Weblogic

Home Aree tematiche Con Marx e oltre... Intervista a Costanzo Preve - pag. 5
Intervista a Costanzo Preve - pag. 5 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
Intervista a Costanzo Preve
pag. 2
pag. 3
pag. 4
pag. 5
pag. 6
Biografia di Costanzo Preve
Tutte le pagine

FR: Vorrei passare ad altri aspetti della sua ricerca. Lei afferma, in Storia del Materialismo, che nella fase attuale del capitalismo viene meno la correlazione dialettica necessaria fra borghesia e proletariato, in quanto la riproduzione capitalistica non ne ha più bisogno e usa, a questo proposito espressioni come capitalismo post borghese e post proletario. Tuttavia in altre parti dei tre libri lei afferma che lo sfruttamento esiste ancora e che il sistema globalizzato post borghese e post proletario si regge pur sempre sull’estorsione di plusvalore relativo e assoluto. Le chiedo allora: non esiste più la correlazione dialettica borghesia proletariato, oppure non riusciamo più a vederla?

 

CP: Se si pone la domanda: esistono ancora borghesia e proletariato?, la risposta dipende da che punto di vista ne parliamo. In base alla proprietà privata dei mezzi di produzione, la risposta è sì, ma si tratta della scoperta dell’acqua calda. Se però definiamo borghesia e proletariato intendendo non solo una collocazione economica nei rapporti di produzione, ma anche un’identità di carattere culturale, artistico, letterario, di autocoscienza, sessuale persino, allora le cose cambiano. Se ragionassimo solo in termini di rapporti di produzione dovremmo dire che Berlusconi è borghese come Cavour e in questo caso dovremmo avere insieme a lui anche la grande letteratura borghese, la grande arte borghese, un Manzoni, un Flaubert, un Verga, un insieme di abitudini e culture che invece non ci sono più. Chi si occupa di arte, musica, cultura, sessualità sa bene che la grande arte borghese non c’è più. Io non ho fatto altro che trasportare ciò che è ovvio in campo artistico e musicale ad altri campi. La mia ipotesi è che, a partire dal ‘6-700 sia decollato un soggetto borghese - quando il proletariato non esisteva ancora - che si è fatto strada fra i rapporti tardo feudali di produzione. Nella prima fase del capitalismo la borghesia ha funzionato come vettore dei nuovi rapporti di produzione e lo ha fatto anche nella filosofia, nel campo della arti ecc. Con la Rivoluzione Industriale inglese, la nascita del proletariato e la diffusione in Europa del capitalismo durante l’800 si entra nel secolo dello scontro borghesia-proletariato. Essi non più solo soggetti anonimi della produzione, ma esistono come identità e cultura. Poi è arrivato il comunismo storico novecentesco e il fatto che la borghesia abbia metabolizzato questa fase storica e la sconfitta del comunismo, ha modificato gli agenti della riproduzione capitalistica. Essi sono diventati anonimi, uso qui una definizione di La Grassa, cioè continuano a riprodurre la società capitalistica, ma senza più avere alle spalle Dickens, Thackeray, Balzac, Stendhal, Kafka e Freud. La mia ipotesi è che a partire dal ’68, è nato il mito di fondazione di un capitalismo anonimo; naturalmente sto parlando dell’Occidente, non dell’India o di altri paesi Latino americani, dove invece penso che una borghesia esista ancora, intesa come classe che produce anche una cultura e un’arte borghese: da Garcia Marquez a Salman Rushdie, i loro romanzi sono espressione di questo.

 

FR: Un ricordo personale, ero in Messico quando morì Osvaldo Soriano: ci fu un minuto di silenzio in tutto il continente:

CP: Certo, perché lo scrittore ha ancora una funzione sociale come l’avevano Manzoni, Flaubert, Dickens, Strindberg. Il capitalismo occidentale giunge al suo proprio concetto speculativo guardandosi non più come borghese, ma come pura merce e come puro denaro. La borghesia si è così completamente metabolizzata nel denaro astratto, nel mercato astratto. Questo non significa che non ci sono più coloro che detengono la proprietà privata dei mezzi di produzione e altri che vendono forza lavoro, e in condizioni ancora più precarie, ma non esiste più la cultura che corrispondeva a questo. Faccio un solo esempio che è anche un sintomo: la cultura borghese dava molta importanza alla storia, la cultura post borghese è destoricizzata. I film americani ci fanno vedere Troia come se parlassero di George Washington. Stiamo entrando in una configurazione che in un libro scritto insieme a Eugenio Orso, definiamo capitalismo neo-feudale, di cui io stesso non sono del tutto convinto, ma che è un tentativo di definire qualcosa di nuovo con parole nuove.

