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Relazioni industriali e conflitti di lavoro nel Sud-Est asiatico - pag. 2 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
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Relazioni industriali e conflitti di lavoro nel Sud-Est asiatico
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Anche l’Indonesia, come la Cina e altri paesi asiatici, ha come riferimento una cultura politica basata sull’idea di nazione, che si è andata formando attraverso le lotte di liberazione contro l’occupazione giapponese e il colonialismo olandese. La costituzione del 1945 si fonda sui cinque principi del monoteismo, umanitarismo, unità nazionale, democrazia rappresentativa e giustizia sociale che nel loro assieme costituiscono l’ideologia di stato denominata Pancasila. Oltre che dalla dottrina ufficiale tuttavia il ruolo del sindacato è influenzato dalla storia recente del paese. E’ noto come negli anni ’60 l’Indonesia sia stata scossa da profondi movimenti sociali e politici. Nel 1965, in seguito a un tentativo insurrezionale contro il presidente Sukarno, si è scatenata una repressione che ha portato al massacro di 750.000 militanti e simpatizzanti del partito comunista indonesiano e dei sindacati che a questo facevano riferimento. Da allora i sindacati liberi sono al bando e almeno formalmente vige la regola del completo distacco tra attività sindacale e vita politica. Attualmente l’unico sindacato ufficialmente ammesso è l’FSPI (Federation of All Indonesian Workers Unions) nel quale, all’indomani della repressione anticomunista, erano confluiti i sindacati moderati che spesso avevano aiutato l’esercito nell’opera di "normalizzazione". Negli anni ’70 il sistema chiuso di relazioni industriali trova una sua formalizzazione coerente con la dottrina di stato, con la promulgazione del "Pancasila Labor Relation Act", in cui viene ripudiato il conflitto tra datori di lavoro e lavoratori come estraneo alla tradizione indonesiana e come un prodotto della cultura liberale o marxista di stampo occidentale. La politica del governo in tema di relazioni industriali va vista quindi all’interno di una strategia più ampia volta al controllo sociale e al mantenimento dell’ordine e delle stabilità come condizioni essenziali per attirare gli investimenti stranieri e assecondare lo sviluppo economico della nazione. Del resto anche i partiti di opposizione sino a pochi anni fa erano tali solo di nome e avevano sempre assecondato il regime dei Sukarno prima e dei Suharto poi. Non bisogna dimenticare infine che l’esercito è sempre presente sullo sfondo della vita pubblica del paese influenzandola ancora oggi in modo considerevole.

La situazione della Tailandia è ancora diversa. A differenza dei paesi vicini è sfuggita al destino della colonizzazione rimanendo sempre autonoma e sovrana. Oggi è retta da una monarchia costituzionale cui si affianca un parlamento eletto democraticamente di cui i tailandesi vanno molto fieri, anche se la vita politica viene messa periodicamente a repentaglio dalle irruzioni dell’esercito che si erge a difensore della pace sociale e ago della bilancia tra i partiti in lizza. Lo sviluppo economico del paese ha preceduto quello delle altre tigri asiatiche (grazie anche agli aiuti americani al tempo della guerra del Viet-Nam) e si è in gran parte basato su investimenti di imprese straniere in settori a basso contenuto tecnologico e sulla presenza di una classe operaia poco qualificata e di fresca origine contadina. Secondo alcuni commentatori si percepisce uno strano contrasto tra un’antica cultura comunitaria di stampo rurale e una assai scarsa coscienza di classe che impedirebbe l’organizzazione dei lavoratori in sindacati e partiti di sinistra. La società tailandese presenterebbe invece uno spiccato carattere gerarchico nel quale chi si colloca nei ranghi più bassi tenderebbe ad avere comportamenti di soggezione e deferenza verso quelli che stanno più in alto. Il feudalesimo in vigore sino a tempi a noi molto vicini e il più recente militarismo avrebbero inoltre contribuito ad alimentare questo clima anche se esso avrebbe origini ben più lontane. A rendere debole e frammentata la rappresentanza degli interessi di classe contribuirebbe infatti anche l’influenza del Buddismo Theravada che incoraggia le persone ad accettare la loro condizione di vita attuale e a lavorare in vista di una prossima vita migliore. Questa corrente religiosa in effetti invita all’introspezione a al distacco dai problemi concreti a differenza del Buddismo Mahayana dominante nel vicino Viet-Nam (ciòche spiega forse il ruolo avuto dai monaci buddisti durante la guerra contro gli USA). Feudalesimo, militarismo e Buddismo moderato offrono quindi alcuni strumenti per comprendere l’assetto sociale tailandese: resta il fatto che nei primi anni ’70, in concomitanza con la guerra del Viet-Nam, si era andato sollevando nel paese un forte movimento di opposizione al regime che aveva rischiato di sfociare in una insurrezione popolare. E’ stato in questo contesto che, nel 1975, è stato promulgato il "Labor Relation Act" in cui si imposero pesanti restrizioni all’attività sindacale e venne bloccata ogni possibilità di rapporto tra la vita politica e la rappresentanza del mondo del lavoro. A tutt’oggi i sindacati non si sono imposti in Tailandia come forza sociale di rilevante importanza e il tasso di adesione alle loro organizzazioni si mantiene a livelli molto bassi, attestandosi attorno all’8%. La loro forza si concentra nelle industrie di stato, nel settore bancario e nei trasporti, mentre è assai scarsa nelle imprese straniere.

