di Franco Romanò
Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo, pubblicato cinquant'anni fa viene oggi riproposto in una nuova edizione. Il romanzo è un caso unico nella narrativa italiana, un'opera epica che si distanzia però dai modelli classici. L'Ulisse fuggiasco 'Ndrja Camdria non è un eroe, ma un vinto come lo sono i pescatori nello Scilla'e Cariddi. Horcynus Orca è un monumento alla lingua, alla sua inesauribile ricchezza e alla fabula e una scrittura che riporta l'oralità dentro il tessuto narrativo.
Premessa
Cinquant’anni fa veniva pubblicato Horcynus Orca, dopo un lavoro ventennale. Le iniziative editoriali a esso dedicate sono oggi confortanti, a cominciare dalla nuova edizione di Rizzoli, che oltre al saggio storico scritto da Walter Pedullà, ospita un’introduzione di Giorgio Vasta e la postfazione di Siriana Sgavicchia. Quest’ultimo saggio ricostruisce puntualmente le diverse fasi dell’opera, le ragioni delle prime titolazioni, i rapporti di D’Arrigo con l’ambiente letterario romano. Infine, questa nuova edizione è corredata di foto e materiali inediti.
Come accostarsi a questo libro di oltre mille pagine, nel quale la divagazione regna sovrana, le storie che ramificano da quello che sembra essere il tronco principale sono altrettanto importanti? Poi ci sono i personaggi, umani e animali, tutti memorabili nel senso proprio della parola: 'Ndrja Cambria, Cata, il vecchio marinaio, le femminote, Ciccina Circé, Luigi Orioles, Caitanello Cambria, che è il padre di 'Ndrja e l'Acitana, i pellisquadra, Monanin e l'Eccellenza, un fascista che apostrofa malamente i pescatori durante una battuta di pesca.
Infine la fera, che è poi un delfino. Sono soltanto i pellisquadra, cioè i pescatori della zona, a chiamare fere i delfini, forse confondendoli con l'orca, che appartiene in effetti alla stessa famiglia; poi il mare, lo scirocco, lo scilla 'e cariddi. Il romanzo è un'opera magmatica e ricchissima che sfida il lettore, lo obbliga a un corpo a corpo continuo con la materia narrativa e il linguaggio. L’impresa è difficile e difficilmente esaustiva. Horcynus Orca è un labirinto nel quale ci si può smarrire, ma si può anche non tenerne conto perché, come afferma nel suo saggio introduttivo Giorgio Vasta:
… leggere Horcinus Orca vuol dire anche trascorre del tempo nel naufragio. Lungo la traiettoria delle frasi si avverte lo sgomento di non riuscire più a individuare dov’è il nord, dov’è il sud, dove sono finiti l’est e l’ovest; ma c’è anche l’euforia suscitata dall’occasione di non sapere più, finalmente, dove ci si trova.
Allora come afferma ancora Vasta successivamente: non importa e non si può capire tutto … 1
Leggere questo romanzo implica lasciarsi coinvolgere nei suoi diversi flussi narrativi, disseminati in tutta la sua partitura e che tuttavia sono sempre storie e narrazioni legate al territorio, a qualcuno dei personaggi o a eventi collettivi. Qualcuno le ha contate queste narrazioni apparentemente laterali: sono 56 e c’è da sommettere che ogni lettore avrà le sue predilette, diverse da altri.
Il ritorno del fuggiasco
L'incipit colloca il romanzo in un tempo storico definito e offre subito un esempio emblematico della sua cifra stilistica.
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina, 'Ndrja Cambria arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill'e cariddi

Imbruniva a vista d'occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri oggi e domani, e quello sventolio flacco flacco dell'onda grigia, d'argento o di ferro, ripetuta a perdita d'occhio.2
Siamo circa un mese dopo l'otto settembre, alla vigilia della guerra civile e della resistenza partigiana, ma gli eventi bellici e politici rimarranno su uno sfondo rarefatto e quasi invisibile, tranne che in alcuni momenti, quando storia e politica entrano a contatto e spesso in collisione con la vita normale che fluisce nonostante tutto; oppure ancora, quando gli eventi più tragici irrompono improvvisamente nella conversazione, specialmente femminile, con espressioni sorprendenti come questa:
la morte governativa, che indica proprio la guerra.
‘Ndrja Cambria sta tornando in Sicilia da Napoli, fugge per ritornare a casa, come molti altri sbandati. Sbarcare in Sicilia sembra facile ma non è per niente così. Ci vuole una barca per traghettare, ma si sente dire in giro che i germanesi le hanno bombardate tutte; poi ci sono gli inglesi che sorvegliano l'isola: di chi fidarsi? Peraltro, quando arriva dopo quattro giorni dalla parte calabrese dello stretto ‘Ndrja si rende conto che altri sbandati come lui, o semplicemente desiderosi di traghettare, lo tengono d’occhio: Boccadopa, che si barcamena con la stampella e Portoempedocle.
È un vecchio marinaio a dirgli qualcosa di più, fra una chiacchiera strampalata e l'altra, nel mezzo di un continuo riferire parole udite ma non sue, il sentitodire e il vistocongliocchi, due espressioni che ritornano continuamente nella narrazione. Le notizie sulla guerra si mescolano alle esperienze di vita vissuta in quel braccio di mare dove tonni, pesci spada e delfini s’aggirano e sono sia cibo che dà la sopravvivenza sia minacciosi simboli di morte.‘Ndrja fa domande al vecchio, cerca di capire, l'altro spesso perde il filo del discorso, si smarrisce nei suoi fantasmi, ma alla fine arriva al punto:
La barca c'è.3
'Ndrja però tergiversa. Inizia una lunga parte del romanzo che si regge su alcuni elementi portanti: i ricordi del vecchio che spesso avvengono in presa diretta, cioè tramite brevi monologhi. Il secondo sono i dialoghi fra loro due, altrettanto frammentari. Il terzo è costituito dai ricordi di ‘Ndrja, che irrompono nel testo: il suo rapporto con il padre, la pesca di notte, i pellisquadra e la fera, animale dominante e simbolo di morte.
