corpo umano o animale, con un lavoro svincolato dai limiti della natura. Le macchine non sono che sostituzione di tempo naturale con tempo meccanico. Nelle macchine è incorporata la moltiplicazione del tempo di lavoro e insieme quello della stessa riproduzione del lavoro organico. Esse rivoluzionarono la temporalità anche perché sostituirono il tempo di riproducibilità fisica degli uomini e degli animali da lavoro. Quanto tempo era necessario per allevare un uomo, un cavallo, un bue? L’industria per la produzione di macchinario spazzò via queste durate, questi tempi di attesa. Il tempo di sfruttamento della natura si svincolava dalla natura stessa, inaugurando la funesta illusione della possibilità infinita dello sfruttamento delle risorse.
L’età dell’accelerazione.
Nel corso del XX secolo la ricerca sociologica ha denunciato i danni che la velocità crescente del lavoro di fabbrica e della vita sociale produce sugli individui. « No doubt - rammentava un sociologo indiano nel 1943 - machine and speed in many branches of production and departments of life have reached beyond the capacity of man and his social habitus to adapt, and this has increased the incidence of nervous instability and breakdown and of social disintegration » (R. Mukerjee, Time, technics and society, in « Sociology and social research», 1943 n. 27, p.262) La diffusione dello Scientific Management di Friedrick W. Taylor nell ‘industria degli USA, le sviluppo delle fabbriche di Ford e la diffusione di massa dell’automobile hanno potentemente accelerato i tempi del lavoro produttivo e della mobilità degli individui sul territorio. E quel grande mutamento inaugurato dall’America, diffusosi nell’Occidente, è stato ampiamente analizzato e discusso. Ma, forse solo con l’eccezione di Mumford, la ricerca non ha afferrato in quale misura la crescente velocità dell’attività produttiva, dei mezzi di trasporto, e dei movimenti individuali e collettivi apriva una nuova era nello sfruttamento della natura. Se non mi inganno è a partire da Barry Commoner che noi abbiamo compreso che la velocità di sfruttamento delle risorse naturali non era più compatibile con il tempo della loro rigenerazione. La velocità era diventata una nuova minaccia. Il cerchio non si chiudeva più. (B. Commoner, The closing circe.Nature ,man, & technology, 1971 )
E tuttavia gli studiosi che hanno privilegiato, nell’analisi di questa fase storica, la condizione sociale dei lavoratori, hanno cancellato una parte decisiva del tempo di lavoro umano utilizzato nel processo di produzione della ricchezza. Ad esempio, il lavoro domestico delle donne: quel tempo di vita che le donne destinano alla riproduzione della forza lavoro - sia con la gestazione, il parto, l’allevamento dei figli, sia con la gestione della casa per rendere i maschi pronti per il lavoro esterno - è stato espunto, per tutta l’età contemporanea, da ogni valutazione e da ogni calcolo. Il tempo naturale, in casa, che precede e prepara il tempo di lavoro produttivo, in fabbrica o in ufficio, non è considerato tempo produttivo di ricchezza. Il tempo di lavoro delle donne, che rende possibile ogni lavoro, subisce la stessa cancellazione del tempo di lavoro della natura. La vita e il lavoro per la vita restano fuori dalla valutazione economica, anche se ne costituiscono la condizione imprescindibile. Una svalutazione che continua ancora oggi, nonostante la parziale liberazione dal lavoro familiare, grazie agli elettrodomestici, e il significativo ingresso delle donne nel lavoro produttivo e nei servizi.
Tuttavia, la grande novità del XX secolo è un’altra. Le lotte, la lunga resistenza sociale degli operai ai ritmi della fabbrica e della società sempre più meccanizzata, ha portato - com’è noto - alla diminuzione dell’orario di lavoro, alla nascita del tempo libero. Una conquista sociale dei lavoratori, ma al tempo stesso una necessità per trasformare gli operai in consumatori di dei beni da essi stessi prodotti. Com’è noto, a partire dagli anni ’30, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, per l’industria capitalistica diventa importante non solo accelerare i tempi della produzione, ma anche quelli del consumo. Il tempo perduto con la diminuzione dell’orario di lavoro, da parte degli imprenditori, viene ampiamente recuperato con la sempre più ampia capacità produttiva delle macchine, mentre acquista un nuovo valore strategico il tempo di vita, esterno al lavoro, dei consumatori. Condizione fondamentale per tenere in piedi la poderosa macchina della produzione capitalistica è la possibilità di una dilatazione infinita della capacità di consumo di una massa crescente di individui. E questa dilatazione non è solo affidata alla conquista spaziale di nuovi mercati, ma anche alla rapidità temporale del consumo: alla velocità con cui i singoli consumatori rendono obsoleti i beni acquistati. Oggi, il profitto si realizza grazie a una sempre più rapida trasformazione delle risorse naturali in merci e la metabolizzazione di questi in rifiuti. Diminuire il tempo di obsolescenza delle merci - che è l’equivalente della velocità di distruzione della natura - è una condizione imperativa del cosiddetto sviluppo. Il motore nascosto di questa necessità sta nel fatto che il processo circolare Danaro-Merce-Danaro, quanto più è veloce, tanto più rapidamente realizza la valorizzazione del capitale.
