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Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
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Relazioni industriali e conflitti di lavoro nel Sud-Est asiatico
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di Aldo Marchetti

In un recente libro sulla globalizzazione Luciano Gallino(1) sottolinea l’importanza di un fenomeno che sta avvenendo sotto i nostri occhi e al quale si presta assai poca attenzione: la recente formazione di una nuova classe operaia le cui proporzioni sono ormai incommensurabili a quella dell’Europa e del Nord America nel periodo della prima industrializzazione. A metà Ottocento, quando Marx scriveva "Il Capitale", i lavoratori dell’industria, secondo alcune valutazioni, ammontavano a qualche decina di milioni. Negli ultimi decenni, se comprendiamo i paesi dell’Asia, dell’America Latina, dell’Est Europeo, si stima che abbiano raggiunto un numero dieci o quindici volte maggiore. E’ bene precisare che mai come in questo caso l’espressione "classe operaia" va usata con la massima cautela e solo a patto di ricordare che ci troviamo in un immenso campo di differenze di lingua, cultura, religione, ideologia, morale, nazione, genere e storia antica e recente. E’ tuttavia ragionevole affermare che si è aperto negli ultimi decenni un nuovo capitolo di storia e che in uno sterminato perimetro si stanno sperimentando inediti e imprevedibili processi so ciali.

Il problema posto da Gallino è del resto presente da tempo nella riflessione degli studiosi di Storia. In un dibattito aperto alcuni anni or sono dalla rivista "International Labor and Working Class History"(2), nel quale sono intervenuti tra gli altri Tilly, Wallerstein, Zolberg, Hobsbawm e Benaria, sono stati posti due quesiti legati tra loro: 1) Dato che sino a oggi l’esercizio dei diritti conquistati dal mondo del lavoro nei paesi occidentali ha richiesto la presenza dell’autorità riconosciuta dello stato-nazione, e visto che nel processo di globalizzazione la sovranità degli stati democratici viene messa in discussione, non esiste forse la possibilità che questi stessi diritti si allentino e vengano progressivamente meno?; 2) Nella storia dei paesi di vecchia industrializzazione la formazione delle moderne democrazie partecipative è stata fortemente influenzata dalla presenza di una classe operaia che, assieme alle rivendicazioni legate al lavoro, ha saputo mobilitarsi per obiettivi generali come l’innalzamento della scolarità, l’allargamento del diritto di voto, i diritti di cittadinanza legati al welfare, la parità uomo donna. La nuova classe operaia globale è destinata a seguire la stessa traiettoria o aprirà diversi e ancora sconosciuti sentieri? Come spesso avviene nelle dispute accademiche anche in questa gli studiosi si sono divisi tra ottimisti e pessimisti. Alcuni, come Tilly e Wallerstein, hanno evocato scenari particolarmente oscuri (perdita del senso del diritto, contrapposizione a livello globale tra una classe operaia bianca, garantita e omologata ai valori della media borghesia e un vasto proletariato di colore con conseguente combinazione di lotta di classe e conflitto etnico). Altri come Benaria e Hobsbawm, hanno lasciato acceso un lume di speranza (le lotte sociali non si sono ancora del tutto spente nelle vecchie metropoli e molti, anche nei paesi del nuovo mondo, stanno imparando a brandire l’arma dello sciopero con la possibilità quindi che in futuro si possa saldare un’alleanza tra vecchia e nuova classe lavoratrice a livello globale).

Di questo dibattito più che le risposte sembrano utili, per ora, le domande, che rappresentano un’essenziale intelaiatura per ogni ricerca in questo campo. Dal tempo in cui sono state formulate si sono andati accumulando dati, informazioni, pubblicazioni e testimonianze le quali richiedono ormai uno sforzo d’interpretazione che puòessere svolto solo da una rete sempre più vasta di soggetti interessati o coinvolti direttamente. In questa sede poniamo alcuni problemi su tre paesi del Sud-Est asiatico: Cina, Indonesia, Tailandia. Si tratta, come si vedrà, di considerazioni ancora schematiche con cui si vuole solo avviare una discussione che potrà essere ampliata nei prossimi numeri di OverLeft, cercando di catturare l’interesse di studiosi, analisti o semplici curiosi. Il primo aspetto della questione è quello delle culture politiche e ideologiche che influenzano le organizzazioni dei lavoratori e la loro azione collettiva. In un secondo passaggio ci soffermeremo sull’attività negoziale e sui conflitti accesi di recente nei paesi a cui abbiamo accennato.