Infine, le incursioni del narratore onnisciente, quasi sempre orientate alla rappresentazione del mare, dello scirocco, del sole: oppure per delineare il carattere di un personaggio.
… A capo chino, col mento appoggiato sulle mani con cui stringeva la sua lanciabastone, il vecchio si sforzava gli occhi dietro la ruota di sole che girava in giù, in mare, lasciando in cielo una scia rosseggiante, come se per l'attrito infiammasse l'aria per dove passava. Il vecchio aveva il respiro mezzo e mezzo col sospiro, un risospirare fracquo come quello del mare sciroccato che col sole calante andava sbollendosi sempre più nel vaeviene della maretta … 4
Il vecchio non è del tutto convinto che l'altro voglia tornare in Sicilia, avverte la misteriosa incertezza che attanaglia Cambria ma che lui non sa decifrare; però dentro di sé ha deciso di aiutarlo. Sa di dover dire qualcosa di più sulle barche, ma tergiversa a sua volta e il perché è presto detto: le barche ci sono, ma bisogna rivolgersi alle femminote per trovarne una. ‘Ndrja in realtà lo aveva già compreso: le aveva già intraviste, compresa Cata, un personaggio intrigante e misterioso.
Il vecchio gli dice in quale punto della spiaggia andare e poi:
Ma non sia mai che passate di giorno … non v'arrischiate di guardare perché tanto biancheggio d'ossa vi abbaglia. E poi vi credete forse di vederla la femminota di giorno? Forse è femmina di giorno quella? Ve la potete insognare di giorno quella .-...” … “Fatevi conto … mezzanotte all'incirca. E voi, circa a quell'ora, prima possibilmente e non dopo, vi dovete mettere alla misa e fargli la posta ...” 5
Ma è solo la prima parte delle istruzioni perché quello che segue è davvero ciò che conta:
“Se volete approdare allo scopo vostro, in Sicilia” continuò ponderando le parole a una a una, pesate posate, sapute sapite, come dette da bocca a orecchio, dallo spiaggiatore, quando va solo seco seco “vi dovete scrivere a mente questo: che sono deisse e se non le trattate per tali e non gli entrate nella divozione, voi in Sicilia, per grazia loro, non ci arriverete mai.!6
Le femminote sono dee che si attendono però dal maschio che si comporti come tale, cosa che a lui vecchio è ormai interdetta. Cambria non risponde a quel richiamo sessuale con l'entusiasmo che il vecchio si aspetta. Questo comportamento gli fa venire il sospetto che la guerra gli abbia provocato una qualche mutilazione. Cambria ascolta e non risponde per lungo tempo poi taglia corto in modo laconico - no, non ha subito alcuna mutilazione - ma sorridendo dentro di sé di tenerezza verso il vecchio.
Fere e femminote
Fere e femminote sono personaggi concretissimi ma anche avvolti nella leggenda e nella macchina mitologica 7che sta sempre sullo sfondo di questa narrazione, come una specie di radiazione che si sente sempre ma che non invade il centro della scena. Nell'immaginazione del vecchio sono donne libere, forse troppo libere per lui, o forse sono addirittura delle prostitute. Negli incubi di 'Ndria le fere sono animali che popolano quel mare e che gli fanno paura.
Nella realtà le femminote sono donne che la guerra e la fame costringe a fare lavori maschili, in assenza di chi è al fronte. Sono loro che hanno messo al sicuro le barche dai germanesi e anche dagli inglesi, ma le sanno pure costruire; nel racconto del vecchio assumono dimensioni sovrumane, 'Ndria - quando le incontrerà - potrà apprezzarne tutta la sagacia e anche le abilità costruttive. Escono di notte in mare per sfuggire ai bombardamenti. Dormono a ridosso delle spiagge sulle barche o dentro le capanne nei paesi della costa. Accolgono nelle loro case anche soldati in fuga, libere lo sono di certo, il loro linguaggio è pieno di sottintesi e di certo non disdegnano relazioni che possono crearsi in quella situazione drammatica, anche come forma di difesa e protezione. Il lavoro che fanno è quello di traghettare, trasportare e contrabbandare il sale e altre merci: è lo scenario tipico della borsa nera come in ogni guerra, ma anche della fame e della fatica che accompagna queste popolazioni.
Dopo un lento scorrere del tempo fra incubi e conversazioni frammentarie, il grande incontro arriva. 'Ndria è solo sulla spiaggia e i piedi lo portano dove il vecchio gli aveva detto di andare.
… Aprì bene gli occhi nel buio, perché le aspettava nelle quattr'ore seguenti, a cominciare da quel momento sino al nuovo cambio della rema. Figurarsi se le femminote non se ne approfittavano del riflusso, per passare in Sicilia, fresche come rose, portate in carrozza dai bastardelli in rema. … Quando ormai il dormiveglia andava ammalignandolo con tutti i bisogni che potevano assaltare un uomo nelle sue condizioni, bisognoso solo in effetti, di dormire, il suo sonno intartarato, ombre rapide e leggere, silenziose e nere, come ricalchi vivi del buio, le chiumme contrabbandere erano scivolate sulla marina. 8
'Ndrja è così affascinato che rimane nel cono d'ombra per non essere visto, ripassa mentalmente quanto il vecchio gli aveva detto, ma proprio quando si decide a mostrarsi succede qualcosa che rimanda tutto. Boccadopa e Portempedocle, i due che lo tengono d’occhio per traghettare in Sicilia come lui, chiamano più volte - Mosè, Mosè - vogliono essere aiutati, ma le loro grida innescano un dialogo salace e divertente fra le femminote.
Come dicevo, la divagazione regna sovrana in questo romanzo, ma non è mai fine a se stessa, serve a mettere in luce qualche aspetto dei personaggi o delle situazioni.
