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Intervista a Costanzo Preve PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
Intervista a Costanzo Preve
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Biografia di Costanzo Preve
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a cura di Franco Romanò

Nell’ampia intervista che pubblichiamo, s'insiste sui punti nevralgici della Trilogia: Storia dell’etica, Storia della dialettica e Storia del materialismo, scritti dal filosofo torinese e tutti pubblicati dall’editore Petite Plaisance. In essa Preve suggerisce alcune linee per un bilancio teorico del socialismo reale, da lui definito comunismo novecentesco. Prendendo spunto dalla critica di Lucáks al materialismo dialettico e dalla sua positiva intuizione dell’ontologia dell’essere sociale, Preve individua nella sovrapposizione fra dialettica logica e dialettica storica, uno dei motivi della sconfitta comunismo novecentesco, che l’autore vede fortemente inquinato da residui positivisti. In tale contesto Preve interpreta il marxismo come filosofia della prassi e non della natura, interpretazione avanzata per la prima volta da Gentile e fatta propria da Gramsci.

Da questa convinzione nasce la riflessione su Marx, da Preve considerato un filosofo idealista che ha prodotto una teoria strutturalista del modo di produzione capitalistico, servendosi della dialettica hegeliana e applicandola al nuovo oggetto sociale. Critico nei confronti di tutte le correnti di pensiero marxiste che tendono ad allentare il legame fra Marx ed Hegel e a negare l’importanza del concetto di alienazione, Preve considera Marx un pensatore tradizionale che risale alle radici greche della filosofia e reagisce alla mancanza di etica comunitaria del moderno capitalismo, così come il pensiero filosofico greco aveva reagito all’avanzare della società schiavista. Nella parte finale dell’intervista la riflessione filosofica s’intreccia a questioni riguardanti la crisi economica attuale, il venir meno della correlazione dialettica necessaria fra proletariato e borghesia e altri temi di più stretta attualità, come i nuovi soggetti sociali, l’area dei cosiddetti nuovi diritti e le aspettative suscitate dalla presidenza Obama.

Franco Romanò: Nel suo libro Storia dell’etica lei afferma che nessuna etica comunitaria è possibile nella fase attuale dello sviluppo capitalistico, ma solo comportamenti etici individuali basati sul buon senso e che non necessitano di alcuna problematizzazione filosofica; oppure sono possibili etiche settoriali. Perché?

Costanzo Preve: Come è noto in italiano esistono due parole: morale ed etica. Un tempo erano una parola sola: il greco ethos corrisponde al latino mos. La parola “morale” è la traduzione latina della parola greca che ha lo stesso contenuto: quello di etica comunitaria, cioè che mette in rapporto l’individuo con gli altri. Nel corso del tempo tale etica diventa sempre più incompatibile con la formazione di una società borghese capitalistica che invece si basa su un rapporto individualistico con la comunità. Già in Kant, la morale non è più etica, nel senso che si costruisce come imperativo categorico del singolo individuo, che addirittura sospetta di eteronomia (parola che per Kant ha un valore negativo) ogni morale che si relaziona con l’altro e non con se stesso. Nella teoria di Hume, il capitalismo si fonda sulle abitudini della natura umana allo scambio e quindi per lui la società capitalistica non ha alcun bisogno di fondazione religiosa, né politica (contratto sociale) e neppure del principio di causalità; tanto meno di fondazione filosofica, infatti egli critica la teoria dei diritti naturali della sua epoca. Per Hume il capitalismo si fonda su un separazione netta fra morale ed etica, in cui l’etica è interamente risucchiata nella morale. Su questo l’idealismo tedesco reagì e separò di nuovo etica e morale. Nel suo sistema Hegel chiama morale l’atteggiamento coscienziale del singolo e chiama etica un insieme di comportamenti accettati socialmente. Certo, l’etica comunitaria di Hegel è borghese: la famiglia patriarcale, le professioni, la società civile, lo stato prussiano. La sua impostazione però rimane ancora in Marx, che elimina l’aspetto borghese di Hegel, ma conserva l’aspetto fondamentale: il comunismo è una società che si basa su un’etica comunitaria e non più sulla morale individuale, anche se questa non sparisce.

FR: È il capitalismo in sé oppure è la sua versione finanziaria, quello che i greci definivano crematistica, cioè l’arte di fare soldi in qualsiasi modo, distinta dall’economia vera e propria che per loro era il perseguimento del bene comune?

CP: Il fatto che i greci, pur essendo all’interno di una società schiavistica (parlo di Aristotele in questo caso) avessero chiara la differenza fra economia e crematistica, è il segnale che essi avevano una chiara idea che l’individuo è pur sempre incorporato in una comunità. Questo fatto viene totalmente perduto con la modernità e cioè da Hobbes e Locke in poi. La Thatcher lo disse chiaramente che non esiste più società ma soltanto gli individui. Lei rivelò apertamente quello che era il segreto, da parecchio tempo, della società capitalistica. Essa può permettere soltanto delle etiche settoriali, cioè deontologiche professionali: l’etica dell’ingegnere, l’etica del chirurgo, dell’insegnante ecc. È chiaro che il buon ingegnere progetta case con sistemi antisismici laddove esiste un pericolo di terremoto.

 

FR: Ha fatto un esempio che mi fa pensare che anche le etiche deontologiche non se la passino bene in Italia.

CP: Certo, viene continuamente violata; ma comunque esiste una deontologia, non se ne può fare a meno. Esistono poi delle problematiche morali, come l’eutanasia, le staminali, l’accanimento terapeutico ecc. Tutto questo non lo nego, ma fondamentalmente il capitalismo, per la sua stessa riproduzione, non può permettersi una vera etica sociale comunitaria.


FR: L’etica comunitaria dei greci era basata sul metron, la misura rispetto allo smisurato. Chi può avere oggi l’autorevolezza e l’autorità di imporre una misura al capitalismo? Oppure quale speranza razionale possiamo coltivare che questo in futuro possa avvenire?

CP: Attualmente nessuno può avere questa autorità e autorevolezza e ciò naturalmente è un fatto molto negativo. Possiamo avere delle simpatie per dei movimenti, ma gli unici due momenti nel recente passato di auctoritas sono stati il comunismo sovietico e il maoismo cinese che hanno influenzato i gruppi della sinistra negli anni ’60 e ’70. Il postmoderno le ha spazzate via, sia nel loro aspetto deteriore di narrazioni teleologiche e messianiche, sia nel senso di coltivare una speranza razionale e questo è un fatto negativo. Il fatto che le grandi masse abbiano fiducia in una autorità (pensiamo anche a Cristo e a Buddha e non solo a dei leader politici) è un fatto positivo e non negativo, come invece pensano molti intellettuali. In quanto alla speranza ne distinguerei due tipi: quella cieca, della possibilità dell’inserzione messianica nella storia di un meteorite comunista (un po’ alla Benjamin) che cade sulla terra (che per me è anche un alibi ipocrita per giustificare la propria mancanza di prassi), e poi c’è la speranza aristotelico-marxiana e cioè che all’interno della vita che stiamo già vivendo si inseriscano degli elementi alternativi che si sviluppano dentro di essa: questa è la speranza razionale.

 



 

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