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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey - pag. 11 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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pag. 12 - Biografie . Commenti
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D. Quello che distingue il tuo lavoro da tutti gli altri del tuo campo, o quasi, è l’apprezzamento per la flessibilità, l’adattabilità e la fluidità dello sviluppo capitalistico all’interno del contesto del sistema inter-statale. Eppure nello schema della longue durée , quella dei 500, 150 e 50 anni che hai adottato nell’analisi collettiva della posizione  del sistema inter-statale dell’Estremo Oriente, emergono modelli straordinariamente chiari, quasi rigidi nella loro determinazione e nella loro semplicità(9). Come definiresti nel tuo pensiero la relazione tra contingenza e necessità?

 

R. Qui ci sono due questioni: una riguarda il mio apprezzamento della flessibilità dello sviluppo  capitalista e l’altra è il ricorrere di  certi modelli e fino a che punto questi siano determinati dalla contingenza o dalla necessità. Quanto alla prima, l’adattabilità del capitalismo, essa deriva dalla mia esperienza giovanile negli affari. All’inizio avevo provato a gestire l’azienda paterna, che era relativamente piccola; poi feci una tesi sull’azienda di mio nonno, che era una società medio-grande. In seguito litigai con mio nonno e andai a lavorare all’ Unilever, che a quel tempo era la seconda multinazionale al mondo per numero di dipendenti. Cosicché ho avuto la fortuna – dal punto di  vista  dell’analisi dell’azienda capitalistica  in generale – di lavorare in imprese sempre più grandi, il che mi ha aiutato a capire che non si può parlare di impresa capitalistica in termini generali, dato che le differenze tra quella di mio padre, quella di mio nonno e l’Unilever erano incredibili. Ad esempio, mio padre impiegava tutto il suo tempo visitando i clienti nelle zone di produzione tessile e studiando i problemi tecnici che essi avevano con le macchine. Poi tornava in fabbrica e ne discuteva con il suo ingegnere per personalizzare le macchine per ogni cliente. Quando tentai di gestire la sua impresa mi sentii perduto: il tutto si fondava sull’abilità e le conoscenze  che facevano parte dell’esperienza paterna. Io ero in grado di visitare i clienti, ma non sapevo risolvere i loro problemi – non riuscivo neppure a capirli.  Non avevo speranza.  Infatti da giovane dicevo a mio padre: “Se vengono i comunisti avrai problemi”, lui rispondeva: “No, non avrò problemi. Continuerò a fare quello che ho sempre fatto Loro hanno bisogno di gente  che fa queste cose.” Quando chiusi l’azienda di mio padre per andare da mio nonno  trovai un’organizzazione  ancora più fordista. Non studiavano i problemi dei clienti, producevano macchine standardizzate, che piacesse o no al cliente.  Gli ingegneri progettavano macchine  sulla base di quello che ritenevano sarebbe stato buono per il mercato e dicevano ai clienti:  questo è quanto abbiamo. Era una forma embrionale di produzione di  massa, con catene di montaggio di tipo embrionale. Quando andai all’Unilever  quasi non mi capitava di vedere  la produzione.  C’erano molte fabbriche: una faceva margarina, un’altra sapone, un’altra profumi. C’erano dozzine di prodotti diversi, ma il centro dell’attività non erano né la ricerca di mercato né la produzione, ma la finanza e la pubblicità.  Questo mi insegnò che è difficilissimo individuare una forma specifica  come “tipicamente” capitalistica. In seguito, studiando Braudel, mi resi conto che nella storia era possibile ritrovare l’idea della natura estremamente flessibile del capitalismo.

Uno dei maggiori problemi della sinistra , ma anche della destra, è di pensare che esista un’unica forma di capitalismo che storicamente si autoriproduce, mentre invece il capitalismo si è trasformato in modo sostanziale  - soprattutto su base globale –  con modalità inaspettate. Per molti secoli il capitalismo  ha utilizzato la schiavitù, e sembrava talmente vincolato alla schiavitù sotto tutti punti di vista che sembrava non poter farne a meno. Poi fu abolita la schiavitù e il capitalismo non solo sopravvisse ma prosperò più che mai, ricorrendo alla colonizzazione e all’imperialismo. A quel punto pareva che colonialismo  e imperialismo  fossero essenziali – ma poi, dopo la seconda guerra mondiale, il capitalismo  fece in modo di sbarazzarsene e sopravvisse più prospero. Nel corso della storia del mondo il capitalismo si è continuamente trasformato e questa è una delle sue caratteristiche principali: sarebbe davvero miope cercare di fissare una volta per tutte le caratteristiche del capitalismo senza prendere in considerazione queste trasformazioni cruciali.  Ciò che rimane costante in tutte queste mutazioni e definisce l’essenza del capitalismo è perfettamente espresso dalla formula di  Marx del capitale M-C-M, alla quale mi riferisco continuamente individuando l’alternanza di espansione materiale e finanziaria.  Osservando la Cina odierna  possiamo dire che forse si tratta di capitalismo o forse no – credo che la questione sia ancora aperta. Ma se lo consideriamo capitalismo, esso non è uguale a quello delle epoche precedenti, è totalmente trasformato. Il problema è identificarne  le specificità, in quale  modo  è diverso dal capitalismo precedente, sia che lo chiamiamo capitalismo o altro.