Fatto sta che Cambria rimane nell'ombra, irretito dai loro dialoghi:
Stava a sentirle con svagatezza, spensierato. Non era come stare a sentire quelle altre, quella comarchetta stracqua dentro il giardino di aranci e limoncelli dalle parti di Praja …9
Queste sono donne vere, sembra dire Cambria dentro di sé, ma a differenza di quanto gli aveva detto il vecchio e cioè di presentarsi proprio nel momento in cui stavano con un piede sulla barca e uno a terra, decide invece di non farsi vedere e di fingere di dormire; saranno loro a trovarlo.
Si avvicinarono e qualcuna lo toccò con la punta di un remo a un fianco; una mano poi gli maniò i capelli e poi gli cercò la fronte e gliela comprimette col palmo, però come una leggera carezza.
Lei si accorge che lui finge di dormire e gli fa capire di saperlo, poi:
È nel primo sonno 'maro giovine. Non lo ammolestiamo, tanto noi andiamo e torniamo e lui sarà sempre su un fianco. Allora alla venuta gli spieremo chi è, che fa, da quale guerra viene …10
L'incontro è rimandato di qualche ora: nel buio 'Ndrja sente una voce che si rivolge a lui:
Giovine bello mi date una mano?
Inizia la parte del romanzo che lo porterà di nuovo in Sicilia, ma questa traghettata notturna fa entrare in scena uno dei personaggi più affascinanti del romanzo: Ciccina Circé. Non è una femminota come le altre. Si capirà che è lei ad aver fatto in modo di rivolgersi a lui al momento opportuno, sa che l'altro non può rifiutare.
Perché mirate a un passaggio in barca … e allora guadagnatelo il traghettamento …11
Il dialogo fra i due è aspro, lei è una donna dura, sarcastica, lo tratta come se fosse un figlio maldestro e un po' un ragazzino e forse a ‘Ndrja ricorda pure la madre morta. Non ama le domande che lui le rivolge con ammirazione, perché Cambria si rende conto subito della sua perizia, ma il bello deve ancora venire. Sulla barca c'è una campanella che comincia a suonare, in modo lieve, metallico e un poco ipnotico. Egli rimane interdetto e ne chiede la ragione, teme che altri la possano sentire, i soldati e chi controlla il territorio, ma Ciccina non risponde, vuole che lui comprenda strada facendo e infatti accade qualcosa che non aveva per niente previsto, ma stupisce e commuove anche chi legge. Le fere, attirate dal suono ipnotico, fanno da scorta alla barca, circondandola e guidandola nel mezzo delle correnti. 'Ndria è stupefatto e ammutolito, fra Ciccina Circé e gli animali marini corre una misteriosa corrispondenza. Il suono ipnotico le tiene legate all'imbarcazione e:
… solo quando la campanella si spegneva … sotto sotto si agitavano come i vava quando allattano in sonno e gli levano il capezzolo di bocca …12
‘Ndrja è invaso da stupore e gratitudine, ma tutto nella sua interiorità, un po’ perché lei lo intimorisce, un po’ per quel disagio profondo che si porta dietro, irriducibile; ma il viaggio intanto continua e persino le fere si trasfigurano almeno un poco anche per lui e sono meno minacciose:
Navigarono imbracati alle fere, come in crociera, fra i soffi freddi, costanti del bastardello e quelli grassi di sudori grassi di pelle e peggio di stomaco, che alquandalquando, nei sommovimenti, gli animalazzi rigettavano dalle loro bocche di sacco sopra la barca, come vampate di carburo che bruciava. Lui non sapeva se ridere o piangere.
Quanto Ciccina:
Per la femminota sembrava cosa di tutte le notti, china con il capo in avanti, i remi stretti al petto, forse dormiva, se ne fotteva. 13
‘Ndrja l’osserva silenziosamente e allora Ciccina Circè si trasforma nella sua immaginazione in una millunanotte: la macchina mitologica lavora sempre.14
Sarà lei a guidare il gioco fino alla fine, quando gli dirà che quella notte, per portare lui ha dovuto rinunciare al sale e alle merci; sarà sempre lei a ritagliarsi anche un fugace amore che lui accoglie e subisce al tempo stesso.
Padre e figlio
'Ndria non è più solo un fuggiasco ma anche un reduce che non sa cosa trova nel villaggio che ha lasciato. La guerra è un evento distruttivo assoluto. Il ritorno è un passaggio difficile, il reduce è anche un sopravvissuto, altri non hanno avuto la sua fortuna, deve essere riaccolto nella sua comunità e nella mitologia nordica una delle esperienze più traumatiche è proprio il mancato riconoscimento, addirittura da parte della madre che lo scambia per un fantasma. Siriana Sgavicchia, nella sua postfazione ricorda come D’Arrigo abbia studiato a fondo le vicissitudini del reduce: se n’era infatti occupato anche da giornalista per il Giornale di Sicilia.15
Fatto sta che nel romanzo è il padre a non riconoscerlo, o forse è ‘Ndrja a immaginarselo perché lo teme? Nei ricordi del figlio affiora il trauma di avere colto i suoi genitori nell’atto di amarsi, la scena primaria.
Non appena tornato s’aggira con circospezione. L'avvicinamento alla casa paterna avviene per gradi ma i ricordi si sovrappongono alla narrazione in presa diretta creando un flusso non facile da districare. S’immagina persino che una donna, Marosa, stia girando di casa in casa per avvertire i padri e anche il suo, che un’anima in pena si aggira per il villaggio e che potrebbe essere proprio suo figlio. ‘Ndrja è un personaggio che tace molto e vive nel suo mondo, nel quale ricordi e allucinazioni si mescolano in continuazione. Così, quando vede il padre che mette sul letto le tre vesti dell'Acitana e continua guardarle lo sta davvero vedendo oppure ricorda un gesto che Caitanello faceva spesso dopo la morte di lei? La seconda ipotesi è forse quella vera perché:
… All'origine di tutto, doveva essere il fatto che Caitanello non era presente quando l'Acitana morì. Padre e figlio, saliti coi pellisquadre al Golfo dell'Aria, erano stati pigliati da una burrasca e battuti alle isole. Da Panarea erano stati portati a Milazzo, da qui a Messina , e poi, da qui erano tornati alle case e in questo tempo l'Acitana si era sgravata e lei e la sua creatura erano morte. Caitanello, perciò arrivò a cose fatte, non la vedette morire e per lui l'Acitana, morì e non morì. 16
La vita di quei marinai era sottoposta a queste tragedie, sono i vinti di Verga decenni dopo e dopo la fine di molte illusioni. Il ricordo della tragedia innesca un flusso narrativo che ricostruisce quei momenti drammatici.
