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L’intreccio tra lingua e politica PDF Stampa E-mail

di Adriana Perrotta Rabissi

L'androcentrismo della lingua italiana colloca le donne in una posizione di subalternità agli uomini nell'ordine simbolico. Questa svalorizzazione costituisce il primo gradino verso l'interiorizzazione della dipendenza.

 

La lingua è soprattutto una questione politica, come sanno bene politici/che, opinion maker e autorità varie, ma quando le innovazioni linguistiche relative alle trasformazioni di ruoli e funzioni pubbliche delle donne fanno il loro ingresso nel mondo della comunicazione, la loro adozione è mal sopportata in nome dell’ eleganza fonetica, oppure criticata in ragione dell’inutilità di cambiare termini consolidati dall’uso e universalmente  accettati, da ultimo rifiutata in nome della  libertà di espressione. Eppure l’uso politico della lingua è ben conosciuto dalle classi dominanti di tutto il mondo, a partire dall’imposizione della propria lingua alle popolazioni vinte e sottomesse  da  parte dei vincitori, pratica ben conosciuta dai popoli colonizzati. Ancora oggi  nei regimi totalitari gruppi di popolazione sono costretti a rinunciare alla propria lingua pena l’arresto.

In ambito democratico l’operazione è più sottile, la lingua è impiegata per educare la comunità ai cambiamenti che si intendono portare nella sfera sociale e politica, senza provocare resistenze o opposizioni.

Così ad esempio abbiamo assistito all’ introduzione nell’ordinamento scolastico di espressioni quali crediti e debiti formativi, dirigenti, piani di offerta formativa dall’ultimo decennio del secolo scorso, quando si è iniziato a  trasformare la scuola da luogo educativo  a luogo formativa dei ragazzi e delle ragazze per adeguarli/e alle esigenze del mondo del lavoro, nella prospettiva dell’aziendalizzazione completa della società.

Analogamente funziona lo stravolgimento della Costituzione Italiana attraverso l’introduzione di definizioni tratte da altri sistemi politici: Governatori di Regioni invece che Presidenti, per accentuarne il potere decisionale, Premier o Primo Ministro per sminuire la dimensione collegiale della Presidenza del Consiglio, figure queste che non sono previste dalla nostra Costituzione, ma che, usate costantemente dai mezzi di comunicazione di massa, nascondono l’operazione di modifica materiale  di ruoli e poteri  per renderli  analoghi  a quelli presenti in ordinamenti politici diversi dal nostro, ordinamenti che si intendono far adottare.

La lingua costituisce i binari su cui viaggia il pensiero, è il luogo nel quale si formano le soggettività delle donne e degli uomini, perché è il deposito collettivo dei valori e degli ideali della comunità dei parlanti e delle parlanti, ci trasmette giudizi su ciò che è buono o cattivo, giusto o  ingiusto, lecito o illecito, normale o anormale, bello o brutto.

Ciò che non ha nome nella nostra lingua per noi non esiste, con fatica riusciamo a immaginare qualcosa che non sappiamo nominare.

Le lingue non registrano proprietà intrinseche della natura, bensì le categorie di percezione e classificazione del nostro mondo interno ed esterno, e della nostra relazione con esso,  categorie sedimentatesi  nel corso del tempo e  proiettate sulla natura stessa.

Osserva un linguista francese: “Parlando il mondo le lingue […] lo reinventano”.

Ad esempio le distinzioni che percepiamo tra oggetti e  processi esistono per noi perché abbiamo nomi specifici atti a indicarle nella nostra lingua, ma l’appartenenza a una serie o all’altra non è universale, dipende dalla formulazione che ne danno le diverse lingue: quelli che per noi sono oggetti in altre lingue sono eventi o azioni, come hanno messo in luce studi comparati tra varie lingue uma­­ne.

Per alcune popolazioni la divinità non è un essere, ma un processo espresso da un verbo; in alcune lingue poi non esiste il concetto di futuro e conseguentemente non c’è il tempo del futuro; in altre non esiste il colore verde essendo il verde il mondo abitato dalla comunità dei/delle parlanti.

