Pubblichiamo da www.altraparola.it un articolo sui prossimi scenari delle lotte del lavoro:
Stefano Rota, ricercatore indipendente e lavoratore nomade. Gestisce il blog di “Transglobal”. Ha pubblicato recentemente con altri autori La (in)traducibilità del mondo (Ombre Corte, 2020) e ha contribuito a F. O. Dubosc (a cura di) Lessico della crisi e del possibile (SEB27, 2019). La sua ultima pubblicazione è: La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online italiane e lusofone.
The politics of invisibility involves not actual invisibility, but a refusal of those in power to see who or what is there.
Robert JC Young, Postcolonial remains
Simonetta, la driver di Amazon che ha contribuito alla stesura de “La fabbrica del soggetto. Ilva 1958 – Amazon 2021“, ha portato la sua testimonianza a due presentazioni del libro organizzate a Genova tra luglio e novembre ‘23.
Senza giri di parole, Simonetta ha detto sostanzialmente di sentirsi a suo agio in Amazon, di lavorare in un ambiente amichevole e rispettoso, dove tutti si prendono cura dei problemi dei colleghi e dove gli standard di sicurezza sul lavoro sono molto elevati.
Inutile dire che queste dichiarazioni hanno suscitato qualche perplessità tra i presenti. Almeno alcuni di loro si aspettavano una posizione incentrata sulla critica alle forme di neo-taylorismo digitale, al dominio impersonale e onnipresente dell’algoritmo nel governare il lavoro in Amazon. In altre parole, la lettura più comune che si trova nelle riviste e nelle pubblicazioni che adottano un approccio radicalmente critico all’economia delle piattaforme, che sottoscrivo.
Niente di tutto questo. Simonetta è soddisfatta del suo lavoro in Amazon.
Di fronte alla comprensibile difficoltà di una parte del pubblico ad accettare quel discorso, ho tentato di riflettere sulla verità che quello stesso discorso enuncia, prendendo come punto di partenza un film dell’anno scorso, Nomadland, della regista Chloé Zhao.
La disincantata donna di mezz’età interprete del film di Zhao gira da sola negli spazi immensi del Mid West con un camper, fermandosi per lavorare nei magazzini di Amazon, ma subito pronta a ripartire alla volta del successivo parcheggio dove incontra amici in perenne movimento come lei. Non traspare nessuna particolare tensione o rivendicazione: ciò che Amazon propone a Fern, la protagonista del film, è né più né meno quello di cui lei stessa ha bisogno per il tipo di vita – nomade – che ha scelto, o che si è trovata costretta a scegliere.
Dove si produce, allora, questo scarto tra la nostra lettura e le vite di milioni di persone che accettano il lavoro in Amazon o in una delle innumerevoli piattaforme così com’è, nonostante i tentativi (alcuni riusciti, molti no) di introdurre forme di organizzazione sindacale di base per contrattare un altro tipo di rapporto lavorativo? Prima di provare a dare una risposta del tutto personale a questa domanda, vorrei aggiungere un ulteriore elemento che, spero, faciliti la comprensione di cosa mi accingo, sia pur con dubbi, a sostenere.
Un amico sindacalista è stato in prima linea nel 2020 nella lotta di rivendicazione finalizzata al riconoscimento dei riders di Just Eat come lavoratori dipendenti. L’azienda, accogliendo la richiesta, ha introdotto anche in Italia il modello Scoober già applicato in altri paesi[1]. I riders hanno dal 2021 un orario di lavoro, una retribuzione fissa basata su ciò che quel modello prevede. È stato presentato come un successo, un cambio di direzione in un settore, quello della platform economy, che ha bisogno di regole chiare e giuste per i lavoratori, che ostacolino la giungla del cottimo come spinta allo sfruttamento e all’autosfruttamento.