Caitanello si era chiuso allora nel silenzio, ma dopo una settimana aveva cominciato a invocare il nome di Acitana di notte. Squilibrio mentale oppure un ricordo distorto del figlio? Il flusso narrativo, affascinante come sempre, non scoglie del tutto gli enigmi ma intanto 'Ndrja si è avvicinato alla casa paterna e ritrova suo padre come lo aveva lasciato, che invoca un nome strano: Nasodicane. Alla fine l’incontro avviene, Caitanello piange persino sulle spalle del figlio e non era mai accaduto. Poi:
… Due parolette ti devo dire … premise e promise, e fecero l’alba quasi.17
La grande storia e la vita
Ci sono alcuni passaggi emblematici nel romanzo, che costituiscono una specie di gorgo. Sono episodi differenti fra loro, disseminati in parti diverse del libro, a volte comici o grotteschi altri più drammatici. Dicevo nell'introduzione che questo avviene a volte quando storia e politica s'imbattono nel flusso vitale che mai viene meno e scorre come un mondo parallelo all'altro. Ognuno dei due mondi ha le sue regole e il suo linguaggio, spesso indecifrabile per l'altro e questo crea degli ingorghi di senso e situazioni paradossali.
Il primo che riporto è un incontro in mare fra una vedetta con a bordo le camicie nere e i pellisquadra impegnati in una battuta di pesca:
… Dalla nave si levava il vocio a pecoro della camicie Nere …18
Dalla vedetta continuano inquadrarli con un cannocchiale finché un ufficiale si fa portare un megafono e ordina in modo perentorio ai pellisquadra di liberare un delfino che avevano catturato. I pescatori non sanno bene che fare c'è un momento di incertezza:
… Fra gli sbarbatelli sulla feluca, ce n'erano alcuni, ancora muccuselli, come per esempio Enzo e Salvatorello, che sentivano per la prima volta la parola delfino. Ma di chi parla? Domandavano quelli … Chi è questo delfino?19
Per loro si tratta di fere, non capiscono. Interviene allora Luigi Orioles che si rivolge all'ufficiale:
A vossia portammo forse qualche disturbo?
Dall'imbarcazione delle Camicie Nere parte una sequenza di insulti:
… Massacratori di delfini innocenti, Briganti Maffiosi …
La sequela di insulti continua
Terra ballerina la vostra. Vergogna dell'Italia e del fascismo. 20…
Il clima è teso e la narrazione di D'Arrigo sceglie come sempre la divagazione per tenere alta la tensione in chi legge, finché non si arriva a un primo snodo:
“Come avete detto che lo chiamate il delfino?” Aveva ridomandato giocando sempre con il moschetto.
“Delfino dovette dire suo padre, tirandosi il paro e il disparo “Delfino come lo chiama vossia. Noi gente senza istruzione siamo. Se vossia dice delfino, che delfino sia.”21
L'incertezza però continua finché non arriva di nuovo l'ordine di liberare l'animale. Avviene a questo punto un nuovo rovesciamento. Le onde del mare e la distanza rendono difficile la comunicazione fra le due imbarcazioni e a bassa voce i pellisquadre cominciano a parlare fra loro e lo stesso avviene sulla vedetta: è una commedia degli equivoci che corre sul filo del rasoio, basta un niente e può scoppiare la rissa. I pellisquadra inscenano una recita nella quale prendono in giro l'Eccellenza in camicia nera e quanto a Caitanello:
… se lo sarebbe mangiato vivo. …
E dalla nave:
… Qui, qui, altro che in Abissinia, sarei tentato di cannoneggiare qui, qui …22
Alla fine l'ufficiale chiede i loro nomi e quelli li danno senza discutere. Poi di nuovo arriva l'ordine di liberare il delfino. L'animale è mezzo morto, ma i pellisquadra fanno finta di nulla – la fera perché così si chiama per loro - ha un sussulto:
ma era solo miglioria di morte.
Sissignore avevano mormorato all'Eccellenza. Pigliatela la carogna, ti spetta come un parente stretto ...23
La narrazione ha qui un colpo d'ala: i marinai vedono che nel momento in cui la fera viene liberata, l'Eccellenza, che per tutta la scena era a torso nudo, si fa portare la Camicia nera e se la rimette.
