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Relazioni industriali e conflitti di lavoro nel Sud-Est asiatico - pag. 3 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00
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Relazioni industriali e conflitti di lavoro nel Sud-Est asiatico
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Ancora oggi il governo di Pechino, che del resto non ha sottoscritto la covenzione dell’ILO sulla libertà di associazione, continua a perseguitare i sindacati liberi e quelli che si costituiscono e che non vogliono aderire alla ACFTU. Nei primi anni ’90, quando si è formato il "China Free Union Preparatory Committee", la polizia è intervenuta bloccando un meeting non autorizzato, arrestando l’intero gruppo dirigente e smantellando l’associazione al suo nascere. Lo stesso destino toccòpochi anni dopo al "Liberal Workers Union": anche in questo caso la vita della nuova associazione fu stroncata da un’ondata di arresti, condanne e detenzioni illegali. Negli anni più recenti le denunce di arresti e torture dei leaders e militanti di sindacati autonomi si sono andate infittendo, sollevando ogni volta le proteste dell’ILO, di Amnesty International, delle organizzazioni sindacali europee e mondiali. Ciononostante i sindacali autonomi continuano a proliferare soprattutto nelle aziende multinazionali delle cosiddette zone a statuto speciale: alcuni anni or sono se ne sono contati più di 600 nella sola provincia di Shen-Zhen.

Al diritto di associazione è strettamente legato quello di sciopero. In Cina questo diritto era consentito dalle costituzioni del 1975 e 1978 ma è stato revocato in quella del 1982. Attualmente non esiste una legge che punisce lo sciopero come reato ma la sospensione del lavoro viene considerata dal sindacato ufficiale come un’azione antisociale, un’arma a cui ricorrere soltanto nei casi estremi di disaccordo tra le parti in lizza. Sta di fatto che nel corso del tempo gli scioperi, soprattutto in forma di fermate spontanee, si sono moltiplicati tanto nelle industrie di stato, dove sono più difficili da organizzare, dato il maggiore controllo del sindacato, che nelle imprese straniere dove tale controllo è molto minore. Vere e proprie statistiche sugli scioperi non esistono e le informazioni sui conflitti di lavoro appaiono soltanto sulla stampa di Hong-Kong e sui siti Internet. E’ quindi molto difficile farsi un’idea della consistenza del fenomeno. Nella gran parte dei casi si tratta di fermate di protesta per gli orari di lavoro eccessivi, l’elusione della legge sulla retribuzione minima e la mancata osservanza delle norme di sicurezza (gli infortuni e le morti sul lavoro sono un fenomeno impressionante e ancor oggi si ricorda l’incendio nella fabbrica di giocattoli nella provincia di Shen-Zhen del 1993 dove morirono 93 lavoratori rinchiusi nei loro dormitori per timore che si allontanassero dal posto di lavoro). Negli anni recenti gli scioperi selvaggi sembrano in rapido aumento mentre si moltiplicano i tentativi di mediazione da parte del sindacato ufficiale che in alcune "zone speciali" sta sperimentando, con la consulenza di esperti dell’ILO, una pratica assolutamente nuova per la Cina: quella della contrattazione collettiva a livello aziendale. Basta ricordare gli episodi a noi vicini della lotta delle fabbriche di giocattoli dello Shen-Zhen, che lavorano anche per la multinazionale Mc.Donald, dove nel 2006 più di mille operai sono entrati in agitazione scontrandosi con le forze di polizia, o gli scioperi di 40.000 lavoratori delle fabbriche di scarpe di proprietà di alcune multinazionali coreane di Donguam City nel 2008, contro gli orari eccessivi e il basso livello delle retribuzioni.