I problemi sono sorti quando questo accordo è stato presentato ai lavoratori e lavoratrici: una larga parte non era per niente contenta del risultato ottenuto, dichiarando di preferire di gran lunga la forma lavorativa vigente prima. I più contrari erano prevalentemente i lavoratori migranti e i più giovani.
Eccoci arrivati al punto da cui vorrei partire per articolare il mio punto di vista. Amazon, ma più in generale la platform economy, sembra inviare implicitamente un messaggio a tutti i lavoratori attuali e potenziali (e non solo ai lavoratori, a dire il vero): ‘dimenticatevi i vecchi modelli, gerarchie, procedure, contratti, carriere. Qui il lavoro è smart’. Non sono importanti le esperienze lavorative pregresse (meglio se non se ne hanno, come dichiarano le agenzie di lavoro interinale), così come la provenienza o i piani per il futuro, ammesso che si sia in grado di farne. La platform economy vive di un perenne presente flessibile e competitivo, tutto viene deciso sul momento, tutto è on-demand (ILO Report).
Conta solo quello che fai, il modo in cui gestirlo lo scegli tu. Se il magazzino è lontano decine o centinaia di chilometri e raggiungibile solo in macchina e gli alloggi sono proibitivi, se piove e fare le consegne in bici diviene problematico e pericoloso, se sei in basso nel ranking e non ti arrivano lavori, organizzati, trova una soluzione, la piattaforma non è fatta per intervenire in questi ambiti. I “piccoli turchi” di benjaminiana memoria sono pagati per addestrare la piattaforma a fare altro.
Mi sembra che su questo punto si giochi una partita importante. Si definisce un nuovo regime di veridizione, sulla cui base ci riconosciamo (ci soggettivizziamo) e produciamo a nostra volta delle verità. Quali enunciati troviamo all’interno di questo sistema, oltre a quello descritto? Provo a individuarne alcuni. Il lavoro e il mondo che lo contiene è sempre più cyber, lavoro e gioco si avvicinano tanto da produrre sovrapposizioni, vengono usati gli stessi strumenti e lo stesso linguaggio (gamification del lavoro). Perdono di senso vecchi schemi centrati su relazioni di mercato a due lati (two-sided market), siamo lanciati verso la multilateralità (multi-sided economy), siamo allo stesso tempo lavoratori e consumatori, controllati e controllori, fornitori e utilizzatori di dati. Viene depersonalizzata la funzione del controllore onniveggente che distribuisce punizioni e meriti sulla base del suo insindacabile giudizio. L’algoritmo che lo sostituisce non dà giudizi, valuta asetticamente. E lo fa sulla base del principio che tutti controllano uno, e a sua volta questo uno contribuisce al controllo, alla punizione o all’encomio, di chiunque altro, tramite voti, likes, recensioni (siamo quindi nel regno dell’anopticon descritto da Umberto Eco).
Se questi enunciati definiscono, almeno parzialmente, il modo in cui l’economia delle piattaforme rende “vera”, riconoscibile, “parlabile” una modalità lavorativa, il discorso di Simonetta, così come quello dei riders di Just Eat, diviene altrettanto riconoscibile, altrettanto vero, all’interno del rapporto soggetto-vita-lavoro che li connota. Entrano in gioco, da un lato, le strutture economiche, le architetture sociali, istituzionali e culturali, le norme, i confini materiali o immateriali che suddividono gli spazi creando forme di inclusione, esclusione, inclusione tramite l’esclusione (De Genova), o inclusione differenziale (Mezzadra, Neilson). In una parola, il dispositivo. Dall’altro, i viventi e le loro esistenze, i percorsi individuali e collettivi, le priorità, le scelte, all’interno dell’organizzazione di un tempo di vita e di lavoro che si struttura senza soluzione di continuità. “Quando tutto il tempo della vita è tempo di produzione, chi misura chi?”, si chiedeva Negri, in un libro di quarant’anni fa. Le forme di soggettivazione si danno all’interno della rete che il dispositivo dispiega, non la precedono, non vi entrano già precostituite. Il soggetto è, allora, una “funzione derivata” (Deleuze), si definisce in un gioco di rapporti di forze che lo vedono come oggetto di conoscenza, come soggetto “identificato” e parlabile sulla base di rapporti di potere, come soggetto etico che si forma nella relazione con se stesso (Foucault).
