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La seonda edizione del festival della letteratura working class PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Lunedì 15 Aprile 2024 15:36

Sul festival della letteratura working class, è uscito sul sito Milano in movimento questa riflessione di Demetrio Marra. Le rilanciamo in Ol come contributo a un dibattito che auspichiamo continui.

La redazione di overleft

Cambiare paradigma: il Festival di letteratura working class alla ex GKN di Firenze.


Dal 5 al 7 aprile scorso a Campi Bisenzio c’è stato il secondo Festival di letteratura working class, organizzato dal Collettivo di fabbrica della ex GKN di Campi Bisenzio (Firenze) e dall’editore indipendente Alegre, con la direzione artistica dello scrittore Alberto Prunetti (autore, recentemente, di Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class per minimum fax). Il programma, fittissimo (che trovate qui), ha coinvolto non solo autori e autrici, studiosi e studiose da tutto il mondo come Brigitte Vasallo ed Eugenia Prado Bassi, per esempio, che hanno dialogato con Giusi Palomba e Sara Farris sul tema “Le subalterne possono parlare?”; o Antony Cartwright, che ha presentato il suo Come ho ucciso Margareth Thatcher (ultimo testo della collana working class di Alegre); non solo si è attraversata la scrittura del nord Europa con Magnus Nilsson ed Henric Johansson; o si è letta poesia operaia anni ’70 e poesia operaia cinese contemporanea. Il programma ha soprattutto rimesso al centro il racconto della lotta. In altre parole, il Festival ha voluto ricordare che la letteratura può continuare l’azione politica, che non è intrattenimento, ma volontà di cambiare; che la classe operaia può costruire il proprio paradiso qui, e che non va da nessuna parte.

Che il Festival sarebbe stato un successo forse l’avremmo potuto capire dagli sforzi propagandistici e concreti di farlo fallire. Parlo degli attacchi pretestuosi ai messaggi di supporto nei giorni prima del festival (per esempio quello di Elio Germano), e del tentativo di alimentare l’idea che il Collettivo stesse sfruttando il suolo della fabbrica per attività a scopo di lucro (ma come possono non capire cosa si faccia davvero lì, quale sia il punto?), certamente. Oppure parlo dell’atto intimidatorio e mafioso che ha colpito la fabbrica la notte tra lunedì e martedì: soggetti non identificati sono entrati e hanno staccato la corrente, costringendo l’organizzazione a immaginare un festival diverso a pochissimi giorni dall’inizio. Non finisce qui: durante tutta la settimana, investigatori privati – con droni – hanno sorvegliato e documentato tutti gli eventi. Immaginiamo certamente per conto di chi sia stato fatto, ma tacciamo perché la reticenza è più forte delle parole, l’invisibilità più forte della visibilità

Nonostante questo, il festival c’è stato ed è stato indescrivibile. Per numerose ragioni, tutto è stato organizzato fuori dal cancello principale, su uno spazio regolarmente concesso dal Comune di Campi. Dopo l’accesso, un corridoio di attività dal basso e cooperative sociali preparavano alla piazza ricolma di persone, tra la libreria working class (con una scelta non soltanto dal catalogo di Alegre, ma da tutti gli editori che pubblicano, occasionalmente o programmaticamente, scritture working class) e il palco. Due tendoni bianchi con sotto non so quante sedie, almeno due centinaia, anticipavano il palco. Per ogni evento centinaia di persone, ben oltre la capienza dei posti a sedere, rimanevano in ascolto, partecipavano, applaudivano, si commuovevano. In alcuni momenti, era persino difficile spostarsi.

Mi è rimasto impresso, e ci penso ancora, a ciò che ha detto Brigitte Vasallo (autrice, tra le altre cose, di Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe per Tamu), col sole appena calato: che, nella sua lucidità estrema, quasi terribile, la letteratura working class non è un tema, ma un cambio di paradigma. È essa stessa lotta.

In certi momenti seguivo gli eventi (per esempio quello condotto da RedActa, il sindacato dei lavoratori e delle lavoratrici dell’editoria, che è uno dei settori meno regolamentato, quasi integralmente fondato sul lavoro gratuito o mal pagato, sugli stage e sui contratti precari, sulle collaborazioni occasionali e sulle partite IVA, nonostante sia una delle industrie continuamente in crescita negli ultimi anni), in altri momenti attraversavo lo spazio e mi rendevo conto di come – davvero –, con i compagni e le compagne, divenisse sempre di più spazio di comunità, un luogo in cui sentirsi in sé e contemporaneamente proiettat* verso l’altr*. Una comunità di apprendimento (come scrisse in Insegnare il pensiero critico bell hooks). Essere lì dava una forza inedita, nonostante all’inizio i pensieri sull’essere fuori posto avrebbero potuto sconfiggere chiunque. Come dice Valentina Baronti in La fabbrica dei sogni (sempre uscito per la collana working class di Alegre) si fa presto a capire – anche se non è facile – che la forza che noi traiamo dalla lotta dei lavoratori della ex GKN è una forza che possiamo restituire: è possibile attivare uno scambio, diventare corpo collettivo.

Per questo il momento più intenso è stato il corteo dalla fabbrica fino al centro di Campi Bisenzio. In migliaia abbiamo riempito le strade, investito l’intero paese di un’energia inedita. Abbiamo cantato, fatto sentire la voce di tutt*, dimostrato l’importanza di quel presidio, che la fabbrica è di chi la vive, di chi la abita, di chi la difende, non certo di chi specula sul suo valore, non sicuramente delle istituzioni. Per questa ragione il collettivo ha lavorato su una legge regionale sui consorzi industriali, di iniziativa popolare. Se la politica non fa nulla, anzi è sottomessa ai meccanismi del neoliberismo, è nostro compito lottare.

L’ultimo giorno, con l’energia del corteo, il Festival è continuato, registrando molto più di cinquemila accessi complessivi (chi conosce il mondo editoriale, sa che sono numeri fuori dal comune), quasi il doppio dell’anno precedente. Dopo l’incontro conclusivo Dario Salvetti, portavoce del collettivo di fabbrica, ha preso il microfono per annunciare l’ennesimo atto gravissimo, inaccettabile. Con il fiato sospeso abbiamo temuto un’altra intimidazione. E invece Salvetti ha annunciato che il rumore che abbiamo sentito durante il festival, per tutto il tempo, proveniva dal luogo in cui alcuni compagni stavano montando dei pannelli solari. Nelle ultime ore sarebbe tornata la luce: il sabotaggio di ignoti ha accelerato ciò che il collettivo ha sempre voluto per il futuro della fabbrica, cioè la transizione energetica. Ciò che la vecchia proprietà non è riuscita a fare in anni, gli operai l’hanno fatto in tre giorni. All’applauso sono seguiti cori che sembravano non finire più.

So che questo racconto potrebbe sembrare a tratti impersonale e a tratti sdolcinato, ma credetemi se vi dico che ho provato a mantenere un qualche distacco. È però difficilissimo: a qualche giorno dalla fine torno a sentire la solitudine, l’isolamento, la performatività del lavoro, il dolore di non riuscire a cambiare le cose. Milano e l’Art Week si preparano per l’ennesimo evento culturale che – come ricorda Lucia Tozzi in L’invenzione di Milano (Cronopio) – non è nient’altro che uno strumento per l’espulsione delle persone marginali, per la trasformazione della città in speculazione finanziaria. Per fortuna, il festival ci ha mostrato che un altro mondo è possibile, che un altro modo di fare cultura è possibile, che la lotta non può finire, deve solo diventare gigantesca.

Demetrio Marra

 

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