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La femminilizzazione del lavoro PDF Stampa E-mail
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Martedì 11 Maggio 2010 00:00

Frida Kahlo - The broken column (self-portrait), 1944Partita  da generiche considerazioni sulle forme nuove del lavoro (nuove schiavitù, precarietà, false autonomie, caduta dei diritti, ecc…) la discussione della redazione ha investito il problema della femminilizzazione del lavoro. Un tema che spiazza e rompe con le tradizionali letture ma che ormai è parte integrante dello scenario attuale  sul quale il capitalismo si muove.  Spiazza soprattutto chi vive con disagio la devastante capacità del capitale di mercificare anche i settori della vita privata. Spiazza altresì chi si preoccupa di non cedere a questa mercificazione con proposte che, se non nelle intenzioni, rischiano, secondo loro, nei fatti, di essere ad essa consentanee (salario alle casalinghe e quant’altro…).


4 marzo da Paolo

Appunti sul lavoro in epoca post-fordista

La produzione di ricchezza non è più fondata, quanto meno nel mondo occidentale, solo ed esclusivamente sulla produzione materiale ma si basa sempre più  su elementi di immaterialità, vale a dire su "merci" intangibili, difficilmente misurabili e quantificabili, che discendono direttamente dall'utilizzo delle facoltà relazionali, sentimentali e cerebrali degli esseri umani.

 

La prestazione lavorativa si modifica sia quantitativamente che qualitativamente. Riguardo alle condizioni materiali di lavoro (l'aspetto quantitativo), si assiste ad un aumento degli orari di lavoro (Andrea Fumagalli parla per gli ultimi 25 anni di un aumento del 25% delle ore di lavoro) e spesso ad un cumulo di mansioni lavorative, al venir meno della separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, ad una maggiore individualizzazione dei rapporti di lavoro. Inoltre la prestazione lavorativa acquista sempre più elementi di immaterialità: l'attività relazionale, di comunicazione e cerebrale diventano sempre più compresenti e importanti. Tali attività richiedono formazione, competenze e attenzione: la separazione tra mente e braccia, tipica della prestazione taylorista, si riduce sino a sviluppare un connubio di routines e di intensa partecipazione attiva al ciclo produttivo.

 

Qualità  tipiche del lavoro domestico e  di cura femminile che in epoca fordista erano caratteristiche di un’ attività di sostegno silenzioso, amorevole e altrettanto invisibile alla produzione (il cosiddetto lavoro di riproduzione che in realtà non può chiamarsi a pieno diritto lavoro perché per lo più nasce da rapporti affettivi…) oggi vengono invece sussunti all’interno della produzione e dunque mercificati.

Tutto ciò  avviene in presenza di un aumento del grado di precarizzazione reddituale della maggior parte dei lavoratori/trici. Il ricatto del bisogno, che faceva sì che nella produzione materiale si accettasse la dura disciplina della fabbrica, continua a svolgere, imperturbato, il ruolo storico che sta alla base della divisione in classe e della subordinazione del lavoro al capitale.

 

4 marzo da Aldo

Se elementi tipici della affettività vengono mercificati nel postfordismo, come tu dici e altri dicono, che cosa vogliamo fare: assecondare questa tendenza?

 

4 marzo da Paolo

Evidentemente no. Il problema  è quello di capire come si muove il capitalismo e se mai di denunciare le forme nuove (quelle che chiamiamo grosso modo del postfordismo) dello sfruttamento e quindi dell'estrazione di plusvalore.

 

