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I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
Indice
I tortuosi sentieri del capitale. Intervista a Giovanni Arrighi di David Harvey
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da New Left Review 56, marzo-aprile 2009

Traduzione di Laura Cantelmo

D. Parlaci  delle tue origini familiari e della tua formazione culturale.

R. Sono nato a Milano nel 1937. Per parte di madre la mia famiglia era di origini borghesi. Mio nonno, figlio di svizzeri emigrati in Italia, era partito da un livello di aristocrazia operaia fino a diventare lui stesso industriale nei primi anni del XX secolo. Produceva macchine per il settore tessile e in seguito  apparecchiature per il riscaldamento e condizionatori. Mio padre era toscano, figlio di un ferroviere. Era venuto a Milano e aveva  trovato lavoro nella fabbrica del mio nonno materno, finendo poi per sposare la figlia del proprietario. In seguito vi furono tensioni che portarono mio padre a fondare una propria impresa in concorrenza con quella del suocero. Comunque erano entrambi antifascisti il che ebbe grande influenza sulla mia prima  infanzia che fu dominata dalla guerra, dall’occupazione nazista dell’Italia settentrionale dopo la resa di Roma nel 1943, la Resistenza e l’arrivo degli Alleati.

Mio padre morì in un incidente  d’auto quando avevo 18 anni. Decisi allora di portare avanti la sua azienda, benché mio nonno mi consigliasse il contrario, così entrai all’Università Bocconi come studente di economia nella speranza che ciò mi aiutasse a capire come gestire la fabbrica. La Facoltà di Economia era un caposaldo di indirizzo neo-classico, neppure minimamente sfiorato dalla teoria keynesiana e non mi fu di nessun aiuto nella gestione dell’impresa paterna. Alla fine mi resi conto che non era il caso di proseguire. Trascorsi due anni in una delle fabbriche di mio nonno raccogliendo dati sul processo di produzione. Quello studio mi convinse che l’elegante equilibrio generale dei modelli neo-classici non serviva affatto per capire  il meccanismo di produzione e distribuzione del profitto. Questo fu l’argomento della mia tesi di laurea. Mi fu poi assegnato un incarico come assistente volontario, cioè non pagato, che allora in Italia era il primo gradino della carriera universitaria. Per vivere trovai un impiego alla Unilever come apprendista manager.Giovanni Arrighi

 

D. Perché  nel 1963 ti recasti in Africa a lavorare presso  lo University College di Rhodesia e Nyasaland?

R. La ragione è semplice. Venni a sapere che le università britanniche pagavano chi insegnava e faceva ricerca, contrariamente a quanto avveniva in Italia, dove l’assistente volontario doveva lavorare senza stipendio per quattro o cinque anni prima di poter sperare in una retribuzione. All’inizio degli anni sessanta gli inglesi fondavano sedi universitarie in tutti i territori dell’ex-impero come sedi staccate delle università della madrepatria. L’UCRN  dipendeva dall’Università di Londra. Avevo fatto domanda per due sedi, una in Rhodesia e l’altra a Singapore. Mi chiamarono a Londra per un colloquio e mi offrirono una cattedra di Economia e io accettai.

Fu una vera rinascita intellettuale. La tradizione neoclassica basata su modelli matematici  a cui ero abituato non serviva a interpretare i processi che trovavo in Rhodesia o la realtà della vita africana. All’UCRN lavoravo a fianco di antropologi sociali, come Clyde Mitchell che stava già lavorando su network analysys e Jaap VanVelsen, che stava introducendo l’analisi situazionale, in seguito ridefinita come analisi dei casi affrontati. Seguivo regolarmente i seminari di entrambi e ne fui fortemente influenzato. Abbandonai gradualmente i modelli astratti per  l’antropologia sociale  che si basava su teorie di carattere empirico e storico. Cominciò così la mia lunga marcia dall’economia neoclassica verso la sociologia storico-comparativa.

 

D. Questo era il contesto a cui si ispirava il tuo saggio del 1966, “La politica economica della Rhodesia”, che analizzava le modalità di sviluppo della classe capitalistica in quel territorio e delle sue specifiche contraddizioni, spiegando le dinamiche che avevano portato alla vittoria del Partito del Fronte Rhodesiano  degli ex-coloni  nel 1962 e alla Dichiarazione di indipendenza unilaterale di Smith nel 1965. Quale fu lo stimolo da cui nacque quel saggio, quanto fu importante per te, considerandolo oggi?