Si mette a lutto per la fera, si dissero. Si veste d'autorità per noi …
Rovesciarono infine la fera in acqua e quando ancora galleggiava e non galleggiava, mezza nascosta fra gli spruzzi, il fascistazzo aveva fulmineamente imbracciato il moschetto e dando l'impressione di non mirarla nemmeno, le aveva scaricato il caricatore in testa. 24
“Questo orangutango ci fece da Dio” mormorarono sulla barca.25
La tensione infine si scioglie definitivamente:
Il bastimento sventolava tutto di alalà e di battimani delle Camicie Nere per il loro condottiero, l'Eccellenza che aveva fatto quella bella sparata. 26
Un secondo episodio, ben più drammatico è il solo in cui la guerra entra a pieno titolo nella narrazione. Siamo a Napoli durante le quattro giornate e i protagonisti sono un soldato tedesco e gli scugnizzi. Siamo alla fine, quando i tedeschi sono già in fuga e gli inglesi alle porte della città. Tra il Vomero e santa Lucia avvengono gli ultimi combattimenti. L’incontro fra il tedesco in fuga che cerca di arrendersi e gli scugnizzi è un’altra delle narrazioni emblematiche di questo romanzo, difficile da citare. A differenza di altri i toni realistici sono qui più evidenti, mentre la sequenza delle azioni riproduce un modello che si ripeterà anche in altre narrazioni e che abbiamo visto anche nell’episodio precedente: l’alternanza fra tensione che sale e scioglimento della medesima.27
Questioni di lingua e di stile
La lingua in cui è scritto il romanzo, il suo alto stile è una delle ragioni della sua importanza. La contaminazione fra lingua e dialetti non è nuova nella tradizione della narrativa siciliana, ma a me sembra che il progetto di D’Arrigo sia più ambizioso e si rifaccia al De vulgari eloquentia di Dante, un testo magistrale ma assai poco letto perché la Commedia si è mangiata le altre opere di Alighieri, in particolare questa e anche il De Monarchia. L'equivoco che si è protratto nel tempo è di dare preminenza al fiorentino come prototipo dell'italiano perfetto, ma questo non era affatto il programma di Dante che suggeriva invece di far nascere il volgare italico cogliendo fior da fiore le espressioni dialettali dei diversi idiomi regionali. Il fiorentino divenne invece il prototipo che fu fatto proprio da Manzoni, ma anche nella Commedia abbondano scampoli linguistici provenienti dalle diverse parti della penisola. D'Arrigo si muove in questo solco, accentua la coloritura espressionista ed epica della sua narrazione: inventa parole, ricorre a dizioni arcaiche, dialetto e italiano danno vita a una sorta di gramlot italo, calabro, siciliano, talvolta con apporti di espressioni pugliesi.
Solo in pieno '900 il programma dantesco si può dire pienamente attuato se pensiamo ad autori come Fenoglio, Gadda, Pasolini, D'Arrigo, Testori e Fo; ma anche Camilleri deve molto a D’Arrigo, così come altri autori - minori ma pur sempre significativi –; per esempio il lombardo Gianni Brera. Può sembrare una tradizione minore, ma ha suoi antecedenti illustri nel Baldus di Teofilo Folengo e nella nostra contemporaneità la ritroviamo anche nelle opere di Paolo Borzi.28
Lo stesso modo di trattare la lingua si ritrova anche in poesia. In pieno ‘900, Iolanda Insana, con il suo linguaggio aspro e contundente, si muove nel solco di questa tradizione. La condensazione di parole si ritrova nelle poesie di Antonella Doria, le incursioni dialettali e la sua ricerca sulle origini della città di Palermo – Ziz – fanno avvertire al lettore la sovrapposizione di diverse civilizzazioni e della conseguente ricchezza lessicale siciliana.29 Lo stesso si può dire del libro di Francesca Farina dal titolo La scuola dei somari, sonetti per un anno di scuola30 Un caso a sé, ma rapportabile a questo discorso sulla lingua, è il cantautorato italiano maschile e femminile.31
Tornando a D'Arrigo, la sua sperimentazione linguistica non consiste però in un uso del significante come variabile indipendente. Il suo intento è di scovare parole e costruire una struttura della frase che mira a ridare senso e significato a un italiano sempre più standardizzato dalla comunicazione giornalistica e poi televisiva: siamo distanti dalla neoavanguardia e dal culto della sperimentazione in sé; se mai è l'espressionismo, come ho già detto, un riferimento possibile.32
Per queste ragioni il romanzo costituisce un caso unico nella narrativa italiana, che può essere paragonato all'Ulisse di Joyce, come osserva Pedullà nella sua introduzione critica e persino a Finnegans wake se pensiamo alle parole inventate che tuttavia hanno una sonorità tutta italica che il lettore riconosce subito e che sono sempre rivolte all’intensificazione del significato e dei nessi. Ne ricordo alcune esemplari.
L'incipit con la ripetizione flacco flacco, che ha la sonorità dell'onda ma anche quello di una vela che si scuote quando il vento non è troppo forte.
Lo stesso si può dire per stracqua, un aggettivo che associato alla comarchetta – un ironico diminutivo di comare - e al suo linguaggio, è al tempo stesso comico ma anche critico del conversare vuoto e salottiero della ragazza di Praja a mare, contrapposto alla forza espressiva di Ciccina Circè.
Fracquo è un modo di rappresentare al tempo stesso la stanchezza del vecchio marinaio che lo ha indirizzato alle femminote e il suo parlare che assomiglia a un sospiro stanco.
Deisse definisce il vecchio le femminote; non dee, parola più sfumata, mentre nel vocabolo usato da D'Arrigo si avverte tutta la forza e anche l'ammirazione e la paura nei confronti di quelle donne.
Vava è un modo di chiamare i neonati, un termine onomatopeico che si richiama alla lallazione.
Ammalignandolo è un aggettivo che appesantisce il sonno che grava su 'Ndrja e che infatti diventa intartarato, un altro aggettivo assai evocativo.
Chiumme, un’espressione pugliese che potrebbe riferirsi al movimento delle barche che silenziosamente fendono la corrente come una lama.
Maniò i capelli espressione che alla lettera indica un disturbo psichico e cioè il mangiare i capelli, ma che forse in questo contesto vuole solo sottolineare il tratto misterioso e un po’ stregonesco che circonda le femminote.
muccuselli, un modo dialettale per dire mocciosi.
Un problema a se stante riguarda poi le frequenti metafore sessuali, i doppi sensi. Quello di D'Arrigo è un vero corpo a corpo con il linguaggio sessuale, ma la sua singolarità sta nel fatto che in realtà è proprio il linguaggio il suo oggetto d'amore più che non il sesso, che diviene tramite metaforico per dire altro. Alta sublimazione? La metafora psicoanalitica è al tempo stesso troppo e troppo poco in questo caso. Troppo perché specialmente in alcuni passaggi il piacere di giocare con la lingua è talmente evidente, da porre in secondo piano tutto il resto; troppo poco perché se anche fosse vero come è stato ipotizzato che 'Ndrja Cambria è un alter ego del suo autore – le ragioni della sofferenza del personaggio sono esposte nel testo in modo palese e riguardano il rapporto con il padre e l'assenza della madre nel doppio significato di morta precocemente da un lato ma anche di dubbio di chi sia, ma non abbiamo indizi sulla possibilità di passare dal personaggio al suo autore, per cui credo che occorra tenersi un passo indietro.
