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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey - pag. 3 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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pag. 12 - Biografie . Commenti
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D. Torneremo  ancora sulla teoria delle crisi del capitale, ma prima volevo chiederti del tuo lavoro in Calabria. Nel 1973, proprio nel momento in cui  cominciava il riflusso del movimento, accettasti una cattedra  a Cosenza, vero?

R. Uno dei motivi del mio interesse per  l’Università di Calabria era quello di proseguire la mia ricerca sul reclutamento della forza lavoro in una nuova  sede. In Rhodesia  avevo avuto  modo di constatare come , nel momento in cui gli africani avevano raggiunto una completa proletarizzazione,  ovvero, per essere più precisi , quando se ne  erano resi conto,  avevano iniziato a lottare per ottenere un salario che permettesse loro di vivere nelle aree urbane. In altri termini,  la storia secondo cui “Siamo scapoli, le nostre famiglie continuano a vivere  in campagna  come contadini” non regge allorché effettivamente si deve vivere in città.  Era quanto dicevo in “Il reclutamento della mano d’opera in una prospettiva storica”.  Ciò  divenne ancora più chiaro in Italia poiché c’era un problema: negli anni ’50 e nei primo ’60 i migranti provenienti dal sud  si  trasferivano nelle regioni industriali del nord  e divenivano crumiri. Ma soprattutto alla fine degli anni ’60 essi  si trasformarono in avanguardie, il che è tipico dei migranti. Quando riuscii a costituire un gruppo di ricercatori  in Calabria feci loro leggere gli antropologi sociali che si erano occupati dell’Africa e in particolare di migranti, dopo di che analizzammo la mano d’opera di origine calabrese. Le domande erano: che cosa aveva creato le condizioni per quella migrazione? E quali erano i suoi limiti - posto che, a un certo punto, invece di creare una mano d’opera docile da usare per ridurre il potere contrattuale della classe operaia del nord, anche i migranti divenivano avanguardie di lotta?

Da quella ricerca emersero due cose. Primo, lo sviluppo capitalistico non incide necessariamente sulla completa proletarizzazione. D’altro canto, le migrazioni da luoghi lontani  non provenivano da territori dove aveva luogo una  vera spoliazione, dove ai migranti era persino possibile acquistare terreni dai  proprietari.  Ciò avveniva grazie al sistema di primogenitura, per il quale solo il figlio maggiore ereditava la terra. Per tradizione, i figli cadetti finivano negli ordini religiosi o nell’esercito, finché le migrazioni verso paesi lontani non offrì un’importante alternativa  per guadagnare il necessario per l’acquisto di terreni nel paese d’origine  e di avere delle imprese proprie. Del resto in zone di grande povertà, dove il lavoro era interamente proletarizzato, non potevano permettersi di emigrare. L’unico modo per farlo fu, per esempio, in Brasile quando fu abolita la schiavitù nel 1888 e vi era bisogno di sostituirla con mano d’opera a basso salario. Reclutarono lavoratori dalle aree più povere dell’Italia meridionale, pagarono loro il viaggio e li resero stanziali in Brasile per sostituire gli schiavi emancipati. Queste sono forme diverse di migrazione, ma generalmente non sono i più poveri ad emigrare, è necessario avere mezzi e agganci per farlo.

Il secondo risultato della ricerca calabrese aveva delle affinità con la ricerca condotta in Africa. Anche qui la disponibilità alla lotta di classe nei luoghi in cui  si erano trasferiti dipendeva dal fatto che considerassero la condizione in cui si trovavano una soluzione di vita permanente oppure no.

Non è sufficiente dire che è la situazione  del luogo di insediamento a determinare i salari e le condizioni di lavoro.  Si deve dire qual è il limite entro il quale i migranti percepiscono che il loro sostentamento  proviene  dal  lavoro salariato – questo è un punto focale da individuare e monitorare. Ciò che emergeva, tuttavia,  era  soprattutto una critica diversa dell’idea di proletarizzazione come processo tipico dello sviluppo capitalistico.


D. La prima stesura di quella ricerca ti fu rubata dall’auto a Roma,  perciò la versione finale dove si analizzavano i sistemi mondiali fu redatta  negli USA, molti anni dopo il tuo trasferimento a Birgham nel 1979,.  Era la prima volta che affrontavi apertamente il confronto con Wallerstein e Brenner sul rapporto tra proletarizzazione e sviluppo capitalistico?