È sulla base di questi rapporti che si creano le condizioni di possibilità per la formulazione di discorsi su come viene vissuto un determinato modo di lavorare, di vivere, abitare, immaginare. Sono i rapporti che delineano gli itinerari che ciascuno di noi ha seguito per arrivare dove si trova, quelli con i quali Stuart Hall ci ricorda di “venire a patti”, perché è in funzione di quelli che ci raccontiamo.
Per questi motivi conviene non intraprendere la strada, comoda e ben asfaltata ma molto corta, che ci fa ridurre l’eterogeneità del “soggetto produttivo delle piattaforme” a due insiemi: chi ha capito (pochi) e chi non ha ancora capito (molti). Il secondo insieme sarebbe quindi descrivibile come una massa di lavoratori che non hanno ancora raggiunto il livello di coscienza di classe che li trasformerà in proletariato, e quindi li collocherà inevitabilmente, in un futuro prossimo, nel solco della storicità del loro destino.
Una seconda strada, meno comoda e certamente più lunga, ci fa stare ben aderenti a quello che considero un concetto chiave per intraprendere un percorso conoscitivo che deve avere nell’inchiesta il suo elemento centrale. Si tratta di un concetto foucaultiano che Pierre Macherey espone in Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx. Parlando delle “istituzioni di assoggettamento” nella società industriale, Macherey dice che queste hanno, per Foucault, un duplice ruolo, quello di “estrazione-segregazione-sfruttamento e di inclusione-formazione-adattamento”. Per meglio descrivere questo passaggio, il filosofo riprende le stesse parole di Foucault: “la prima funzione [dell’assoggettamento] era quella di sottrarre il tempo, facendo sì che il tempo degli uomini, il tempo della loro vita si trasformasse in tempo di lavoro. La seconda funzione consiste nel far sì che il corpo degli uomini divenga forza lavoro. La funzione di trasformazione dei corpi in forza lavoro corrisponde alla trasformazione del tempo in tempo di lavoro” (corsivo mio).
Un ulteriore passaggio del bellissimo libro di Macherey aiuta a mettere ancor più a fuoco il punto che mi sembra affatto centrale. Gli itinerari seguiti da ognuno di noi hanno come riferimento obbligato il sistema di norme che li ha resi possibili, visibili, riconoscibili. Lì, nel dispiegarsi di questi itinerari, si crea una “seconda natura […] che non sarebbe ‘naturale’, […] ma prodotta, creata, costruita da zero […]”. Istituendo questa seconda natura, il potere delle norme “si connota per la capacità esorbitante di cui dispone al fine di produrre ciò a cui si applica, cioè i soggetti produttivi il cui assoggettamento assume di conseguenza l’aspetto di un autoassoggettamento”.
Se il tempo totale è tempo di lavoro, è perché il corpo autoassoggettato è forza lavoro. Il soggetto produttivo delle piattaforme risponde in toto a questo schema. Non è possibile scollegare l’assoggettamento del lavoratore dalla seconda natura del vivente. Per questa ragione la comprensione delle attitudini sul lavoro del soggetto produttivo delle piattaforme può essere compresa solo se inserita nel contesto più ampio che mette in relazione il corpo con il tempo, le norme con i valori, l’estrazione con l’inclusione.
La centralità della vita come continuum produttivo viene sintetizzata – ancora da Macherey – in un imperativo: non è importante ciò che fai, è importante ciò che sei. Il potere delle norme ci pone sempre davanti all’ obbligo di dire chi siamo, quanto siamo disponibili a lasciare estrarre dalle nostre vite, o quale prezzo possiamo pagare per la nostra inclusione.