Epica e storia
Le due o tre parti in cui è idealmente diviso il romanzo ci riportano al viaggio di Ulisse. Il reduce, il suo permanere di nuovo nella comunità; infine la nuova partenza che lo porterà alla morte. Il modello è questo anche se la conclusione non avverrà lontana dal villaggio: il richiamo all’epica come genere, ma non è riducibile del tutto ad essa. Prima di tutto perché, come abbiamo già visto, il sovrapporsi di storie e narrazioni fanno pensare anche al labirinto di Le Mille e una notte, espressione che ricorre spesso nell’intero romanzo e che ha una relazione anche con la narrazione orale e l’affabulazione.
Il modello epico viene poi svuotato dall’interno e privato del lato eroico. ‘Ndrja Cambria è un fuggiasco e uno sbandato, non è un guerriero; gli scugnizzi di Napoli peraltro, rappresentano una forma estrema di difesa, ma il grande gioco, anche in quel caso, è nelle mani di altri. L’otto settembre è una fine che si somma a quella precedente con il venir meno delle speranze risorgimentali, molto forti in Sicilia nonostante una narrazione spesso contraria. Quanto alla resistenza, essa ci fu anche nel sud d’Italia, a Napoli e non solo, ma la narrazione dominante la colloca al nord, quel nord che appare assai lontano in questo romanzo, un altro mondo. Che ne fosse del tutto consapevole o meno D’Arrigo ci ha lasciato un romanzo che, come nessun altro, ci fa percepire la distanza che separa le diverse Italie e non solo il nord dal sud; se teniamo conto dell’anno della sua pubblicazione – 1975 – la ricorrenza lascia un po’ sgomenti. È l’anno che segna il passaggio fra il venir meno della spinta sessantottina prima della sua ripresa nel 1977, ma è anche l’anno dell’uccisione di Pasolini, del delitto del Circeo e di un protagonismo femminile dirompente che provoca una frattura profonda interna ai movimenti di quegli anni. Il romanzo di D’Arrigo sembra provenire da un altro mondo e da un altro tempo, ma ha ragione Pedullà a sottolineare nel suo saggio introduttivo quanto segue:
D’Arrigo non ha certo pensato al femminismo ma intanto nel suo romanzo si vede una donna che sa costruire una barca meglio del supremo maestro d’ascia che era stato suo marito. 33
Non è questo peraltro il solo momento in cui il femminile si affaccia potentemente nell’opera. Nei protagonisti maschili, peraltro, spesso è lo stupore a prevalere rispetto a modi più tradizionalmente patriarcali di trattare le donne, uno stupore autentico, come se alcuni di loro le vedessero per la prima volta. Insomma, i segni dei tempi hanno pure il loro modo sotterraneo di palesarsi e questo ci porta a un’altra questione capitale.
Il tempo in Horcynus Orca
In realtà è meglio parlare di tempi al plurale. Il primo, quello lineare, è molto semplice da individuare. Ritorniamo un momento all’inizio del romanzo, dove in modo quasi didascalico, si indica una data precisa in cui tutto sembra cominciare; ma quell’indicazione così netta in realtà inganna se la prendiamo alla lettera. ‘Ndria fugge da Napoli e il sole tramontò quattro volte prima di arrivare allo stretto, il 4 di ottobre. Il 5 è già arrivato al villaggio e qui inizia la seconda parte del romanzo, ma nel frattempo sono passate oltre 600 pagine di testo e questo ci dà la sensazione immeditata di una dilatazione del tempo rispetto a quello lineare.
Il ritorno di ‘Ndrja è scandito da un secondo avvenimento: l’avvistamento in mare dell’orcaferone.
… E per andare al fatto, circa alla stessa ora in cui ‘Ndrja tornava di tanto lontano alla ‘Ricchia, a qualche miglio di lì, nel Tirreno, nelle profondità della mezzerìa dello scill’e cariddi dove poggiava freddo nella lava fredda e nera del suo sonno, un gigantesco, misterioso animale, cominciava la poderosa operazione del suo risveglio e riasommamento. 34
Un destino comune li attenderà nel finale del romanzo. Gli elementi leggendari che circondano il risveglio di questo mostro marino sono un’altra delle narrazioni collaterali.
Il tempo lineare sembra simile quello dell’Ulisse joyciano dove tutto avviene in una giornata, ma in realtà le due modalità non si sovrappongono perfettamente l’una all’altra. Leopold Bloom si serve delle ore del giorno per scandire la sua narrazione a flussi di coscienza, mentre nel romanzo di D’Arrigo questo non avviene anche perché c’è un tempo dominante in tutto il romanzo ed è un tempo notturno. Non è un caso che l’inizio ci ricorda un sole che tramontò quattro volte e più si va avanti nella lettura ci si rende conto che raramente s’incontra il sole pieno del giorno; anzi, all’inizio il vecchio suggerisce a ‘Ndrja di tenersi lontano dal biancore abbacinante della spiaggia sotto il sole pieno. La notte domina e il buio diventa così il controcanto di un tempo che non scorre, di un‘alba che non arriva: è un tempo che coincide con la radiazione di fondo della macchina mitologica. In questo senso a me sembra che Ulisse/’Ndrja di D’Arrigo non abbia quegli aspetti dissacranti del mito, tipici della narrazione joyciana, ma si porti dietro tutto il peso e il dolore di una tradizione giunta al suo termine. Questo ci porta a un altro degli aspetti di fondo dell’opera: Horcynus Orca è romanzo di morte. La morte domina dall’inizio alla fine ma sempre insieme all’amore come ancella, ma anche in questo caso si sfugge dal troppo canonico cliché legato ai due termini. Vediamoli prima separatamente.