In Cina, come è noto, le grandi riforme orientate all’economia di mercato sono state avviate nei primi anni Ottanta da Deng-Xiaoping dopo che l’ala maoista del partito comunista cinese era stata emarginata e ridotta al silenzio. E’ solo nel 14° congresso del partito tenuto nel 1992, tuttavia, che viene adottata la definizione di "economia socialista di mercato" come quadro concettuale di riferimento per l’iniziativa del partito e del sindacato. In questa cornice viene riconfermata la stretta dipendenza della ACFTU (All China Federation of Trade Unions, unico sindacato riconosciuto ufficialmente) dal partito guida. Benchè nominalmente autonomo, il sindacato (che con i suoi 134 milioni di iscritti è senz’ombra di dubbio la maggiore organizzazione sindacale al mondo) ha infatti compiti circoscritti e del tutto marginali che sono stati fissati dal Trade Unions Act del 1992. I dirigenti sindacali sia a livello centrale che periferico vengono nominati dal partito e ogni livello organizzativo inferiore (il sindacato cinese è articolato, come le nostre confederazioni, su piano territoriale o orizzontale e, allo stesso tempo, di categoria o verticale) dipende da quello superiore. A livello di stabilimento è il comitato di partito che nomina i rappresentanti sindacali ed è sempre il comitato che presenta davanti al management le lamentele e le richieste dei lavoratori anche se spetta al sindacato svolgere opera di mediazione tra le parti. In questo contesto i compiti riservati al sindacato sono quelli tipici dei regimi socialisti che spesso sono stati racchiusi nell’immagine della "cinghia di trasmissione": diffondere tra i lavoratori i valori sociali e politici, disseminare la linea del partito, stimolare la produzione, spingere al raggiungimento degli obiettivi previsti dai piani di produzione nelle imprese statali, incoraggiare una stretta disciplina di fabbrica, promuovere comportamenti corretti e una salda moralità. "Dobbiamo proteggere il partito comunista e la produzione delle imprese perchè il fiume non ha acqua se gli affluenti sono in secca": questa affermazione, tratta da un discorso del segretario nazionale del sindacato (che curiosamente fa riferimento all’antichissima civiltà fluviale cinese), esprime in una buona sintesi l’obiettivo del sindacato: appoggiare il partito guida e allo stesso tempo, quasi le due cose non fossero distinguibili, lo sviluppo economico del paese. A livello provinciale e aziendale tuttavia il sindacato svolge tutta una serie di compiti di servizio che sono di essenziale importanza: gestione degli assegni di invalidità, assistenza ai lavoratori infortunati, facilitazioni nell’acquisto dei generi alimentari, asili nido, scuole e corsi professionali. Nelle imprese di stato inoltre i rappresentanti sindacali partecipano alla discussione del budget annuale e dei piani di produzione proponendo soluzioni in uno spirito di collaborazione da cui è esclusa la contrattazione nel senso che noi attribuiamo a questo termine. Nelle multinazionali straniere questo modello di embrionale concertazione viene ovviamente a mancare mentre è spesso lasciato qualche spiraglio alla negoziazione di tipo occidentale. Benchè i compiti del sindacato siano quindi parzialmente diversi a seconda del tipo di proprietà dell’impresa, e malgrado la ACFTU abbia dichiarato, negli ultimi comgressi del 2002 e 2005, di volersi rendere autonoma dal partito per svolgere solo un ruolo di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, di fatto in Cina il sindacato è tuttora saldamente ancorato al vecchio modello che possiamo definire una sintesi di solidarietà nazionale e filosofia produttivistica.