Oggi incomincia ad apparire chiara la trappola in cui gli uomini e la natura sono prigionieri. Le risorse naturali devono essere distrutte a velocità crescente - sia nella fase della produzione che in quella del consumo - mentre gli uomini sono costretti a un uso sempre più vorace del loro tempo. Un tempo che non viene soltanto assorbito dall’orario di lavoro, ma anche dal tempo libero, dal processo di consumo. Com’è stato acutamente osservato, « beyond a certain number, things can become the thieves of time. Goods both large and small must be chosen, bought, set up, used, experienced, maintained, titied away, dusted, repaired, stored, and disposed of. Even the most beautiful and valuable objects gnaw away the most restricted of all resources: time (Sachs, Planet dialectics, quoted, p. 211). Anche gli strumenti che al loro apparire sembrano dover risolvere i nostri problemi di mancanza di tempo non fanno che accrescere le operazioni che ce lo sottraggono. Si pensi ai cellulari, ai computer portatili collegabili, ai vari dispositivi che ci tengono in rete. (L. Baier, Keine Zeit. 18 Versuche über die Beschleunigung, München, 2000, trad.it. Torino, 2004, p. 87). In realtà la divisione che per tanto tempo ha separato il tempo di lavoro dal tempo di vita, il tempo pubblico da quello privato, è stata abolita. Il lavoro e il consumo divorano giorno e notte il nostro tempo. E’ questo forse il più grande paradosso della nostra epoca: mentre il capitalismo ha realizzato un gigantesco processo di sostituzione del lavoro umano con quello meccanico ed elettronico, gli uomini sono sempre più privi di tempo.
Appare dunque evidente che il tempo è oggi la chiave di volta della sostenibilità. Occorre risparmiare tempo per la vita degli uomini e rallentare i processi per rendere rigenerabili i cicli della natura. Occorre tagliare i tempi di lavoro e di consumo degli uomini per liberarli da una insostenibile schiavitù. E occorre liberare la natura da un assedio «consumistico »sempre più distruttivo. Occorre risparmiare tempo, ridurre la velocità, per salvare la nostra civiltà.
(Testo apparso in "Contemporanea", 2005, n.3. Si veda ora, Piero Bevilacqua, Ecologia del tempo. Uomini e natura sotto la sferza di Crono, Castelvecchi, Roma 2018.)
Piero Bevilacqua, già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma ‘La Sapienza’, nel 1986 ha fondato con altri studiosi l’Istituo meridionale di storia e scienze sociali (Imes), di cui è presidente. Tra le tante pubblicazioni si ricordano: Breve storia dell’Italia meridionale (Donzelli, 1993, 2005), Miseria dello sviluppo (Laterza,2008), Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo (Laterza, 2011). E’ uno degli studiosi chiamati a partecipare al Manifesto Food for Health (Cibo per la salute) promosso da Vandana Shiva.
commenti redazionali:
Adriana Perrotta Rabissi:
Se per molti anni sono stati trascurati gli allarmi di scienziati e artisti rispetto al consumo smisurato negli ultimi due secoli di risorse naturali, acqua, terra, aria, per scopi di profitto; se le denunce dei cambiamenti climatici con le conseguenze disastrose per la vita di persone, animali e piante sembravano riservati a cerchie ristrette di addetti ai lavori, ultimamente, sotto l’incalzare dei disastri annunciati, si assiste al proliferare di analisi dei fenomeni e di campagne di mobilitazione.
Quello che fino a pochi anni fa era vissuto dalla maggior parte delle persone o come discorso catastrofista o come indicatore di posizioni antisviluppo e quindi arretrate, oggi è diventato senso comune, uscendo dalla nicchia comunicativa nella quale era stato rinchiuso.
Il femminismo nazionale e internazionale ha mostrato fin dall’inizio una sensibilità particolare nei confronti del rapporto con l’ambiente, con le piante e gli animali che lo abitano insieme a noi, non perché le donne siano naturalmente più portate a questi temi, ma perché storicamente sono state confinate nel perimetro della naturalità, come sfera più appropriata, dalla quale hanno lottato a lungo per emanciparsi.