5 marzo da Franco

Credo si possa partire da questi appunti di Paolo. Ogni affermazione qui contenuta potrebbe essere il capitolo di un libro. Partirò  dal finale. A me pare che l’utopia del post fordismo sia quella di far cadere ogni barriera fra lavoro salariato stabile ed esercito di riserva. La parola precarizzazione, in questo senso, la trovo limitante perché essa indica ancora un processo, mentre mi sembra che oggi si possa parlare di tre forme di lavoro esistenti: quello schiavista di cui nessuno parla ma che andrebbe indicato come tale, e quello flessibile, e al suo interno sacche di stabilità, ma che non rappresentano più il nucleo centrale che attrae gli altri ma il contrario. Portata all’estremo l’utopia del capitalismo finanziario post fordista è quella di un lavoro del tutto non pagato: quanto sono frequenti  casi di fabbriche dove i lavoratori non percepiscono salario da mesi? Si potrà dire che poi arrivano anche gli arretrati, ma a parte il fatto che anche questo non è sempre vero, la tendenza mi sembra indicare che il profitto stesso non è più un punto di riferimento per l’impresa nel senso che si può licenziare e chiudere e non pagare salario persino quando l’industria va bene, perché, come si dice anche negli appunti la produzione stessa si basa molto più di prima su elementi immateriali che hanno anche fare con tutto quello che viene citato, dal lavoro di cura, al volontariato, all’utilizzo del general intellect per dirla con il barbuto. Gli esempi che si possono fare sono molti. Naturalmente sto parlando di un’utopia (Jameson), ),  cioè di qualcosa che non riesce a realizzarsi del tutto,  ma questo cambia di molto le prospettive. Anche il dibattito per me sacrosanto, sulla emersione del lavoro sommerso e non riconosciuto (prima ancora che non pagato), cambia oggi di prospettiva perché tutto il lavoro tende a non essere più riconosciuto, sia come valore, sia come mezzo di emancipazione., sia come prestazione oggetto di remunerazione stabilita e contrattata. Questo rende in parte obsoleto il dibattito degli anni ’70 e successivo e il lavoro di economiste come Joan Robinson per esempio, sulla quantificazione del lavoro domestico ecc. e questo a prescindere dalle considerazioni di Aldo se sia o no pericoloso quantificare tutto. Una parentesi su questo però vorrei aprirla lo stesso. Io non trovavo e non trovo affatto sbagliato dal punto di vista concettuale, quantificare ad esempio il lavoro sommerso di cura, come se lo si svilisse dandogli  una connotazione economico-quantitativa. Sono se mai le risposte che si danno a essere problematiche e discutibili come ad esempio il salario alle casalinghe…

 

5 marzo da Paolo

I miei appunti si rifanno a una intervista recente di Andrea Fumagalli e di Cristina Morini  che è solo audio, purtroppo, ma che si può ascoltare andando a questo indirizzo: http://liberetutte.noblogs.org/post/2009/11/12/donne-lavoro-quale-sicurezza

Aggiungo ancora qualche nota, scusate se mi ripeto in qualcosa.

Salario alle casalinghe o al lavoro di cura o reddito di esistenza come dice ora Fumagalli (nell’intervista citata egli lo sostituisce al reddito di cittadinanza  precedentemente usato in quanto nei fatti escludeva gli emigrati) non mi sembrano per ora molto interessanti.

So che sulla questione si dividono anche le femministe (ma dica Adriana), so che Lea Melandri ad es. è abbastanza critica sul discorso del salario al lavoro domestico perché investe l’affettività.

Ma sgombrato il terreno da ciò  devo pur dire cosa mi interessa, forse cioè ciò che interessa tutti noi.

Ed è quel tipo di analisi che del lavoro oggi mi sembra necessario fare per metterne in evidenza i caratteri nuovi.

Fumagalli mette particolarmente l’accento (ma sicuramente ci sono altri che lo fanno) sulla femminilizzazione del lavoro: non solo nel senso quantitativo del maggiore accesso della donna al lavoro (che già di per sé porta un significato preciso perché si aprono le porte alle donne quando il lavoro in generale è più squalificato, infatti oggi è sempre di più o lavoro nero o lavoro mal pagato o lavoro servile o lavoro schiavizzato) ma soprattutto nel senso che il lavoro è diventato sempre più fondato sulla relazione, sulla flessibilità nei ruoli, sull’adattabilità alle mansioni, soprattutto sull’estensione indefinita del tempo di lavoro fino al suo coincidere col tempo di vita e sulla totale precarizzazione addirittura fino alla scomparsa del rapporto salariale: non credo che ci voglia poi tanto nel riconoscere in tutto ciò una impronta più femminile: il lavoro è diventato più femminile. I caratteri del lavoro domestico e di cura sono stati nella nostra epoca post-fordista sussunti all’interno del lavoro di produzione generale.

Certo qui si apre anche il discorso sul lavoro immateriale, sul general intellect, sul capitalismo cognitivo, ecc. ma vedremo.

Dunque la mercificazione del lavoro domestico e di cura, che comprende in sé molti degli aspetti delle relazioni d’affetto, è già nei fatti, la viviamo già oggi.