La guerra è morte in sé, o nella parola della femminota già ricordate è morte governativa. Non appena arrivato nel golfo muore un pescespada, muore il delfino ucciso dal fascista che lo voleva liberare, le fere hanno un loro cimitero dove si ritirano per morire. Non appena giunto in Sicilia ‘Ndrja ricorda la morte di Acitana. Alla fine muore l’orcaferone, poco prima di ‘Ndrja, ucciso da un colpo di pistola sparato dalla nave inglese. La morte per acqua, a causa di tempeste e naufragi, è causa diretta di altre tragedie e D’Arrigo conosceva molto bene Eliot.
Domandarsi se la morte sia anche metafora e allegoria, o entrambe le cose, è quasi ovvio e forse è proprio collegandola all’amore che ritroviamo il filo di un discorso che in parte segue il cliché, ma in parte no. Prima di tutto no, perché a ben vedere il momento sessuale cui il cliché è maggiormente legato appartiene più agli animali, come avviene con il coito fra le due fere ed è proprio in questa rappresentazione che il cliché viene pienamente rispettato. Sono alcune pagine fra le più memorabili a mio avviso, ma difficili da citare perché è solo leggendole dall’inizio alla fine che si può afferrarne la tragica bellezza. Il contesto in cui avviene è una battuta di pesca, che coinvolge Caitanello e gli altri compagni di ventura. D’Arrigo descrive i preparativi, la gioia di ritrovarsi in mare, la speranza che la pesca sia fruttuosa. L’indulgere nei particolari è un altro accorgimento tipico del suo alto stile: preparare la scena madre avvicinandosi ad essa con lentezza e cautela a volte in modo estenuante. L’avvistamento degli animali, l’avvicinamento, la tensione che cresce, fino al climax e al suo scioglimento dove amore e morte si tengono strette.35
Quanto agli umani sono le femminote le vere protagoniste. Nei soggetti maschili, l’aspetto mentale del sesso è dominante È così per il vecchio all’inizio del romanzo, che rimpiange la sua mascolinità perduta: è così per ‘Ndrja, prigioniero del complesso edipico e che subisce la relazione fugace con Ciccina Circè; è così per il Maltese, ma anche per Caitanello che sogna l’Acitana che non c’è più; infine è così nella scena del coito fra le fere, appena ricordato, in cui gli uomini a bordo osservano a distanza. Sotto questo aspetto il romanzo di D’Arrigo è una dissacrante e persino comica demolizione della mitologia del maschio latino e siciliano immortalato da Brancati.
Eravamo però partiti dal tempo: che tempo è quello rappresentato nel romanzo? Da un lato è l’irrilevanza dello scorrere lineare, ma non perché gli eventi non vengono registrati. Ci sono tutti, dalla guerra alla fatica del lavoro dei pescatori, dalle difficili relazioni parentali a quelle d’amore. Tutto questo però è il retaggio di una storia che sembra non avere riscatto, ma che è pure deprivata dalle illusioni eroiche della macchina mitologica.
Poi c’è il tempo della memoria, del ricordo che corre per flussi di coscienza a volte più razionali a volte meno, tanto da sconfinare in incubi. Al fondo di tutto questo una versione della macchina mitologica che sconfina in narrazioni stregonesche. L’immagine dell’orcaferone – il riferimento a Moby Dick è legittimo – il delfino che diventa una fera – termine che si porta addosso nella sonorità un senso di morte – e altri riferimenti ci portano al cuore di leggende di mare che sono presenti un po’ in altri contesti ma che nello Scilla’ e Cariddi e in questo romanzo assumono una connotazione magica assai evidente.

Per concludere
Cosa rimane oggi di questo romanzo? Poiché ho chiamato in causa l’epica mi domando in queste conclusioni provvisorie se sia proprio vero che non ci sono eroi in Horcynus Orca. Se si pensa ai canoni classici la risposta è negativa e anche le femminote, che in alcuni momenti potevano sembrare delle eroine - almeno nella rappresentazione di ‘Ndrja e di altri protagonisti maschili - vengono poi anch’esse riportate nell’alveo di un umano troppo umano dalla sapienza del narratore onnisciente. Allora se due figure eroiche ci sono in questo romanzo sono a mio avviso la fabula e il linguaggio. Horcynus Orca è un monumento alla lingua, alla sua inesauribile ricchezza e all’affabulazione, perché un altro dei grandi meriti di questo romanzo è di avere riportato l’oralità nella scrittura.
Concludo allora citando Walter Benjamin e in particolare il saggio su Leskov del 1936, nel quale sottolineava proprio questo aspetto come decisivo. Dopo una perentoria affermazione iniziale sul tramonto dell’arte del narrare egli afferma:
L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi. Questi ultimi si dividono in due gruppi: … - Chi viaggia ha molto da raccontare - dice un detto popolare e concepisce il narratore come colui che viene da lontano. Ma altrettanto volentieri si ascolta colui che … è rimasto nella sua terra e ne conosce le storie e le tradizioni. … se contadini e marinai furono i primi maestri del racconto, la sua scuola superiore è stato l’artigianato ...36
In D’Arrigo ci sono contadini e marinai, pescatori stanziali e donne che fanno un po’ di tutto e coltivano le tradizioni locali. Ancor più, l’oralità è necessaria all’epica e cito ancora una volta Benjamin:
… La memoria è la facoltà epica per eccellenza …37
Certo, nel modo di ricordare di D’Arrigo e specialmente nel personaggio di ‘Ndrja, entrano in scena sollecitazioni novecentesche e moderne, ma una delle ragioni del fascino dell’affabulazione, anche nelle sue estenuanti lunghezze, è proprio questa irruzione dell’oralità. Arrivati alla fine e ripensando alla concatenazione di fabulae, si ha la sensazione che l’opera non finisca, che la sua eco continui dopo che abbiamo chiuso il libro, proprio perché l’oralità ritorna al centro. Un’ultima citazione da Benjamin può allora aiutarci a capire:
… Poiché non c’è racconto cui non si possa porre la domanda sulla sua continuazione: mentre il romanzo non può mai sperare di procedere oltre quel limite dove scrivendo finis sotto la pagina, invita il lettore a rappresentarsi intuitivamente il senso della vita. …38
1 Stefano D’Arrigo Horcynus Orca, Bur contemporanea, Rizzoli, 2025. La citazione di cui sopra è alle pagine 8 e 10 del saggio introduttivo di Giorgio Vasta.