L’uso poi di nominare molte sfumature di uno stesso colore, necessario all’organizzazione di vita di una comunità, affina la capacità di percepirne le differenze, infatti i/le parlanti di certe popolazioni distinguono un numero di sfumature molto più alto di quello percepito da chi non appartiene  alla comunità.

Le differenti categorie linguistiche segnalano le differenze delle categorie logiche ed epistemologiche di una società, la distanza tra le visioni del mondo è più grande quanto più distano popolazioni nel tempo e nello spazio, lingue di analoghi sistemi culturali sono più vicine tra loro.

È stato possibile pertanto che alcuni studiosi considerassero dotate di menti infantili, e in quanto tali incapaci di astrazione, comunità di parlanti  che non disponevano di un termine generale per indicare complessivamente le specie animali necessarie alla loro vita, ma che invece ricorrevano a molti termini per designare i singoli individui, distinti in base a tratti caratteristici. Questo è certamente un universale umano, le particolarità di una lingua sono ancorate ai bisogni quotidiani di una collettività di parlanti.

La funzione modellizzante della lingua comporta il fatto che la costruzione interiore del mondo reale si forma in gran parte nell’inconscio, sulla base delle abitudini linguistiche apprese dalla nostra entrata nel mondo, così che le rappresentazioni sociali in essa sedimentate si traducono, a livello del senso comune, in forme obiettive di conoscenza.

 

La lingua, dunque, non solo rispecchia l’ordine naturale sociale in cui viviamo, ma forma la realtà determinando il modo di pensare degli e delle parlanti. Un certo modo di parlare, appreso sin dalla prima infanzia e, in quanto tale, percepito comunemente come un fatto naturale, e non storicamente determinato, diventa per automatismo un certo modo di pensare.

Il Novecento si può considerare il periodo nel quale si sono intensificati l’uso e la diffusione delle parole scritte e orali grazie alle tecnologie, dalla radio alla televisione, dal telefono all’incremento della carta stampata, dalla rivoluzione informatica ai mezzi di comunicazione di massa. Qualcuno ha osservato che soprattutto a partire dagli ultimi anni del secolo siamo immersi in “un immenso oceano di parole e di frasi”.

L’uso sessista della lingua

La lingua come prodotto dell’attività di simbolizzazione è anche il luogo della codificazione dei ruoli e delle funzioni sessuali, vissute come naturali e quindi  considerate immodificabili proprio perché apprese dalla e nella lingua materna. Così è per qualità, caratteristiche psicofisiche, disposizioni d'animo, atteggiamenti, modelli di comportamento, aspettative e sentimenti pertinenti alle immagini del femminile e del maschile dettate dai canoni delle educazione di genere, ai quali dovrebbero conformarsi le donne e gli uomini reali.

Allo stesso modo gli stereotipi sedimentati nelle lingua in relazione ad altre componenti discriminatorie oltre al sesso, quali l'appartenenza a certe etnie, la pratica di determinate religioni e mestieri,  agiscono nel profondo, trasformati in vere e proprie rappresentazioni culturali e sociali fatte proprie  dai/dalle parlanti-pensanti.

Nel percorso dall’invisibilità alla visibilità avviato dalle donne nel campo sociale, culturale e politico, la lingua e l’ordine del discorso sono i primi con cui fare i conti.

Ad un'analisi di alcuni fenomeni della lingua italiana: l’uso del maschile pseudo-universale, e quindi rappresentativo anche delle donne, il significato differente di aggettivi qualificativi se attribuiti a donne o uomini, l’uso dell'appellativo di signora al posto del titolo o della professione, salta all'occhio il richiamo costante ad un ordine del discorso che continua a confinare le donne nell'ambito della natura, del corpo, della sessualità, della riproduzione biologica e sociale, del privato affettivo-familiare come ambito proprio e prioritario, escludendone contemporaneamente gli uomini, confinati a loro volta nella mascolinità.

Di qui allora la necessità di quegli accorgimenti linguistici che diano concreta visibilità ai soggetti, come primo passo necessario accanto alle battaglie per incidere radicalmente sulle condizioni materiali di vita delle donne.

