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Intervista a Costanzo Preve - pag. 3 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
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Intervista a Costanzo Preve
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Biografia di Costanzo Preve
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FR: Lei afferma, che per nutrire la speranza razionale di rifondare un’etica e anche una politica anti capitalistica adeguata ai tempi bisogna pensarla come ontologia dell’essere sociale, il che, al di là che ci siano o meno forze antagoniste, presuppone anche una riconversione totale da un punto di vista teorico. Vuole chiarire questo punto?

 

CP: Con il termine ontologia dell’essere sociale ci si può riferire a due diverse cose: prima di tutto a un libro di Lukács scritto nell’ultima parte della sua vita, che porta questo titolo. Al libro seguirono anche dei prolegomeni che però vertevano sulla stessa teoria. Lukács, che considero il più grande marxista del ‘900, individuò il cuore del problema del marxismo novecentesco nella polemica contro il materialismo dialettico, fondato da Engels e da Lenin, che ipotizzava l’omogeneità fra le leggi che presiedono la riproduzione della natura e quelle della società. Lukács capì che questa ipotesi non era altro che un residuo di positivismo, filosofia egemone negli apparati universitari tedeschi del tempo, cui Engels spontaneamente aderì. La stessa classe operaia tedesca e la Seconda Internazionale, peraltro, aspiravano ad acquisire i punti più alti della scienza borghese contemporanea.

 

FR: Turati diceva di sé di essere positivista e quindi marxista…

CP: Sì, negli anni fra il 1880 e il 1910, di fatto, marxismo e positivismo erano sinonimi.

 

FR: Non così per Labriola…

CP: Sì, tranne Labriola, che stava un po’ a metà, mentre non lo era per niente Gentile, che sostenne per primo che il marxismo era una filosofia della prassi e non della natura. Gramsci era gentiliano puro, naturalmente comunista e non fascista. Nel mio libro Marx inattuale quando si parla di ontologia dell’essere sociale ci si riferisce alle caratteristiche strutturali dell’essere sociale, indipendentemente dal fatto che sia schiavistico, feudale o capitalistico. Significa considerarlo distinto dall’essere naturale. Quest’ultimo viene indagato dalle scienze della natura, ma cosa li distingue? L’autocoscienza. Mentre l’essere naturale ha una sua storia evolutiva ma non è caratterizzato dal passaggio dall’essere in sé all’essere per sé, l’essere sociale è caratterizzato dal passaggio dalla coscienza all’autocoscienza e questo deve essere messo al centro della filosofia. Ora, nella misura in cui il marxismo a partire da Engels fu fuorviato come Naturprozess e Naturgeschichte, era necessario restaurare l’ontologia dell’essere sociale come centro del marxismo stesso. Accettare tale ontologia significa rifiutare l’inevitabilità del passaggio al socialismo o al comunismo in quanto l’essere sociale, a differenza della natura, ha la possibilità di scegliere e quindi non ci può essere alcuna ineluttabilità nelle trasformazioni sociali, la scelta è sempre fondamentalmente non deterministica. Questa rinuncia è gigantesca e non mi stupisce che i comunisti l’abbiano ignorata quando Lukács era in vita e poi l’hanno completamente rifiutata. Egli chiedeva al movimento comunista una conversione totale e cioè la rinuncia al presupposto religioso che il comunismo è qualcosa di ineluttabile che nasce dalle ceneri della società capitalistica e che è possibile prevedere come se si trattasse di una legge di natura. Egli ha impostato giustamente il problema anche se poi è rimasto a metà strada; non perché fosse vile ma perché era un uomo totalmente inserito nella Terza Internazionale, diceva di sé di esser un vecchio cominternista. Se devo parlare di un mio profilo filosofico posso dire che secondo me la via individuata da Lukács era giusta, ma che bisogna andare avanti, ammettendo, per esempio che, mentre la teoria della storia di Marx è strutturalista, la filosofia in cui Marx incorpora questa teoria è idealista.

 

FR: Questo è un punto capitale del suo pensiero. Prima, però vorrei fermarmi ancora sull’ontologia dell’essere sociale. Questa ipotesi non presuppone, forse, anche una natura umana come ente naturale generico?