2 Op. cit. pag. 57.
3 Op. cit. pag. 160.
4 Op. cit. pp. 161-2.
5 Op. cit. pag. 164
6 Op. cit. pag. 165
7 Preferisco usare la terminologia proposta da Furio Jesi, che sottolinea la differenza fra mito e macchina mitologica. Il Mito con la maiuscola è inconoscibile, oppure è un orpello della cultura di destra fondata sull’eterno ritorno. I miti poi sono molti e in questo romanzo ritroviamo frammenti che appartengono a macchine mitologiche diverse, pur essendo quella greco mediterranea la più presente.
8 Op. cit. pp.327-8.
9 Op. cit. pag, 334.
10 Op. cit. pag.335.
11 Op. cit. pag. 337.
12 Op.cit. pag.347.
13 Ivi.
14 Questa espressione sarà usata diverse volte nel testo, sempre con significati leggermente diversi, ma sempre riferiti alla narrazione di Sherazade.
15 Op. cit. Postfazione di Siriana Sgavicchia pp.1175-92.
16 Op. cit. 417
17 Op. cit. 487.
18 Op. cit. pag. 237
19 Ivi.
20 Ivi.
21 Op. cit. pag. 241.
22 Ivi
23 Pp. 242-3.
24 Ivi.
25 Ivi.
26 Op. cit. pag. 244.
27 Op. cit. pp.606-19.
28 L’opera di Borzi è complessa per i suoi continui passaggi dalla poesia alla prosa. Borzi si rifà sia alle tradizioni colte sia popolari e spazia dal ciclo Bretone agli stornellatori toscani. La sua particolarità però consiste nel ritenere che un autore moderno possa attingere alla lingua italiana nella sua stratificazione storica. In altre parole uno scrittore ha a disposizione tutta la lingua e non solo quella scritta e parlata nella contemporaneità. Mi riferisco in particolare alle seguenti opere. La prima è intitolata Le sciamanicomiche, pubblicata con Foschi nel 2007. Successivamente La materia di Britannia, in ottave libere e incatenate, pubblicato con Fermenti nel 2011. Le Tavole della leggenda, pubblicato con AltrEdizioni, Cerveteri 2014. Infine Il Novellone pubblicato con Rubin, pubblicato nel 2021. Sull’opera di Paolo Borzi hanno scritto Marcello Carlino, accademico presso la Sapienza Roma, che ha prefato alcuni dei libri e Donato Di Stasi. Un video su di lui e un mio saggio sono presenti nel mio blog www.francoromano.it. Infine Paolo Borzi è presente nel libro di epica nuova, laboratorio di poesia critica, a cura di Paolo Rabissi e Franco Romanò, Youcanprint 2024.
29 I testi di Antonella Doria cui faccio riferimento sono Altreacque (Book Ed. 1998); medi-terraneo (1995 -1999), Primo Premio di pubblicazione per l’Inedito Il Porticciolo, Sestri Levante 2004 (Ibiskos Ed. 2005); Parole in Gioco (AA.VV. s.i.p. 2005). In Metro Pólis (ExCogita Ed. 2008), l’indagine sulle origini della città di Palermo ci porta addirittura ai Fenici. Infine Millantanni (edizioni del verri 2015). Ecco alcune citazioni dai testi. Da Altreacque: L’acqua è il mio elemento/Mi suscitò dal flusso dell’onda il suo sospiro/di Dea che lieve increspava l’immotaluce/In essa s’immergeva scivolava per dare e avere/Vita il tuo sorriso argento/ che riluce/ a mormoranti fronde nei canneti. …
30 Il libro, pubblicato da Bertoni editore, è un testo anomalo nel panorama italiano. La scelta del sonetto prima di tutto, che stride però con il linguaggio aspro e drammatico del dettato, che non si rifà di certo alla tradizione petrarchista ma piuttosto a Pietro Aretino e ai suoi Sonetti licenziosi e scellerati. Dal libro cito questo sonetto: Hanno ragione loro, basta libri,/Basta istruzione, ma che m’incazzo a fare,/Ad imporgli per forza la lezione,/Se per il mondo vorrebbero ora andare,//Girovagando in cerca di un lavoro,/Pure che sia, o sguatteri, o lavandaie,/Contenti di un salario anche da fame,/Senza pensare a dignità e decoro.//Mi arrendo,o forse no, io vado avanti, Ad inculcare nel cranio degli stolti/la bella verità che piacque a tanti,//L’immenso scibile di tutti i sacri morti/Resi immortali, diversi dagli insani/Giovani scellerati, già sepolti/
31 La platea è ampia e non si limita ai nomi più conosciuti: dai genovesi a Tenco, a Gianna Nannini a Battiato. Ogni regione ha i suoi cantori che mescolano lingua a dialetti: da Carmen Consoli a Patrizia Laquidara, oppure interpreti come Ginevra Di Marco e Fiorella Mannoia. Un discorso a sé riguarda poi la canzone napoletana.
32 Lo sottolinea pure Siriana Sgavicchia nella sua postfazione, ricordando un’intervista rilasciata dallo stesso D’Arrigo che ha sempre affermato di ritenersi un innovatore piuttosto che uno sperimentatore e quindi un classico. La citazione si trova alla pagina 1117. Importante anche la nota 4 ad essa collegata.
33 Op. cit. pag. 28 dell’introduzione di Pedullà.
34 Op. cit. pag. 691.
35 Op. cit. pp. 223-8
36 Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1982, pag. 247.
37 Op. Cit. Pag.263.
38 Ivi. |