R. Sì, anche se  non lo feci in modo sufficientemente esplicito, pur citando sia Wallerstein che Brenner en passant, ma il saggio è nel complesso una critica ad entrambi(4). Wallerstein sostiene la teoria secondo cui i rapporti di produzione  sono determinati da  come essi si pongono all’interno di una struttura centro-periferia. A suo parere nella periferia si tende ad avere rapporti di lavoro coercitivi, non si ha una proletarizzazione  completa, che invece si raggiunge  nel centro. Sotto certi punti di vista Brenner pensa il contrario, ma in alcuni casi le loro teorie sono simili: non sono i rapporti di lavoro a essere determinanti. All’interno della situazione periferica noi individuammo tre diversi percorsi che si sviluppavano contemporaneamente e che si rafforzavano a vicenda. La ricerca calabrese  dimostrò che ciò era falso. Entro la stessa situazione periferica individuammo tre percorsi diversi che si sviluppavano contemporaneamente rafforzandosi a vicenda. Per di più, i tre percorsi  mostravano notevoli  affinità con lo sviluppo  che storicamente  caratterizzava situazioni centrali di tipo diverso. Uno di essi è molto simile  al percorso leninista, il percorso Junker – il latifondo con una completa proletarizzazione; un altro assomigliava al percorso “americano” di Lenin, quello delle fattorie medie e piccole  fortemente inserite nel mercato. Lenin non ha un terzo percorso, quello che noi chiamiamo “svizzero”: migrazioni verso paesi lontani e successivamente investimento e  acquisizione di proprietà nella terra d’origine.  In Svizzera non vi è spoliazione dei contadini , vi è bensì una tradizione migratoria che ha portato al consolidarsi di piccole proprietà terriere. Per  quanto riguarda la Calabria è interessante notare che i tre percorsi, che altrove si collocano in una posizione centrale,  si trovano invece alla periferia – il che costituisce una critica sia del processo unico di  proletarizzazione  di Brenner che del  rimandare i rapporti di produzione  alla posizione geografica, come teorizzato da Wallerstein .

D. La tua Geometria dell’imperialismo uscì nel 1978, prima che tu venissi qui da noi. Nel rileggerlo mi ha colpito la metafora di tipo matematico - la geometria – a cui fai ricorso per spiegare  la teoria imperialista di Hobson - che risulta utilissima. Ma al suo interno c’è una questione geografica molto utile: mettendo insieme Hobson e il capitalismo, all’improvviso  tu fai emerge la categoria dell’egemonia  come spostamento dalla geometria alla geografia. Qual è stato lo stimolo iniziale che ti ha indotto a scrivere Geometria e quale  importanza  ha per te?

R. A quel tempo  mi infastidiva la confusione terminologica sul termine “imperialismo”. Il mio intento era di dissipare  un po’ di quella confusione creando uno spazio topologico in cui si potessero distinguere l’uno dall’altro i differenti concetti riferiti all’”imperialismo su cui spesso sorgeva confusione. Ma come esercizio sull’imperialismo, sì, per quanto mi riguarda funzionò anche come transizione verso la categoria di egemonia. Lo dissi esplicitamente nella postfazione alla seconda edizione, quella  del 1983, dove asserivo che la categoria gramsciana di egemonia poteva essere più utile che quella di “imperialismo” nell’analisi delle dinamiche contemporanee tra gli stati. Da questo punto di vista ciò che io ed altri facemmo fu semplicemente quello di riapplicare la categoria gramsciana di egemonia nelle relazioni tra gli stati., dove prima di Gramsci era stata applicata a un’analisi di rapporti di classe all’interno della giurisdizione politica nazionale.  Così facendo, ovviamente, Gramsci arricchiva sotto molti aspetti il concetto che in precedenza non risultava del tutto comprensibile.  L’averlo riportato nella sfera internazionale  ne arricchì moltissimo il senso.

(4)v. Arrighi e Fortunata Piselli, “Capitalist Development in Hostile Environments: Feuds, Class Struggles and Migrations in a Peripheral Region of Southern Italy”, Review, (Fernand Braudel Center), vol.x, no. 4, 1987.



 

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