Anche l’Indonesia, come la Cina e altri paesi asiatici, ha come riferimento una cultura politica basata sull’idea di nazione, che si è andata formando attraverso le lotte di liberazione contro l’occupazione giapponese e il colonialismo olandese. La costituzione del 1945 si fonda sui cinque principi del monoteismo, umanitarismo, unità nazionale, democrazia rappresentativa e giustizia sociale che nel loro assieme costituiscono l’ideologia di stato denominata Pancasila. Oltre che dalla dottrina ufficiale tuttavia il ruolo del sindacato è influenzato dalla storia recente del paese. E’ noto come negli anni ’60 l’Indonesia sia stata scossa da profondi movimenti sociali e politici. Nel 1965, in seguito a un tentativo insurrezionale contro il presidente Sukarno, si è scatenata una repressione che ha portato al massacro di 750.000 militanti e simpatizzanti del partito comunista indonesiano e dei sindacati che a questo facevano riferimento. Da allora i sindacati liberi sono al bando e almeno formalmente vige la regola del completo distacco tra attività sindacale e vita politica. Attualmente l’unico sindacato ufficialmente ammesso è l’FSPI (Federation of All Indonesian Workers Unions) nel quale, all’indomani della repressione anticomunista, erano confluiti i sindacati moderati che spesso avevano aiutato l’esercito nell’opera di "normalizzazione". Negli anni ’70 il sistema chiuso di relazioni industriali trova una sua formalizzazione coerente con la dottrina di stato, con la promulgazione del "Pancasila Labor Relation Act", in cui viene ripudiato il conflitto tra datori di lavoro e lavoratori come estraneo alla tradizione indonesiana e come un prodotto della cultura liberale o marxista di stampo occidentale. La politica del governo in tema di relazioni industriali va vista quindi all’interno di una strategia più ampia volta al controllo sociale e al mantenimento dell’ordine e delle stabilità come condizioni essenziali per attirare gli investimenti stranieri e assecondare lo sviluppo economico della nazione. Del resto anche i partiti di opposizione sino a pochi anni fa erano tali solo di nome e avevano sempre assecondato il regime dei Sukarno prima e dei Suharto poi. Non bisogna dimenticare infine che l’esercito è sempre presente sullo sfondo della vita pubblica del paese influenzandola ancora oggi in modo considerevole.

La situazione della Tailandia è ancora diversa. A differenza dei paesi vicini è sfuggita al destino della colonizzazione rimanendo sempre autonoma e sovrana. Oggi è retta da una monarchia costituzionale cui si affianca un parlamento eletto democraticamente di cui i tailandesi vanno molto fieri, anche se la vita politica viene messa periodicamente a repentaglio dalle irruzioni dell’esercito che si erge a difensore della pace sociale e ago della bilancia tra i partiti in lizza. Lo sviluppo economico del paese ha preceduto quello delle altre tigri asiatiche (grazie anche agli aiuti americani al tempo della guerra del Viet-Nam) e si è in gran parte basato su investimenti di imprese straniere in settori a basso contenuto tecnologico e sulla presenza di una classe operaia poco qualificata e di fresca origine contadina. Secondo alcuni commentatori si percepisce uno strano contrasto tra un’antica cultura comunitaria di stampo rurale e una assai scarsa coscienza di classe che impedirebbe l’organizzazione dei lavoratori in sindacati e partiti di sinistra. La società tailandese presenterebbe invece uno spiccato carattere gerarchico nel quale chi si colloca nei ranghi più bassi tenderebbe ad avere comportamenti di soggezione e deferenza verso quelli che stanno più in alto. Il feudalesimo in vigore sino a tempi a noi molto vicini e il più recente militarismo avrebbero inoltre contribuito ad alimentare questo clima anche se esso avrebbe origini ben più lontane. A rendere debole e frammentata la rappresentanza degli interessi di classe contribuirebbe infatti anche l’influenza del Buddismo Theravada che incoraggia le persone ad accettare la loro condizione di vita attuale e a lavorare in vista di una prossima vita migliore. Questa corrente religiosa in effetti invita all’introspezione a al distacco dai problemi concreti a differenza del Buddismo Mahayana dominante nel vicino Viet-Nam (ciòche spiega forse il ruolo avuto dai monaci buddisti durante la guerra contro gli USA). Feudalesimo, militarismo e Buddismo moderato offrono quindi alcuni strumenti per comprendere l’assetto sociale tailandese: resta il fatto che nei primi anni ’70, in concomitanza con la guerra del Viet-Nam, si era andato sollevando nel paese un forte movimento di opposizione al regime che aveva rischiato di sfociare in una insurrezione popolare. E’ stato in questo contesto che, nel 1975, è stato promulgato il "Labor Relation Act" in cui si imposero pesanti restrizioni all’attività sindacale e venne bloccata ogni possibilità di rapporto tra la vita politica e la rappresentanza del mondo del lavoro. A tutt’oggi i sindacati non si sono imposti in Tailandia come forza sociale di rilevante importanza e il tasso di adesione alle loro organizzazioni si mantiene a livelli molto bassi, attestandosi attorno all’8%. La loro forza si concentra nelle industrie di stato, nel settore bancario e nei trasporti, mentre è assai scarsa nelle imprese straniere.