Le resistenze profonde alle trasformazioni linguistiche in questo campo sono reazioni a tentativi considerati pericolosi di destrutturare l’ordine simbolico del patriarcato, trasmesso attraverso le strutture e i meccanismi di funzionamento della lingua. Importante allora l'adozione di dispositivi che disarticolino gli stereotipi sessisti, contrastando il fenomeno dell'inerzia linguistica e quindi mentale di donne e uomini, e abituino le/i parlanti alla continua consapevolezza della molteplicità dei soggetti del discorso.

Anche il mito ci soccorre in questa interpretazione: Eco e Medusa rappresentano un monito severo per quelle donne che abbandonano la sicurezza confortevole dei luoghi a loro congeniali - il mondo degli affetti, della cura delle persone, della manutenzione e riparazione di ambienti, di ingentilimento dei costumi, di addomesticamento delle naturali barbarie e ferocia maschili, in altre parole la loro funzione storica sessuo-riproduttiva - per avventurarsi nei territori della produzione culturale e politica; la loro vicenda segnala infatti i due rischi più comuni: la ripetizione di parole altrui e/o il silenzio. Paradigma della collocazione delle donne nei confronti del sapere e della cultura ufficiali all'insegna della perdita del corpo.

Eco perde il corpo per un eccesso di passione, poco importa che ne sia l'oggetto, nel mito meno conosciuto viene fatta a pezzi mentre tenta di sfuggire a Pan, o il soggetto, si consuma nell'amore per Narciso fino a confondersi con le rocce, in entrambi i casi di lei resta solo la voce, per vendetta di Giunone non può prendere l'iniziativa di parlare, deve limitarsi a ripetere frammenti disarticolati, sillabe finali di parole altrui.

Medusa perde anch'essa il proprio corpo, resta la testa irrigidita in una smorfia terrificante, un urlo muto che fa orrore: o è lei che prova orrore per quello che ha visto e ebbe rivelare? Un urlo che ha il potere di impietrire chi la guardi, anche qui torna l'immagine della roccia, l'immobilizzazione, la sua cifra è il silenzio.

In entrambi i casi le punizioni di Eco e Medusa avvengono per mano di due dee, Giunone e Atena, due dee conformi all'ordine patriarcale, esse incarnano nella nostra cultura i due modelli di destino storico delle donne: Giunone è moglie e madre, fiera della  sua funzione, protettrice dell'istituzione familiare, orgogliosa delle sue prerogative, anche se comunque subordinata al marito.

Atena è la sorella degli uomini colti, coraggiosa, savia e forte, protettrice delle armi e delle tecnologie, una donna che si è anche affrancata dalla miseria di nascere da un corpo di donna, nessuna genealogia femminile, vera figlia di un capo, vera donna emancipata dal femminile materno e/o seduttivo alla Venere, emblema dell’emancipazionismo femminile.

Due ruoli sociali pacificati e pacificanti, due facce della stessa medaglia, che in qualche modo sono stati sfidati da Eco e Medusa; Giunone e Atena le puniscono per mantenere l'ordine sociale costituito.

Ma Eco e Medusa indicano anche l'insopprimibile passione del dire, anche a rischio di perdere un'interezza, al di là degli interdetti reali o immaginari, auto o etero imposti.

In conclusione il vero problema è comprendere che gli stereotipi sessisti della lingua non sono aspetti formali, ma tratti sostanziali della mentalità corrente di uomini e donne, e pertanto concorrono a mantenere la discriminazione delle donne nel pensiero e nella vita.

 

Il dibattito sul sessismo linguistico

Il dibattito sul sessismo linguistico ha avuto in Italia un andamento carsico, ogni tanto riemerge, per inabissarsi poco dopo sotto il peso del ridicolo, una delle armi più potenti per combattere quello che non si condivide.

Leggendo articoli sui quotidiani nazionali, ascoltando radio e televisioni si osserva ancora  oggi una generale nominazione maschile degli incarichi pubblici, istituzionali e professionali pur esercitati da donne, con un corredo di veri e propri errori grammaticali e torsioni espressive che sfiorano il ridicolo.  I tentativi ultimamente sempre più numerosi di declinare al femminile cariche e titoli riferiti a donne, secondo le regole della morfologia, riscuotono spesso critiche e/o commenti ironici, quando non sarcastici, accompagnati da fantasiose e deboli argomentazioni, che reggono poco sia sul piano grammaticale sia su quello logico, ma che segnalano un profondo fastidio nei confronti di modificazioni della lingua in uso.