Due sono stati i filoni lungo i quali si è snodata la riflessione ecologista femminista.
Da un lato il discorso della “coscienza del limite” elaborato da filosofe e epistemologhe, in seguito a due eventi catastrofici, distanti tra loro una decina d’anni, l’incidente della Icmesa, con la fuoriuscita e dispersione di diossina, nel 1976 e la catastrofe di Cernobyl, nel 1986. Dall’altro la lotta contro la separazione tra produzione e riproduzione, di cui si è giovato e si giova il sistema capitalistico per accumulare profitto e ricchezze.
Sulla base delle consapevolezze raggiunte negli ultimi trent’anni appare impossibile affrontare le questioni relative alla progressiva distruzione dell’ambiente senza chiamare in causa il nostro modello di sviluppo e consumo, conseguenza di un sistema economico sociale sempre meno migliorabile nella sua voracità e distruttività.
Franco Romanò:
Alla puntuale analisi di Bevilacqua, quanto mai esaustiva, aggiungo qualche rapida riflessione partendo da questo punto del suo intervento che riporto qui di seguito:
La rapidità del consumo industriale di energia non rigenerabile inaugura dunque una asimmetria temporale drammatica tra evoluzione geologica e tempo della storia umana. Quel breve segmento che è il tempo storico delle società divora con sconvolgente velocità e voracità il tempo geologico della Terra. Come ha osservato Wolfang Sachs, « the timescale of modernity collides with the timescales that governe life and earth…. Industrial time is squarely at odds with geological time ». ( Planet dialectics. Exploration in environment and development, London 1999, p. 189)…. Eppure oggi a noi appare evidente che in ogni processo di produzione, per fabbricare qualunque tipo di merce - ma anche per rendere disponibile qualunque servizio - dobbiamo consumare una risorsa invisibile: il tempo. L’Economia Politica, come abbiamo visto, ha scoperto il valore del tempo di lavoro degli uomini. Ma il tempo di lavoro della natura è rimasto sepolto nel silenzio. Eppure c’è un tempo del mondo fisico inosservato che opera silenziosamente accanto agli uomini, senza il quale nessuna ricchezza - e ovviamente nessuna esistenza biologica - è possibile.
Questo passaggio è importante perché pone indirettamente il problema di che cosa e come produrre, un tema fondamentale che si è perso nel dibattito politico, oppure viene preso in mezzo fra discorsi fumosi sulla decrescita, cui si contrappongono discorsi altrettanto fumosi intorno al nuovo modello di sviluppo. Bevilacqua solleva un problema fondamentale e cioè che mentre il tempo dell’accumulazione e cioè il telos del sistema capitalistico è lineare e si muove sempre di più lungo le linee degli algoritmi finanziari, il tempo dell’economia inteso come produzione di ciò che prima di tutto serve alla vita quotidiana, è ciclico, oppure si muove addirittura su un asse temporale che è quello delle ere geologiche (il tempo che i processi naturali ci hanno messo per esempio, per trasformare antiche foreste in petrolio). L’asimmetria fra queste tre diverse temporalità ci sta portando al disastro in quanto la pressione del tempo lineare è ormai preponderante rispetto alle altre due ed è questo che fa oggi della questione ambientale un punto nevralgico di contraddizione altrettanto importante quanto quello della riproduzione e del lavoro occulto in essa celato. Porre l’enfasi sui processi riproduttivi largamente intesi riporta in primo piano la dimensione ciclica dell’economia stessa, intesa come capacità di una comunità di riprodurre ogni anno la condizione della propria esistenza e paradossalmente la priorità dell’agricoltura, ma anche la critica radicale al modello che tutto il marxismo novecentesco ha accettato di fatto: la priorità dell’industria pesante, la difesa di qualsiasi produzione a prescindere (vedi in Italia tutta la questione dell’Ilva, della Tav e delle trivelle). Assumere un diverso punto di vista significa oggi affidarsi anche a modelli di critica dell’Economia politica che partano dalla riorganizzazione delle comunità e in questo campo non siamo all’anno zero sia da un punto di vista torico (Sraffa, Pasinetti, la critica femminista), sia da un punto di vista di esperienze come quella delle banche del tempo, l’utilizzo di monete locali, gli scambi pair to pair e altro. Il problema rimane però sempre quello: come combinare una lotta al pilota automatico che sia al tempo stesso riorganizzazione di uno spazio sociale vivibile.
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