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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey - pag. 6 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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pag. 12 - Biografie . Commenti
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D. Nel 1991 nel tuo articolo, “Le diseguaglianze di reddito a livello globale  e il futuro del socialismo”, dimostri la straordinaria stabilità della gerarchia della ricchezza  regionale durante il XX secolo.  L’entità del divario nel reddito pro capite all’interno del Nord-Ovest e nella semi-periferia del Sud oppure nella periferia del  Sud-Est del mondo è rimasto inalterato, anzi, si è accentuato dopo un mezzo secolo di sviluppo(8). Il comunismo, come tu dici, non era riuscito a eliminare il divario in Russia, nell’Europa dell’Est e in Cina, pur non avendo operato peggio del capitalismo in America Latina, nell’Asia Sudorientale  o in Africa e sotto altri punti di vista  - una distribuzione più equa del reddito all’interno della società e una maggiore indipendenza dello stato dal centro Nordoccidentale – aveva operato decisamente meglio. Dopo una ventina d’anni, naturalmente, la Cina ha rotto lo schema che tu descrivevi a quel tempo. Fino a che punto ciò ti ha stupito?

R. Innanzi tutto  non si deve esagerare l’importanza della rottura dello schema da parte della Cina.  Il livello di  reddito pro capite in Cina era così basso – e lo è tuttora se confrontato con quello dei paesi ricchi – che  persino i progressi più rilevanti vanno visti con riserva. La Cina ha raddoppiato la sua posizione nei confronti dei paesi più ricchi, ma ciò significa solo uno spostamento dal 2% del reddito pro capite dei paesi ricchi al 4%. E’ vero che la Cina è stata determinante nel provocare una  riduzione della sperequazione del reddito tra i vari paesi. Se si esclude la Cina, la situazione del Sud è peggiorata a partire dagli anni ’80;  se la si tiene in considerazione, allora il Sud è un po’ migliorato, proprio grazie al progresso della Cina. Ma naturalmente vi è stata anche una notevole crescita delle diseguaglianze all’interno della Repubblica  Popolare, quindi la Cina negli ultimi decenni ha contribuito a una crescita a livello   mondiale delle diseguaglianze all’interno degli stati. Unendo le due misure – la diseguaglianza  tra e all’interno degli stati -  a livello statistico  la Cina ha provocato una riduzione  della diseguaglianza  su scala globale. Ma non si deve esagerare con questo tema – la situazione mondiale è ancora piena di enormi lacune che vengono ridotte con  piccoli interventi.  E’ comunque importante, poiché cambia i rapporti di potere  tra gli stati. Continuando così, potrebbe persino arrivare a cambiare la distribuzione globale del reddito, che è ancora molto polarizzata,  rendendola più normale, come la intendeva Pareto.

Se questo mi ha stupito? In un certo senso sì. Infatti questa è la ragione per cui negli ultimi quindici anni  ho deviato i miei interessi verso lo studio dell’Estremo Oriente,  avendo realizzato che - se si esclude il Giappone, naturalmente – pur essendo  l’Estremo Oriente  parte del Sud, esso  presentava delle caratteristiche  proprie che lo mettevano in condizione di  dar vita a una sorta di sviluppo che non rientrava  del tutto in quello schema di stabile diseguaglianza  tra le varie regioni. Contemporaneamente nessuno ha mai dichiarato – io no di certo – che la stabilità della distribuzione del reddito a livello globale  significava anche immobilità per certi stati o certe regioni. Una struttura abbastanza stabile di diseguaglianze  può permanere, con alcuni paesi che vanno su e altri che scendono. Fino ad ora, entro certi limiti,  le cose sono andate così. In particolare dagli anni ’80 e ’90 lo sviluppo più importante  è stata la biforcazione  che ha visto  un Estremo Oriente molto dinamico e tendente verso l’alto e l’Africa che andava precipitando in basso, in particolare l’Africa meridionale – ancora una volta “l’Africa delle riserve di forza - lavoro” .  E’ proprio questa biforcazione a interessarmi più di ogni altra cosa: per quale ragione l’Estremo Oriente e l’Africa si sono mosse a tal punto in direzioni opposte. E’ un fenomeno molto  importante da capire, poiché aiuterebbe anche a cambiare l’idea  che abbiamo del consolidamento del fortunato  sviluppo capitalistico chiarendo fino a che punto esso si sia basato oppure no sull’espropriazione - la completa proletarizzazione dei contadini – come si è visto nell’Africa meridionale, oppure sulla parziale  proletarizzazione  verificatasi in Estremo Oriente.  Perciò la divergenza tra queste due regioni  pone una importante questione di natura teorica  che ancora una volta mette in crisi l’identificazione fatta da Brenner dello sviluppo capitalistico con la completa proletarizzazione della forza-lavoro.