 

D. E la seconda parte della domanda – l’affermarsi  nel tuo lavoro di questi modelli distinti, di long durée e  le trasformazioni di  scala?

R. Va tenuto presente  che l’espansione materiale e finanziaria  nel suo continuo riproporsi  è legata  a una dimensione geografica molto chiara, ma questo è un aspetto che si nota se non si resta concentrati su di un paese particolare – perché in tal caso si vede il processo in modo del tutto diverso. Molti storici lo hanno fatto: si concentrano su di un paese in particolare e di lì tracciano le linee di sviluppo.  Invece in Braudel  l’idea è proprio quella  che l’accumulazione  di capitale procede per salti e se non si salta con lei  non si riesce a seguirla  da un territorio all’altro, non la si vede.  Se ti concentri sull’Inghilterra o sulla Francia  ti perdi i fatti più importanti dello sviluppo capitalistico in una prospettiva storica mondiale.  Ti devi spostare con lei per capire  che il processo di sviluppo capitalistico è sostanzialmente questo saltare da una condizione nella quale  ciò che  tu hai definito come “spatial fix” è divenuto troppo angusto e la competizione  si accentua dirigendosi verso un altro, entro il quale un nuovo “spatial fix “ con  scala e finalità  più ampie, permette al sistema di  godere di un  altro periodo di espansione materiale. E poi, naturalmente, a un certo punto il ciclo si ripete.

Quando ho formulato per la prima volta questa teoria, deducendola dai modelli di  Marx e Braudel, non avevo ancora avuto modo di  apprezzare fino in fondo il  concetto da lei elaborato di “spatial fix”  nel duplice significato di fissità mondiale del capitale investito e di  rimedio posto alle precedenti contraddizioni dell’accumulazione capitalistica.  Esiste una necessità intrinseca a questi modelli che  deriva dal processo di accumulazione, il quale  mobilita il denaro ed altre risorse  su scala crescente, che a sua volta crea problemi di accentuata concorrenza   e di sovra-accumulazione di vario tipo. Il processo di accumulazione capitalistica di capitale – contrapposta  ad accumulazione non capitalistica  di capitale – ha un effetto valanga  che provoca un’intensificarsi della competizione e riduce il tasso di profitto.  Così fanno coloro che si trovano nella posizione migliore  per trovare un nuovo “spatial fix” in un “contenitore “ogni volta più ampio. Dalle città-stato, che accumulavano grandi masse di capitale  in piccoli contenitori fino all’Olanda  del  Seicento, che era più di una città-stato, ma meno di uno stato-nazione, e poi alla Gran Bretagna del Settecento e dell’Ottocento, con il suo impero di vastità planetaria e infine agli Stati Uniti del  Novecento, su scala continentale.

Ora il processo non può procedere nello stesso senso mancando un contenitore più ampio in grado di sostituire gli Stati Uniti.  Vi sono grandi nazioni – di fatto ampi stati, uniti da una stessa civiltà, come la Cina e l’India, che non sono più estese degli USA in termini di spazio, ma hanno una popolazione cinque o sei volte superiore.  Cosicché ora stiamo creando un nuovo modello:  invece di andare da un contenitore a un altro più ampio in termini spaziali,  andiamo da un contenitore a bassa densità di popolazione a contenitori ad alta densità.  Per di più, prima ci si spostava, in termini di paesi,  da uno ricco a un altro ricco.  Adesso invece ci muoviamo da un paese ricchissimo  a paesi sostanzialmente poveri – il reddito pro-capite in Cina  è ancora un ventesimo di quello degli Stati Uniti.  Da un lato si dirà: ”Bene, l’egemonia, se è questo di cui stiamo parlando, si sposta dai ricchi ai poveri. “  Ma intanto questi paesi hanno al loro interno enormi differenze e diseguaglianze.  E’ tutto molto mescolato.  Si tratta di tendenze contraddittorie ed è necessario elaborare ulteriori  strumenti concettuali per comprenderle.

(9) Arrighi, Takeshi Hamashita and Mark Selden, eds, The Resurgence of East Asia: 500, 150 and 50 Year Perspectives, London 2003.



 

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