Abbiamo accennato sino a questo momento alla presenza di ideologie nazionalistiche, autoritarie e accentratrici in Cina, Indonesia e Tailandia malgrado le differenze istituzionali e storiche tra i tre paesi. Tutto ciònon ha impedito lo sviluppo di conflitti tra classe operaia e potere politico dominante e tra classe operaia e impresa. La reale dimensione di questo scontro è molto difficile da cogliere poichè le notizie sono rapsodiche e spesso filtrate e le statistiche sugli scioperi del tutto carenti e inattendibili.

In Cina, negli scorsi decenni, malgrado lo stretto controllo del partito sul sindacato, possiamo registrare almeno quattro momenti di scontro frontale tra classe operaia e potere politico. Il primo episodio risale al 1956-1957, durante il periodo dei "cento fiori" quando una parte del sindacato ufficiale chiese maggiore autonomia e libertà d’azione. La ribellione portòall’arresto di molti attivisti e lavoratori e si concluse con le dimissioni di Lai Ruoyu, segretario nazionale dell’ACFTU, accusato di aver fiancheggiato la rivolta o quanto meno di non averla saputa prevenire e reprimere. Un secondo scontro avvenne durante la rivoluzione culturale degli anni 1966-1969 quando si formarono nuove organizzazioni di lavoratori indipendenti che assunsero un ruolo di contestazione nei confronti del partito, anche se la loro attività fu oscurata nei circuiti internazionali della comunicazione, da quella più violenta degli studenti e delle guardie rosse. Un terzo momento di grave tensione si verificònel 1976 quando gruppi di lavoratori, assembrati in piazza Tienanmen in occasione delle commemorazioni per la morte di Chu-En-Lai, contestarono la presenza al potere di quella che in seguito fu denominata la banda dei quattro. Il quarto ciclo di contestazione è quello del 1989, sfociato nel massacro di piazza Tienanmen. Anche in quel periodo si formarono in poco tempo piccoli sindacati autonomi che protestarono per le dure condizioni di lavoro, per il basso livello delle retribuzioni, per la corruzione dilagante e che anche in questo caso vennero messi in ombra dalla rivolta più vistosa degli studenti. Lo stesso governo ebbe interesse a minimizzare la partecipazione di lavoratori di fabbrica al moto di ribellione definendoli disoccupati e teppisti. Alcuni commentatori ritengono invece che sia stato proprio il timore che la rivolta si estendesse alle fabbriche a indurre il governo a mandare in piazza i carri armati. Ciò che è interessante sottolineare è che in tutti questi episodi emerge come costante il tentativo di costituire organizzazioni di rappresentanza indipendenti dal partito.



 

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