Abbiamo accennato sino a questo momento alla presenza di ideologie nazionalistiche, autoritarie e accentratrici in Cina, Indonesia e Tailandia malgrado le differenze istituzionali e storiche tra i tre paesi. Tutto ciònon ha impedito lo sviluppo di conflitti tra classe operaia e potere politico dominante e tra classe operaia e impresa. La reale dimensione di questo scontro è molto difficile da cogliere poichè le notizie sono rapsodiche e spesso filtrate e le statistiche sugli scioperi del tutto carenti e inattendibili.

In Cina, negli scorsi decenni, malgrado lo stretto controllo del partito sul sindacato, possiamo registrare almeno quattro momenti di scontro frontale tra classe operaia e potere politico. Il primo episodio risale al 1956-1957, durante il periodo dei "cento fiori" quando una parte del sindacato ufficiale chiese maggiore autonomia e libertà d’azione. La ribellione portòall’arresto di molti attivisti e lavoratori e si concluse con le dimissioni di Lai Ruoyu, segretario nazionale dell’ACFTU, accusato di aver fiancheggiato la rivolta o quanto meno di non averla saputa prevenire e reprimere. Un secondo scontro avvenne durante la rivoluzione culturale degli anni 1966-1969 quando si formarono nuove organizzazioni di lavoratori indipendenti che assunsero un ruolo di contestazione nei confronti del partito, anche se la loro attività fu oscurata nei circuiti internazionali della comunicazione, da quella più violenta degli studenti e delle guardie rosse. Un terzo momento di grave tensione si verificònel 1976 quando gruppi di lavoratori, assembrati in piazza Tienanmen in occasione delle commemorazioni per la morte di Chu-En-Lai, contestarono la presenza al potere di quella che in seguito fu denominata la banda dei quattro. Il quarto ciclo di contestazione è quello del 1989, sfociato nel massacro di piazza Tienanmen. Anche in quel periodo si formarono in poco tempo piccoli sindacati autonomi che protestarono per le dure condizioni di lavoro, per il basso livello delle retribuzioni, per la corruzione dilagante e che anche in questo caso vennero messi in ombra dalla rivolta più vistosa degli studenti. Lo stesso governo ebbe interesse a minimizzare la partecipazione di lavoratori di fabbrica al moto di ribellione definendoli disoccupati e teppisti. Alcuni commentatori ritengono invece che sia stato proprio il timore che la rivolta si estendesse alle fabbriche a indurre il governo a mandare in piazza i carri armati. Ciò che è interessante sottolineare è che in tutti questi episodi emerge come costante il tentativo di costituire organizzazioni di rappresentanza indipendenti dal partito.