CP: Il concetto di ente naturale generico è la traduzione italiana non del tutto corretta della parola Gattungswesen, ossia un ente non specifico. Marx introduce il termine per distinguere l’umano dall’animale. Se una tigre mangia qualcuno non è dis-tigre mentre invece a differenza degli animali l’uomo può diventare dis-umano, cioè perdere la propria essenza. Questa concezione di Marx di essere umano come ente naturale generico, deriva da Aristotele, in quanto animale politico sociale comunitario con il logos e cioè linguaggio, ragione e capacità di calcolare i buoni rapporti sociali. L’antropologia marxiana è totalmente aristotelica, al di là delle differenze linguistiche. Chi studia il giovane Marx si va a impigliare nelle diatribe con Feuerbach, con Bauer ecc. e così facendo si perde di vista il problema principale e cioè la definizione marxiana di ente naturale generico. Ente vuole dire che non è l’essere ma solo un suo interprete. L’essere, come si sa, può essere interpretato in tre modi: l’essere Dio e quindi la concezione religiosa; l’essere non esiste, che porta al relativismo; infine l’essere sociale e dunque la storia come luogo hegeliano in cui l’ente generico si trasforma. Marx è un hegeliano comunista. Io rimango fermo su questa impostazione antropologica, che la scuola althusseriana e l’operaismo italiano (Toni Negri), negano. Sono allievo di Marx in quanto aderisco alla critica comunista della società capitalistica ma sono forse più allievo di Aristotele e di Hegel, filosoficamente parlando, perché Marx stesso ha poi qualche scivolamento positivistico, quando per esempio pensa che la filosofia possa essere abbandonata, cosa che io non condivido.

 

FR: Infatti, a differenza di altri marxisti, lei considera ancora centrale la filosofia e il rapporto stretto fra Hegel e Marx. In questo contesto quale è l’importanza della dialettica e cosa ne pensa dell’ostilità di cui è circondata, anche da parte di pensatori che si definiscono marxisti?

CP: In pochi minuti è difficile esporre il mio pensiero sulla dialettica: comunque su questo ho scritto dei libri e se mai rimando a quelli. In prima approssimazione direi che il pensiero dialettico è quello che prende atto della contraddizione interna di un complesso storico e ideale e che parte da questa contraddizione per cercare di spiegarla. L’ostilità nei confronti della dialettica ha diverse origini e in parte è dovuta ai suoi effettivi usi manipolatori: con la scusa della dialettica si può dimostrare che il bianco è nero e viceversa. Tuttavia questo non tocca l’argomentazione principale, ma soltanto gli usi truffaldini. La seconda cosa che non viene compresa dalla maggioranza dei marxisti è che esiste una sola logica dialettica, non esiste una logica dialettica materialista e una idealista, così come non c’è una matematica materialista e una idealista. Marx non crea un’altra dialettica, ma applica le leggi della dialettica a un nuovo oggetto sociale: il modo di produzione capitalistico. La reazione italiana alla dialettica è di due tipi: uno scientista (Della Volpe e Colletti) e una seconda di tipo differenzialistico. La prima opposizione ritiene la dialettica incompatibile con le scienze. Ora è veramente incompatibile con la scienza galileana in quanto tutta la scienza della natura è strutturata sulla logica di non contraddizione, ma questo riguarda esclusivamente le scienze fisiche e naturali.

Più recentemente vi è la reazione del postmoderno di Vattimo, che vede la dialettica come una specie di coazione all’unità e alla sintesi obbligata. Ora, entrambe queste reazioni non toccano a mio avviso il problema principale e cioè la distinzione fra dialettica logica e dialettica storica. La prima delle due, che trova la sua massima espressione ne La scienza della logica di Hegel, è una dialettica della coscienza ed effettivamente nel linguaggio di Hegel il concetto non è una categoria conoscitiva bensì l’autocoscienza libera del soggetto. Tale dialettica è effettivamente teleologica perché il soggetto giunge necessariamente, alla fine del percorso, all’autocoscienza. Questa necessità riguarda unicamente la dialettica logica. Nella dialettica storica non c’è nessun determinismo finale, la storia è per definizione aperta e multi lineare. Il vero dramma del comunismo è quello di avere sovrapposto la dialettica logica alla dialettica storica, creando in questo modo una sorta di logicizzazione indebita della storia, che Lukács chiama storia spogliata dalla forma storica. Tale distinzione è fondamentale e fin quando non si chiarisce questo punto secondo me non si fa un passo avanti.

 



 

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