Tanto che viene da chiedersi il perché di tali resistenze di fronte a fenomeni di evoluzione linguistica accettati senza problemi in altri campi, basti pensare ai termini provenienti da altre lingue nazionali, gerghi, codici, sottocodici, che dopo qualche tempo entrano nell'uso comune, sia che piacciano sia che dispiacciano.

Eppure l'androcentrismo dell'italiano che rende l'uomo, in quanto maschio, il soggetto di pensiero e di discorso, è oggetto di riflessione da qualche decennio in Italia, a partire dagli scritti pionieri di Alma Sabatini e Patrizia Violi alla metà degli anni Ottanta, mentre studi e ricerche si erano  già attivate da tempo nell'area culturale occidentale europea e nord-americana.

Se ne discusse nell'ambito dei Centri Studi, Librerie, Biblioteche e Archivi delle donne, si organizzarono Convegni e Seminari nazionali e internazionali. La Commissione delle Comunità Europee finanziò a Milano nel 1988 un Convegno dal titolo Perleparole. Le iniziative a favore dell' informazione e della documentazione delle donne europee, al quale parteciparono rappresentanti di una decina di realtà europee e altrettante italiane. L'esito del serrato confronto fu la decisione di mettere a punto nei vari settori della comunicazione e dell'informazione nuovi linguaggi in grado da un lato di restituire la presenza o l'assenza delle donne nei processi reali della vita di una comunità, presenza o assenza occultate dalla pratica di considerare il maschile come neutro e in quanto tale universale e quindi rappresentativo sia degli uomini che delle donne concrete,  dall'altro di fare emergere la specificità dei contenuti della riflessione delle donne, in modo che non risultassero stravolti e appiattiti dai linguaggi della cultura e della politica tradizionali.

L’intento era quello di rendere visibile e valorizzare la produzione analitica e teorica dettata dalle nuove consapevolezze femministe in tutti i campi disciplinari, un patrimonio caratterizzato dall'intensa contaminazione tra settori di studio, ricerca e  esperienze di vita e di pensiero di donne fino ad allora trascurato, in grado di scardinare ambiti tenuti fino ad allora fortemente separati nonché concezioni consolidate, quale la divisione tra la sfera pubblica - sociale, politica, culturale - e quella privata - sentimentale, affettiva e familiare - separazione messa sotto critica dalla pratica del  partire da sé e dall’espressione il personale è politico.

Nell'ambito dei Centri studi, Archivi, Biblioteche e Case delle donne, che si sono moltiplicate a partire dagli anni Ottanta, l'area individuata in prima battuta fu quella della documentazione dai linguaggi fortemente codificati, quelli cioè che devono obbedire a criteri di sinteticità e precisione senza ambiguità.

Fu costruito Linguaggiodonna. Primo thesaurus di genere in lingua italiana, uno strumento di indicizzazione costituito dal linguaggio naturale dei documenti, che disordinava e sovvertiva le tradizionali partizioni fondanti l'organizzazione culturale ufficiale, di natura capitalistico-patriarcale, e al contempo introduceva inedite soluzioni grammaticali, difficili da accettare in uno strumento di indicizzazione, pur legittimate dalle regole grammaticali italiane.

Furono organizzati Seminari e Corsi di formazione da istituzioni quali Provveditorati scolastici, Comuni, Province e Regioni, se ne parlò su qualche giornale e rivista specializzata, la ricerca continuò nei Centri e nelle Case delle donne.; Linguaggiodonna venne subito implementato e costituì il primo nucleo del linguaggio di indicizzazione dei Centri italiani che crearono la Rete Lilith, Rete informativa dei Centri delle donne, che dall’inizio del 2021si sta rinnovando.

Ma di tutto questo lavoro e fervore di iniziative non c’è traccia nei mezzi di informazione più generali, qualcosa si coglie nella rete, nei blog,  nei siti, prevalentemente di giornaliste, nei  social network, nei testi di donne.

Poco finora è emerso nell'opinione pubblica allargata, tuttavia basta toccare il dato più immediatamente percepibile del discorso, semplicemente la punta dell' iceberg, vale a dire la femminilizzazione dei titoli e delle professioni, per suscitare reazioni negative. Una delle più serie è costituita dalla domanda retorica se la lingua modifichi le mentalità o invece occorra modificare prima le mentalità per ottenere le adeguate trasformazioni linguistiche. E' un falso problema, perché i due fenomeni sono strettamente intrecciati, come si è osservato prima.