Ancora oggi il governo di Pechino, che del resto non ha sottoscritto la covenzione dell’ILO sulla libertà di associazione, continua a perseguitare i sindacati liberi e quelli che si costituiscono e che non vogliono aderire alla ACFTU. Nei primi anni ’90, quando si è formato il "China Free Union Preparatory Committee", la polizia è intervenuta bloccando un meeting non autorizzato, arrestando l’intero gruppo dirigente e smantellando l’associazione al suo nascere. Lo stesso destino toccòpochi anni dopo al "Liberal Workers Union": anche in questo caso la vita della nuova associazione fu stroncata da un’ondata di arresti, condanne e detenzioni illegali. Negli anni più recenti le denunce di arresti e torture dei leaders e militanti di sindacati autonomi si sono andate infittendo, sollevando ogni volta le proteste dell’ILO, di Amnesty International, delle organizzazioni sindacali europee e mondiali. Ciononostante i sindacali autonomi continuano a proliferare soprattutto nelle aziende multinazionali delle cosiddette zone a statuto speciale: alcuni anni or sono se ne sono contati più di 600 nella sola provincia di Shen-Zhen.

Al diritto di associazione è strettamente legato quello di sciopero. In Cina questo diritto era consentito dalle costituzioni del 1975 e 1978 ma è stato revocato in quella del 1982. Attualmente non esiste una legge che punisce lo sciopero come reato ma la sospensione del lavoro viene considerata dal sindacato ufficiale come un’azione antisociale, un’arma a cui ricorrere soltanto nei casi estremi di disaccordo tra le parti in lizza. Sta di fatto che nel corso del tempo gli scioperi, soprattutto in forma di fermate spontanee, si sono moltiplicati tanto nelle industrie di stato, dove sono più difficili da organizzare, dato il maggiore controllo del sindacato, che nelle imprese straniere dove tale controllo è molto minore. Vere e proprie statistiche sugli scioperi non esistono e le informazioni sui conflitti di lavoro appaiono soltanto sulla stampa di Hong-Kong e sui siti Internet. E’ quindi molto difficile farsi un’idea della consistenza del fenomeno. Nella gran parte dei casi si tratta di fermate di protesta per gli orari di lavoro eccessivi, l’elusione della legge sulla retribuzione minima e la mancata osservanza delle norme di sicurezza (gli infortuni e le morti sul lavoro sono un fenomeno impressionante e ancor oggi si ricorda l’incendio nella fabbrica di giocattoli nella provincia di Shen-Zhen del 1993 dove morirono 93 lavoratori rinchiusi nei loro dormitori per timore che si allontanassero dal posto di lavoro). Negli anni recenti gli scioperi selvaggi sembrano in rapido aumento mentre si moltiplicano i tentativi di mediazione da parte del sindacato ufficiale che in alcune "zone speciali" sta sperimentando, con la consulenza di esperti dell’ILO, una pratica assolutamente nuova per la Cina: quella della contrattazione collettiva a livello aziendale. Basta ricordare gli episodi a noi vicini della lotta delle fabbriche di giocattoli dello Shen-Zhen, che lavorano anche per la multinazionale Mc.Donald, dove nel 2006 più di mille operai sono entrati in agitazione scontrandosi con le forze di polizia, o gli scioperi di 40.000 lavoratori delle fabbriche di scarpe di proprietà di alcune multinazionali coreane di Donguam City nel 2008, contro gli orari eccessivi e il basso livello delle retribuzioni.