 

FR: Lei parla anche di suicidio della borghesia.

CP: Quando si parla di suicidio della borghesia, l’espressione è certo un po’ enfatica ma significa una cosa molte semplice: che la borghesia stessa si rende conto in modo inconscio che finché esiste un proletariato il suo potere è debole perché avrà sempre di fronte a sé un nemico. Per vincerlo ci sono due modi: distruggerlo, ma questo è impossibile perché la borghesia ha bisogno di lavoro salariato, nessun fascismo per quanto feroce potrà distruggere il proletariato. La cosa migliore è una specie di suicidio giapponese collettivo, dove borghesia e proletariato muoiono entrambi in una frammentazione individualistica. Quando affermo questo non penso che ci sia da qualche parte un comitato che lo abbia deciso, ma che questo sia avvenuto attraverso meccanismi che possiamo racchiudere in una specie di eterogenesi dei fini. Da circa 40 anni abbiamo assistito allo smantellamento del patriarcalismo borghese, l’avvento della gender politics, alla dissoluzione del rapporto genitori figli come rapporto di educazione e credibilità; infine la dissoluzione della grande arte borghese sia nella forma letteraria, sia pittorica. Tutto questo non indica un fenomeno che possa interessare gli studiosi di estetica, ma sono sintomi che la borghesia, estesa al mondo intero, doveva perdere i suoi aspetti weberiani, i suoi aspetti protestanti calvinisti, quelli kantiani, quelli illuministico francesi, oppure empiristico inglesi; l’unico collante è la naturalità del capitalismo, secondo Adam Smith.

 

FR: Rimango sullo stesso terreno ma le propongo uno scenario diverso. Non potrebbero rinascere entrambi i soggetti, certo profondamente trasformati, una volta che il processo di globalizzazione abbia superato la fase di spontanea e illimitata espansione seguita al crollo del comunismo novecentesco? In fondo la crisi strutturale di questi anni non dice anche questo? La dismisura non ha un limite in se stessa nel senso che oltre un certo grado finisce con l’auto distruggersi? Naturalmente dalle crisi non nasce necessariamente la consapevolezza e neppure un progetto alternativo, sto solo dicendo che anche la dismisura ha un limite e che l’ideologia della Merce globale è utopistica tanto quando lo erano certe illusioni rivoluzionarie.

CP: La domanda che ci si deve porre è questa: la crisi scoppiata nel 2008 rappresenta una crisi strutturale della globalizzazione oppure una crisi di un momento parossistico di essa? Pur non essendo un economista qualche idea ce l’ho. Questa crisi non inizia con la fine del comunismo novecentesco, ma dagli anni ’70 e inizio ’80 (Thatcher-Reagan per intenderci), con il passaggio da un modello keynesiano legato dunque al mercato interno e alla sovranità monetaria nazionale, a un capitalismo globalizzato multinazionale in cui gli stati perdono il controllo sulla sovranità monetaria, rendendo impossibili le politiche sociali. Gli ultimi venti anni io li vedo come una specie di orgia del capitale finanziario mondiale, liberato dalla presenza del comunismo novecentesco e dallo stato keynesiano. Questo ha portato a una finanziarizzazione dell’economia incredibile, il cui effetto principale è il lavoro flessibile e precario normale, la vera novità, perché non tocca più solo i vecchi artigiani, ma riguarda tutti; tutti sono esercito industriale di riserva. Naturalmente la corporazione universitaria non si è affatto occupata di questo, si è inventata la biopolitica, come se il problema non fosse il lavoro precario, ma il controllo poliziesco, alla Foucault. Si tratta di un pensiero alla fine del quale risulta che un maestro elementare e una guardia carceraria sono entrambi agenti della repressione: un altro tradimento dei chierici.

Quello che sta succedendo adesso, quando gli stati non riescono neppure a porre dei limiti ai bonus dei banchieri, è quasi incredibile, ma dimostra che la politica, in questa fase del capitalismo, ha perso ogni sovranità reale. Perciò questa crisi, per come la capisco io, è molto diversa dalla crisi del ’29, che produsse dei cambiamenti come il New Deal, anche se non bisogna dimenticare che la crisi fu superata solo con la Seconda Guerra mondiale e l’estensione dell’American way of life all’Europa. Il nuovo ciclo di sviluppo durò fino al ’73, l’anno in cui il potere d’acquisto dell’operaio specializzato statunitense cominciò a diminuire.

 



 

Creative Commons