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D. Recenti rapporti dalla Cina parlano di un grave disagio causato dall’alto tasso di disoccupazione che potrebbe condurre a una recessione mondiale e di un programma di misure per contrastarla. Ne potrebbe conseguire un modello di sviluppo secondo linee che, alla fine, costituirebbero una sfida per il capitalismo globale?
R. Il problema è se le misure prese dalle autorità cinesi in risposta alle lotte di gruppi di lavoratori dipendenti possano funzionare altrove dove non si danno le stesse condizioni. Che la Cina possa diventare un modello per altri stati - in particolare altri grandi stati del Sud, quali l’India – dipende da un sacco di specificità storiche e geografiche che forse sono improponibili altrove. I cinesi lo sanno e al momento non si pongono come modello da imitare. Quindi quanto avviene in Cina sarà fondamentale per i rapporti tra la Repubblica popolare cinese e il resto del mondo, ma non come modello per gli altri. E tuttavia da quelle parti vi è una interpenetrazione delle lotte di operai e contadini contro lo sfruttamento, ma anche delle tematiche ambientali riguardanti una devastazione ecologica tale che è difficile da riscontrare altrove. In questo momento le lotte stanno crescendo e sarà importante vedere la risposta del governo. Penso che il cambiamento di leadership da Hu Jintao a Wen Jabao sia come minimo dovuta a un certo nervosismo, conseguente all’abbandono di una lunga tradizione di benessere. Dobbiamo tenere d’occhio la situazione e stare attenti ai possibili esiti.
D. Tornando al problema delle crisi del capitalismo, il tuo saggio del 1972, Verso una teoria delle crisi del capitalismo presenta un confronto tra la lunga recessione del periodo 1873-96 e le previsioni, rivelatesi esatte, di un’altra crisi dello stesso tipo che storicamente ha avuto inizio nel 1973. Da allora sei tornato più volte su questo confronto, mettendo in evidenza le affinità, ma anche le importanti differenze tra le due. Però hai scritto meno della crisi iniziata nel 1929. Ritieni che la Grande depressione continui ad essere meno importante?
R. No, non meno importante, essendo stata la crisi più grave mai vissuta dal capitalismo; di certo fu un momento di svolta. Però educò anche le future potenze a fare in modo che l’esperienza non si ripetesse. Esistono svariati strumenti più o meno riconoscibili per prevenire un tracollo di quella portata. Ancora oggi, benché il crollo della borsa venga paragonato a quello degli anni ’30, io penso – ma potrei sbagliarmi - che sia gli organismi monetari che i governi che sono veramente coinvolti stiano facendo tutto il possibile onde evitare il crollo dei mercati finanziari con effetti simili a quelli degli anni ’30. In breve, non se lo possono politicamente permettere e quindi se la cavano alla meno peggio e fanno quello che possono. Persino Bush – e Reagan prima di lui – con tutta la sua ideologia del libero mercato, si è basato su di un governo del deficit di tipo Keynesiano. Una cosa è l’ideologia, altro è quello che fanno, dato che reagiscono a situazioni politiche che non possono permettersi di peggiorare più di tanto. Gli aspetti finanziari possono assomigliare a quelli del ’30, ma c’è maggiore consapevolezza ed esistono limiti più stretti per i governi perché non ne venga influenzata la cosiddetta economia reale come negli anni ’30. Non sto dicendo che la Grande depressione è stata meno importante, ma sono convinto che non si ripeterà in un futuro prossimo. La situazione dell’economia mondiale è radicalmente diversa. Negli anni ’30 era molto segmentata il che potrebbe aver creato le condizioni per il tracollo. Adesso è molto più integrata.
D. In Verso una teoria delle crisi del capitalismo descrivi un profondo conflitto strutturale all’interno del capitalismo, nel quale distingui tra crisi provocate da un livello di sfruttamento troppo alto, che hanno portato a una crisi di realizzazione per una domanda non sufficientemente efficace e quelle provocate da un tasso di sfruttamento troppo basso, che corrode la domanda dei mezzi di produzione. Fai ancora questa distinzione e se sì potresti dire che ci troviamo in una crisi di realizzazione sommersa, camuffata da un indebitamento personale e da una finanziarizzazione crescente a causa dal contenimento dei salari che ha contraddistinto il capitalismo negli ultimi trent’anni?
R. Sì, credo che nel corso degli ultimi trent’anni ci sia stato un cambiamento nella natura delle crisi. Fino ai primi anni ’80 erano caratterizzate dalla diminuzione del tasso di profitto causata dalla concorrenza crescente tra le agenzie capitaliste e dal fatto che i lavoratori erano più attrezzati a difendersi di quanto non lo fossero stati durante la Grande depressione – sia alla fine del secolo XIX che negli anni ’30. Questa era la situazione negli anni ’70. La controrivoluzione monetaria di Reagan e della Thatcher in effetti mirava a corrodere quel potere, quella capacità delle classi lavoratrici di auto-proteggersi – non era l’unico obiettivo, ma era uno dei più importanti. Credo che tu ti riferisca a qualche consigliere della Thatcher dicendo che quello che hanno fatto era …
D. … la creazione di un esercito industriale di riserva; esattamente …
R. … ciò che Marx dice che dovrebbero fare! Questo cambiò la natura della crisi. Negli anni ’80 e ’90 e adesso, nel 2000, stiamo assistendo a una vera e propria crisi di sovrapproduzione, con tutte le sue caratteristiche tipiche.. I redditi sono stati ridistribuiti a favore di gruppi e classi che hanno grande liquidità e tendenze speculative ; in tal modo i redditi non tornano in circolazione sotto forma di domanda effettiva, ma si danno alla speculazione creando bolle che regolarmente scoppiano. Perciò, sì, da crisi conseguente alla caduta del tasso di profitto per l’aumento di concorrenza all’interno del capitale, si è trasformata in crisi di sovrapproduzione dovuta alla scarsità sistemica di domanda effettiva, creata dalle tendenze dello sviluppo capitalistico.
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