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L’inchiesta operaia degli anni Sessanta ha segnato un momento fondamentale nel processo di sviluppo della coscienza analitico-politica di come le trasformazioni nel mondo produttivo e riproduttivo andavano lette alla luce di una nuova “composizione di classe”, di una nuova soggettività, che necessitava di nuove chiavi lettura, nuovi strumenti d’indagine. Era divenuto ormai chiaro che il nuovo soggetto della produzione, l’operaio-massa della fabbrica fordista, aveva travolto le consolidate forme di rappresentazione del mondo dominanti fino al decennio precedente, centrate su valori e classificazioni che il nuovo modello sociale e produttivo, al cui interno quel soggetto si impone, aveva reso inservibili.
Quel modo di fare inchiesta va ripreso, rinvigorito e aggiornato, se è vero che lo sfruttamento della forza lavoro basato sul tempo della fabbrica assume oggi il tratto dell’estrattivismo dai corpi nel tempo della vita. È un cambio che rende l’inchiesta più complicata, moltiplica gli spazi dove va svolta, fa saltare i punti cardinali che hanno consentito la navigazione euristica nel mondo rigidamente strutturato della fabbrica e della società fordista. È quanto appare in modo evidente anche dalle testimonianze che hanno dato forma e sostanza a La fabbrica del soggetto: la distanza tra le prime due e le ultime sembra siderale, nonostante le separino solo sessant’anni.
Per arrivare alla conclusione di questo articolo cercando di non lasciare troppi punti in sospeso, provo a definire l’ambito geopolitico e sociale al cui interno si colloca il soggetto produttivo delle piattaforme. Si tratta del “quarto mondo” di cui parla Robert JC Young nel suo Postcolonial remains. Un mondo senza confini predefiniti, che si articola lungo un intreccio di striature attraverso i continenti, collegando tra loro zone geograficamente lontane. Ciò che li unisce è una forma di “invisibilità politica” dei suoi abitanti – molto più numerosi e articolati rispetto all’insieme dei lavoratori delle piattaforme -, non perché siano oggettivamente invisibili, ma perché ci si rifiuta di vederli, di ri-conoscerli, o, che è la stessa cosa, perché si pensa di conoscere già quello che c’è da sapere, con gli strumenti che abbiamo a disposizione.
Come ci ha insegnato l’inchiesta operaia degli anni Sessanta, correggere la presbiopia che non ci fa vedere ciò che è troppo vicino significa affinare gli strumenti che usiamo. Significa far tornare l’inchiesta ad avere una funzione attivista, ciò che, con i nostri limitati mezzi, ci siamo proposti di promuovere con quel prodotto editoriale e che crediamo debba ampliarsi. Attivismo significa tornare a respirare, visto che viviamo un tempo in cui “respirare è tanto difficile quanto cospirare”.
Note:
[1] https://www.ilsole24ore.com/art/just-eat-assumera-rider-2021-ADwfbG1
Testi citati
N. De Genova, Inclusione attraverso l’esclusione, Transglobal, 24.10.2015, https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2015/10/24/inclusione-attraverso-l-esclusione/
G. Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985-1986), Verona, Ombre Corte, 2014
U. Eco, Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano, 1994
M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano, 2021
International Labour Organization, World Employment and Social Outlook. The role of digital labour platforms in transforming the world of work, Report, 2021 https://www.ilo.org/global/research/global-reports/weso/2021/WCMS_771749/lang–en/index.htm
S. Hall, Politiche del quotidiano, Il Saggiatore, Milano, 2006
P. Macherey, Il soggetto produttivo: da Foucault a Marx, Ombre Corte, Verona, 2013
S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2014
A. Negri, Macchina tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione, Feltrinelli, Milano, 1982
R.J.C. Young, Postcolonial remains, New Literary History n. 43, 2012,
https://www.researchgate.net/publication/236704817_Postcolonial_Remains
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