Nella repressione del sindacalismo libero l’Indonesia non è da meno della Repubblica Popolare Cinese. L’unico sindacato ammesso nel paese, come abbiamo detto, è lo SPSI (All Indonesian Labor Federation) e le associazioni che nascono a livello d’impresa non possono affiliarsi a nessun altra organizzazione che a questa. Ai dipendenti pubblici o delle aziende industriali di stato, in base ai principi del Pancasila, non è consentito iscriversi a nessun sindacato e se vogliono possono aderire solo a una associazione nazionale, il Kopri, il cui presidente è lo stesso ministro del lavoro. Ogni tentativo di formare un sindacato indipendente viene represso. Agli inizi degli anni ’90 si era costituito il Setiakavon (Solidarity). Sulle prime il governo lo aveva tollerato e senza metterlo al bando lo faceva controllare da vicino dalla polizia che più volte intervenne per farsi assicurare, senza riuscirci, che la nuova organizzazione non avrebbe fatto ricorso all’arma dello sciopero. Setiaskavon in poco tempo divenne molto forte nei comparti del tessile e abbigliamento, della chimica, cuoio e dei generi alimentari. Considerata l’influenza che stava acquistando il governo pensòche fosse meglio intervenire e nel 1992 la polizia interruppe un meeting di massa e arrestòtutto il gruppo dirigente e molti attivisti e simpatizzanti. Pochi anni dopo apparve sulla scena una nuova organizzazione libera, il SBSI che ottenne ben presto l’adesione di circa 250.000 lavoratori. Di fronte alla minaccia di uno sciopero generale indetto dal nuovo sindacato le forze dell’ordine intervennero nuovamente mettendo agli arresti i leader, chiudendo le sedi e impedendo ogni ulteriore sua attività. Altri tentativi di creare sindacati liberi si sono ripetuti negli anni recenti ma sempre con lo stesso esito e questo benchè l’Indonesia, a differenza della Cina, abbia sottoscritto la convenzione dell’ILO sulla liberta si associazione. Gruppi di lavoratori, negli ultimi anni, vista l’impossibilità di creare un sindacato libero hanno ripiegato sulla formazione di un rete di cooperative che si è rapidamente estesa nel paese sino a comprendere più di 1700 imprese.

A dispetto della legislazione apparentemente liberale, a tuttt’oggi in Indonesia, è in vigore quindi un regime sindacale intollerante e autoritario. Solo lo Spsi garantisce infatti al governo l’osservanza dei principi del Pancasila secondo cui lo sciopero non ha senso in un paese povero come l’Indonesia e non risponde agli interessi dei lavoratori, rompendo quell’armonia che è necessaria all’unità nazionale. In realtà l’ordinamento giuridico indonesiano prevede la libertà di sciopero ma il ricorso a questo diritto si risolve nei fatti in una corsa ad ostacoli assai difficoltosa. Prima di dichiarare la fermata, i lavoratori devono ricorrere alla mediazione del Ministero del lavoro. In caso di insuccesso dell’opera di mediazione devono dichiarare pubblicamente le ragioni dello sciopero e annunciarlo in debito anticipo. L’esercito e la polizia spesso si intromettono nelle vertenze sindacali ed è frequente che le imprese paghino le forze dell’ordine per garantirsi la loro protezione. Con tutto ciògli scioperi e le agitazioni sono in continuo aumento. Si tratta per lo più di fermate spontanee e di blocchi improvvisi della produzione che non rientrano nelle statistiche ufficiali e molto spesso non fanno notizia. Alcuni episodi tuttavia sono stati troppo importanti per restare nel silenzio. La rivolta di Medan, un centro industriale non lontano da Giacarta, del 1994 è uno di questi. Nell’aprile di quell’anno i lavoratori di una fabbrica di giocattoli sono entrati in sciopero contro orari troppo lunghi e paghe troppo basse. Dopo sei giorni di agitazione sono scoppiati altri scioperi di solidarietà nelle fabbriche della zona e la mobilitazione ben presto si è trasformata in una ribellione con saccheggi, incendi e barricate. La polizia intervenne, uccise un dimostrante e fece centinaia di arresti. Per alcuni giorni la rivolta sembròplacarsi ma poi si riaccese estendendosi a tutto il distretto industriale, compresa una fabbrica dell’Adidas. Una grande manifestazione con più di 50.000 partecipanti scatenònuovamente la polizia che procedette ad altre centinaia di arresti tra i militanti sindacali e i lavoratori. La rivolta di Medan finì sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e sollecitòl’intervento di Amnesty International, del sindacato americano Afl-Cio e dell’ILO, che chiesero ripetutamente il rilascio degli arrestati. Da allora le agitazioni non si sono placate e negli anni più recenti si possono ricordare gli scioperi di 12.000 lavoratori delle fabbriche di pneumatici di Giacarta nel 2005, dei lavoratori tessili di Tangenan nel 2006, delle fabbriche coreane di scarpe nel 2008. I motivi delle agitazioni sono sempre gli stessi: l’inosservanza delle norme sul salario minimo, gli orari prolungati, gli straordinari non pagati, ma anche la mancata concessione dei permessi di maternità o per le giornate del ciclo mestruale delle operaie.



 

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