 

D. Ancora prima, nel 1999, in Caos e governo del mondo sostenevi che l’’ascesa dell’Estremo Oriente  e in modo particolare della Cina avrebbe provocato il declino dell’egemonia americana. Contemporaneamente avanzavi l’ipotesi  che in futuro sarebbe stata questa la regione che avrebbe sfidato più  duramente il capitale a livello  mondiale. E’ stato anche osservato che c’è una tensione tra queste ipotesi – l’ascesa della Cina come potenza rivale degli Stati Uniti e il  crescente disagio della classe lavoratrice in Cina.  Quale relazione vedi tra le due?

R. La relazione è strettissima, poiché, prima di tutto, diversamente da quanto molti pensano, i contadini e gli operai cinesi  hanno una millenaria tradizione  rivendicativa che non trova  paragoni  in nessuna altra parte del mondo.  In  effetti molte transizioni dinastiche furono accompagnate da ribellioni, da scioperi e da manifestazioni – non solo di lavoratori e di contadini, ma anche di commercianti. Una tradizione che permane ancora oggi. Quando Hu Jintao, alcuni anni fa, disse a Bush: “Non si preoccupi della Cina , non sfideremo il dominio degli Stati Uniti. Abbiamo troppe preoccupazioni  al nostro interno”,  alludeva a una delle principali caratteristiche della storia cinese: come contrastare la concomitanza di ribellioni interne  delle classi subalterne e di invasioni esterne, fino al XIX secolo, da parte dei cosiddetti barbari provenienti dalle steppe, e successivamente, a partire dalle guerre dell’oppio, da parte di quelli che venivano dal mare. Questi sono sempre stati problemi schiaccianti per i governi cinesi ed hanno sempre posto limiti molto  stretti al ruolo della Cina nelle relazioni internazionali. L’impero cinese nel tardo XVII secolo e nel XVIII secolo era sostanzialmente una specie di prospero stato pre-moderno. Tali caratteristiche furono riprodotte nella successiva rivoluzione. Negli anni  ’90  Jiang Zemin  ha  manifestato tutta la sua propensione al capitalismo. I tentativi attuali di tornare al passato si collocano nel contesto di questa tradizione molto più lunga. Se le ribellioni delle classi subalterne  cinesi  porteranno a un  nuovo assetto sociale,  questo inciderà sul modello delle relazioni internazionali nei prossimi venti o trenta anni. Ma l’equilibrio di forze tra le classi  in Cina  attualmente è ancora precario.

C’è una contraddizione tra il fatto di essere il principale centro di instabilità sociale ed essere una potenza emergente? Non necessariamente – negli anni ’30 gli Stati Uniti erano all’avanguardia nelle lotte dei lavoratori mentre  cresceva la loro egemonia. Che queste lotte avessero successo  nel pieno della Grande depressione  fu  un fattore che contribuì a rendere gli USA  egemoni sotto l’aspetto sociale per la classe lavoratrice. Ciò vale anche per l’Italia, dove l’esperienza americana divenne un modello per alcuni sindacati di ispirazione cattolica.

(8) Arrighi, “World Income Inequalities and the Future of Socialism”, nlr 1/189, Sept-Oct 1991.



 

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