R. Quel saggio fu scritto grazie ai consigli di Van Velsen, che era estremamente critico sui miei modelli matematici. Avevo recensito il libro di Colin Ley, European Politics in Southern Rhodesia, e Van Velsen mi consigliò di ampliarla fino a farne un articolo, nel quale, oltre che in “Il reclutamento della mano d’opera  in una prospettiva storica” analizzavo le modalità in cui la completa proletarizzazione dei contadini rodesiani avesse creato delle contraddizioni all’accumulazione capitalistica, finendo per creare più problemi che vantaggi nel settore capitalistico(1). Fintanto che la proletarizzazione era stata parziale  aveva creato le condizioni per la sussidiarizzazione dell’accumulazione capitalistica, poiché essi stessi  producevano parte dei loro mezzi di sussistenza, ma quanto più i contadini diventavano proletari, tanto più il meccanismo cominciava a non funzionare. I lavoratori  totalmente proletarizzati potevano essere sfruttati solo se ricevevano un salario che consentisse loro di vivere . Cosicché, invece di  facilitare lo sfruttamento  la proletarizzazione lo rendeva più difficile  da attuare e spesso richiedeva che il regime divenisse più repressivo. Martin Legasssick e Harold Wolpe, ad esempio, sostenevano che  in Sud Africa l’apartheid fosse dovuta principalmente alla necessità di una maggiore repressione della forza lavoro, poiché essa aveva subito un processo di completa proletarizzazione e non  poteva più sussidiarizzare l’accumulazione di capitale come era avvenuto in precedenza. L’intera regione sudafricana  che andava dal Sud Africa al Botswana, passando per l’ex Rhodesia, il Mozambico, il Malawi che a quel tempo si chiamava Nyasland, su fino al Kenia, come la zona nord orientale era caratterizzata da giacimenti minerari, da un’agricoltura stanziale e da una estrema povertà dei contadini. E’ molto diversa  dal resto dell’Africa, compreso il nord. L’economia dei paesi dell’Africa occidentale era sostanzialmente agricola. Ma la regione meridionale – quella che Samir Amin ha chiamato  “ l’Africa delle riserve di lavoro” - sotto molti aspetti rappresentava un paradigma di estrema spoliazione  dei contadini, quindi di proletarizzazione. Molti di noi sostenevano che tale processo di espropriazione estrema era contraddittorio. All’inizio aveva creato le condizioni di una sussidiarizzazione da parte dei contadini, dell’agricoltura capitalista, dello sfruttamento minerario, della produzione manifatturiera e così via. Ma aveva provocato sempre maggiori difficoltà per lo sfruttamento, lo spostamento e il controllo di quel proletariato che si veniva creando. Il lavoro a  cui allora ci dedicavamo – il mio “Il reclutamento della mano d’opera in una prospettiva storica”(2) e i lavori ad esso correlati di Legassick e Wolpe – portò alla definizione di  quello che venne chiamato il “Paradigma dell’Africa meridionale” sui limiti della proletarizzazione e dell’espropriazione.

Diversamente da coloro che tuttora identificano lo sviluppo capitalistico con la proletarizzazione tout court, come Robert Brenner, ad esempio – l’esperienza dell’Africa meridionale dimostrava come la proletarizzazione di per sé  non favorisca lo sviluppo capitalistico – ben altre condizioni sono necessarie.  Quanto alla Rhodesia, io individuai tre fasi nel processo di proletarizzazione, una sola delle quali favoriva l’accumulazione  capitalistica. In una prima fase i contadini avevano reagito allo sviluppo capitalistico delle campagne fornendo prodotti  agricoli e avrebbero fornito forza lavoro solo in cambio di alti salari. La zona fu allora caratterizzata da scarsità di mano d’opera dato che con il diffondersi dell’agricoltura capitalistica o dello sfruttamento minerario si creava una domanda di prodotti locali che i lavoratori africani furono rapidamente in grado di soddisfare; essi partecipavano all’economia monetaria  vendendo prodotti invece che mano d’opera. Uno degli scopi dell’aiuto statale all’agricoltura dei coloni era quello di creare la concorrenza per  i contadini africani per far sì che fossero costretti a fornire mano d’opera invece che prodotti. Ciò condusse  a un lungo processo che andò da una proletarizzazione parziale a una completa, il che, come ho già detto, rappresentava tuttavia un processo contraddittorio. Il problema  della semplice “proletarizzazione come modello di sviluppo capitalistico” sta nel  fatto che essa ignora non solamente le realtà capitalistica dei coloni dell’area sudafricana, ma anche quella di molti altri, come gli USA stessi, dove il modello fu del tutto diverso – una combinazione di schiavitù, di genocidio dei nativi e di immigrazione di mano d’opera dall’Europa.

(1) Si veda  rispettivamente: Arrighi, “The Political Economy of Rhodesia”, nlr 1/39, Sept.-Oct.1966; Leys, European Politics in Southern Rhodesia, Oxford 1959; Arrighi, “Labour Supplies in Historical Perspective: A Study of the Proletarianization of the African Peasantry in Rhodesia”, collected in Arrighi and John Saul, Essays on the Political Economy of  Africa, New York 1973.

(2) Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Milano 1972-3.



 

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