Nella repressione del sindacalismo libero l’Indonesia non è da meno della Repubblica Popolare Cinese. L’unico sindacato ammesso nel paese, come abbiamo detto, è lo SPSI (All Indonesian Labor Federation) e le associazioni che nascono a livello d’impresa non possono affiliarsi a nessun altra organizzazione che a questa. Ai dipendenti pubblici o delle aziende industriali di stato, in base ai principi del Pancasila, non è consentito iscriversi a nessun sindacato e se vogliono possono aderire solo a una associazione nazionale, il Kopri, il cui presidente è lo stesso ministro del lavoro. Ogni tentativo di formare un sindacato indipendente viene represso. Agli inizi degli anni ’90 si era costituito il Setiakavon (Solidarity). Sulle prime il governo lo aveva tollerato e senza metterlo al bando lo faceva controllare da vicino dalla polizia che più volte intervenne per farsi assicurare, senza riuscirci, che la nuova organizzazione non avrebbe fatto ricorso all’arma dello sciopero. Setiaskavon in poco tempo divenne molto forte nei comparti del tessile e abbigliamento, della chimica, cuoio e dei generi alimentari. Considerata l’influenza che stava acquistando il governo pensòche fosse meglio intervenire e nel 1992 la polizia interruppe un meeting di massa e arrestòtutto il gruppo dirigente e molti attivisti e simpatizzanti. Pochi anni dopo apparve sulla scena una nuova organizzazione libera, il SBSI che ottenne ben presto l’adesione di circa 250.000 lavoratori. Di fronte alla minaccia di uno sciopero generale indetto dal nuovo sindacato le forze dell’ordine intervennero nuovamente mettendo agli arresti i leader, chiudendo le sedi e impedendo ogni ulteriore sua attività. Altri tentativi di creare sindacati liberi si sono ripetuti negli anni recenti ma sempre con lo stesso esito e questo benchè l’Indonesia, a differenza della Cina, abbia sottoscritto la convenzione dell’ILO sulla liberta si associazione. Gruppi di lavoratori, negli ultimi anni, vista l’impossibilità di creare un sindacato libero hanno ripiegato sulla formazione di un rete di cooperative che si è rapidamente estesa nel paese sino a comprendere più di 1700 imprese.

A dispetto della legislazione apparentemente liberale, a tuttt’oggi in Indonesia, è in vigore quindi un regime sindacale intollerante e autoritario. Solo lo Spsi garantisce infatti al governo l’osservanza dei principi del Pancasila secondo cui lo sciopero non ha senso in un paese povero come l’Indonesia e non risponde agli interessi dei lavoratori, rompendo quell’armonia che è necessaria all’unità nazionale. In realtà l’ordinamento giuridico indonesiano prevede la libertà di sciopero ma il ricorso a questo diritto si risolve nei fatti in una corsa ad ostacoli assai difficoltosa. Prima di dichiarare la fermata, i lavoratori devono ricorrere alla mediazione del Ministero del lavoro. In caso di insuccesso dell’opera di mediazione devono dichiarare pubblicamente le ragioni dello sciopero e annunciarlo in debito anticipo. L’esercito e la polizia spesso si intromettono nelle vertenze sindacali ed è frequente che le imprese paghino le forze dell’ordine per garantirsi la loro protezione. Con tutto ciògli scioperi e le agitazioni sono in continuo aumento. Si tratta per lo più di fermate spontanee e di blocchi improvvisi della produzione che non rientrano nelle statistiche ufficiali e molto spesso non fanno notizia. Alcuni episodi tuttavia sono stati troppo importanti per restare nel silenzio. La rivolta di Medan, un centro industriale non lontano da Giacarta, del 1994 è uno di questi. Nell’aprile di quell’anno i lavoratori di una fabbrica di giocattoli sono entrati in sciopero contro orari troppo lunghi e paghe troppo basse. Dopo sei giorni di agitazione sono scoppiati altri scioperi di solidarietà nelle fabbriche della zona e la mobilitazione ben presto si è trasformata in una ribellione con saccheggi, incendi e barricate. La polizia intervenne, uccise un dimostrante e fece centinaia di arresti. Per alcuni giorni la rivolta sembròplacarsi ma poi si riaccese estendendosi a tutto il distretto industriale, compresa una fabbrica dell’Adidas. Una grande manifestazione con più di 50.000 partecipanti scatenònuovamente la polizia che procedette ad altre centinaia di arresti tra i militanti sindacali e i lavoratori. La rivolta di Medan finì sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e sollecitòl’intervento di Amnesty International, del sindacato americano Afl-Cio e dell’ILO, che chiesero ripetutamente il rilascio degli arrestati. Da allora le agitazioni non si sono placate e negli anni più recenti si possono ricordare gli scioperi di 12.000 lavoratori delle fabbriche di pneumatici di Giacarta nel 2005, dei lavoratori tessili di Tangenan nel 2006, delle fabbriche coreane di scarpe nel 2008. I motivi delle agitazioni sono sempre gli stessi: l’inosservanza delle norme sul salario minimo, gli orari prolungati, gli straordinari non pagati, ma anche la mancata concessione dei permessi di maternità o per le giornate del ciclo mestruale delle operaie.