Emanciparsi dal destino storico-naturale per entrare nella cultura da soggetto, invece che da semplice oggetto di rappresentazioni, teorie e interpretazioni, o tutt'al più da locutrice di un discorso già costituito, significa per una donna scontrarsi con una particolare collocazione del femminile all'interno dell'ordine simbolico, costituito in modo androcentrico, una posizione dislocata rispetto alla centralità del maschile. Da qui origina una certa condizione di subalternità delle donne assegnate al polo femminile nell'organizzazione sociale, come abbiamo visto, in tutta la varietà di modi, aspetti, e forme in cui questa subalternità si è storicamente manifestata.

Da qui però, anche le varie forme di resistenza, adottate da molte donne.

Una prova piccola ma significativa del fatto che l'asimmetria linguistica sottende una profonda asimmetria di valore si ha quando si provi a utilizzare un femminile generico per rappresentare gli uomini in una lista mista di persone, un uomo non accetterebbe mai di sentirsi includere in un femminile, per una donna invece è naturale essere rappresentata al maschile.

Le bambine e le donne, quindi, nella propria vita dovranno/devono fare i conti non solo con gli eventuali vincoli sociali opposti alla propria piena realizzazione e autodeterminazione, ma anche e soprattutto con le proprie schiavitù interiori, indotte dalla fragilità dei sentimenti di autostima e di stima per le donne in generale, interiorizzata attraverso le rappresentazioni depositate nella lingua.

Questa svalorizzazione costituisce il primo gradino verso la strutturazione psichica della dipendenza dagli uomini.

L’accesso recente di molte più donne a cariche tradizionalmente maschili ha dato la stura a polemiche sull’uso del femminile.

Molte più donne oggi ricoprono incarichi di prestigio sociali, culturali e politici, sono all’apice di carriere folgoranti, elogiate sia per competenza disciplinari, sia soprattutto per competenze relazionali: passione, senso pratico nel risolvere i problemi, capacità di mediazione nei conflitti, attenzione alle relazioni, tutte virtù squisitamente femminili, maturate in millenni di educazione  secondo il copione patriarcale, e oggi indicate anche ai lavoratori uomini come indispensabili nel lavoro. Il che smaschera la pretesa naturalità delle suddette virtù, se possono/devono essere apprese anche dagli uomini.

Ebbene, molte professioniste preferiscono il titolo maschile perché dotato ai loro occhi di maggiore prestigio. Di fronte all’invito di adottare termini che contrastino l’opacità dell’universale maschile invocano il rispetto delle differenze, declinato in termini di libertà.

Arrivate a questo punto, ammesse a condividere il potere  maschile, conquistato con tanto lavoro  e applicazione perché partenti da una condizione di svantaggio in quanto donne,  temono fortemente la ricaduta   in un universo femminile indifferenziato e limitato al perimetro seduttivo/riproduttivo, rischi che combattono, anche linguisticamente.

Novelle Atene.

Con questa nuova divisione, tra donne che vogliono cambiare alla radice lo stato di cose presenti e altre che tendono alla completa parità, noi donne dobbiamo fare i conti.

 

Nota bibliografica

Hagège, C., Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell'umanità, Feltrinelli, Milano, 2002

Perrotta Rabissi, A., Donne di parole, in "Scuola ticinese", n° 254, Gennaio-Febbraio 2003, p.33-36

Perrotta Rabissi, A., Parlare e scrivere senza cancellare uno dei due sessi, in Chiti, E (a cura di), Educare ad essere donne e uomini. Intreccio tra teoria e pratica, Rosenberg e Sellier, Torino,1998,

Perrotta Rabissi, A. e Perucci, M.B., Perleparole. Le iniziative a favore dell'informazione e della documentazione della donne europee, Utopia, Roma, 1989

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Sabatini, A., Il sessismo nella lingua italiana, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1987

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Violi, P., L'infinito singolare.Considerazioni sulle differenze sessuali nel linguaggio, Verona, Essedue, 1986

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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