La situazione in Tailandia è solo di poco diversa. I lavoratori hanno la possibilità di formare un solo sindacato in ogni azienda purchè il 25% di loro siano d’accordo. Nelle imprese di proprietà statale lo sciopero è proibito e in quelle private è autorizzato solo con il consenso del 50% dei lavoratori. Durante la trattativa le agitazioni devono essere sospese e prima di dichiarare lo sciopero è obbligatorio tentare la strada della mediazione presso un’agenzia pubblica. Infine il governo puòsospendere il diritto di sciopero se lo ritiene dannoso all’economia nazionale e alla sicurezza. In queste condizioni è assai difficile che si sviluppino la contrattazione collettiva e un moderno sistema di relazioni industriali. E tuttavia anche in Tailandia i conflitti di lavoro non sono affatto rari. La maggiore ondata di agitazioni, come abbiamo detto, si è avuta a metà degli anni ’70 mentre nei decenni successivi le astensioni dal lavoro sono andate calando. Negli anni più recenti la tensione nelle imprese è tornata ad aumentare e forti scioperi sono scoppiati nel settori bancario, nei porti e nei trasporti. Secondo alcuni studiosi, con lo sviluppo di nuovi comparti a più elevata intensità di capitale e con la formazione di una nuova classe lavoratrice meno legata alla tradizione e più scolarizzata, anche il vecchio modello della deferenza e soggezione alla gerarchia sta venendo progressivamente meno. Del resto la vivace manifestazione che il I° maggio di ogni anno invade le strade di Bangkok fa pensare che anche il movimento operaio tailandese possa dire qualche cosa di nuovo negli anni avvenire.

 

I tre paesi che abbiamo ricordato hanno istituzioni politiche, cultura e storia differenti e che per molti versi non si possono nemmeno paragonare. E tuttavia non sono affatto lontani l’uno dall’altro se consideriamo l’autoritarismo nei confronti del mondo del lavoro e il controllo sui sindacati. In tutti e tre la libera attività sindacale non solo è ritenuta fonte di disordine e di eversione ma viene giudicata contraria al benessere della nazione cioè, detto in altri termini, allo sviluppo economico trainato dagli investimenti esteri. In caso di agitazioni le multinazionali che vi hanno insediato i loro stabilimenti non esitano a minacciare di spostarli in paesi vicini più tranquilli e con un costo del lavoro ancora minore come il Viet-Nam o la Cambogia e spesso lo fanno senza indugio. Il mantenimento della pace sociale in Cina, Tailandia, Indonesia (ma lo stesso problema si ripete in altri paesi come la Malesia e le Filippine) è direttamente correlato all’aumento del prodotto interno lordo. I governi giocano quindi con i movimenti operai come il pescatore con il pesce preso all’amo: se lo strappo è troppo forte bisogna mollare la lenza per poi tirarla lentamente in modo che non si rompa, sino a che la preda non si stanca. Così, se le agitazioni sono troppo frequenti, i governi ritoccano le norme sul "minimum wage" senza peròmai rivedere quelle relative alle forme di rappresentanza del modo del lavoro. Il vero nodo della questione sembra essere quello della formazione di sindacati liberi che tuttavia agli occhi dei governi sono sinonimo di rottura dell’unità nazionale e dell’armonia necessaria allo sviluppo e a quelli delle multinazionali rappresentano la fine della disciplina di fabbrica e l’inizio delle richieste di salari più alti. L’alleanza tra governi asiatici e multinazionali nella repressione del movimento operaio è alla base dello spettacolare sviluppo delle tigri asiatiche che solleva l’invidia degli imprenditori europei e nordamericani e che li sollecita sempre più spesso a trasferire le loro attività in quello che sino a pochi anni fa chiamavamo il terzo mondo e che oggi dobbiamo chiamare il nuovo mondo.

 

 

(1) L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Bari, Laterza, 2000

 

(2) C. Tilly, Globalization Threatens Labor’s Rights, International Labor and Working Class History, N° 47, Srping 1995, pp. 1-23

 

 

 

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