Questa analisi a me sembra importante e mi sembra che OverLeft debba parlarne perché ci dice dove va il capitalismo attuale che è l’unico modo per poter ipotizzare forme di lotta.

Poi se volete discutiamo anche del reddito di esistenza ma non partendo dall’idea che,  dovesse mai davvero realizzarsi in qualche modo,  allora avremmo una maggiore mercificazione: in realtà le porte sono state già aperte e i buoi è da quel dì che sono scappati.

 

14 marzo da Adri

car*,

nella mia ricerca di materiali con economiste, sociologhe, etnologhe... sui temi del mutamento del rapporto tra lavoro di produzione e lavoro di riproduzione in età post-fordista, femminilizzazione del lavoro, appalto alle migranti (e in misura minore ai migranti) del lavoro domestico-familiare-di cura,emersione del lavoro di cura-familiare-domestico dalla invisibilità alla visibilità, sussunzione della vita nella valorizzazione del capitale per mezzo del consumo... mi sono imbattuta in questo saggio che vi allego e vi propongo, di Roberta Pompili,  una giovane ricercatrice di Perugia (in fondo al saggio trovate una breve nota biografica), che fa parte di un collettivo di donne che si chiama: ‘Sommosse’ che  ha organizzato l'incontro con Morini e Fumagalli del quale vi ho parlato.

Il saggio, Performare il sex work. Elementi di analisi teorica e note etnografiche sulla produzione del sex work in una ricerca tra le donne migranti a Perugia, è pubblicato sugli annali dell'Università di Perugia e è di fatto di taglio accademico: con excursus storico del concetto di lavoro...., excursus storico su come  la questione è stata tematizzata nel corso degli anni Settanta dalle femministe, che può essere interessante per  chi non ha presente il dibattito (dato anche che il femminismo di quegli anni ha interessato per lo più nei suoi aspetti folcloristici…)

Quello che mi pare particolarmente interessante è l'allargamento dell'analisi alle migranti, che in altri contributi vengono solo citate e poi per il tema della precarietà che riguarda non solo i nuovi e le nuove lavoratrici ma anche  quell* a tempo indeterminato (attacco all'articolo 18).

 

16 marzo da Franco

Trovo il saggio di Pompili importantissimo. Penso che sia essenziale leggerlo.

 

16 marzo da Laura

sto leggendo il saggio di Pompili sul sex work. Molto interessante in quanto tende a  definire l'entità del lavoro immateriale in era postfordista attraverso l'esempio emblematico dell'attività sessuale mercenaria sulla quale si tende a fare principalmente del moralismo.

 

17 marzo da Franco

Riporto qui di seguito alcune citazioni di Pompili, cui aggiungo alcune riflessioni mie.

Questa prospettiva di analisi evidenzia la radicale trasformazione della legge marxiana del valore: nella società capitalistica contemporanea il valore del lavoro non è più calcolabile attraverso l’unità del tempo lavorativo, perché sempre di più sono le relazioni e le conoscenze – non computabili attraverso tale misura - che connotano il valore della merce. Non a caso sempre più si parla di femminilizzazione del lavoro che si sostanzia nella messa a profitto delle capacità umane più intime e meno misurabili….

La mia ipotesi è che il sex work possa inscriversi nelle forme contemporanee di lavoro postfordista che vengono descritte nella categoria del lavoro immateriale, che produce appunto beni immateriali, come un servizio, un prodotto culturale, conoscenza o comunicazione.

Hardt e Negri parlano di tre diversi generi di lavoro immateriale: il primo comprende i settori delle produzione industriale che sono stati informatizzati; il secondo è quello in cui vengono utilizzate le attività simboliche e creative, detto anche lavoro cognitivo; il terzo è quello della produzione e manipolazione degli affetti. Il sex work si posiziona all’interno di questa ultima tipologia, che ha a che fare con la cura, il corpo, la relazione

La domanda di fondo che pongo è questa: tali prestazioni immateriali continuano comunque ad avere un prezzo in denaro e questo rende impossibile cancellare dalla scena il problema della calcolabilità e quantificazione: semmai riporta in auge, perché vi allude, il discorso sull’abolizione del denaro, sempre apparso come l’orizzonte più utopico del pensiero di Marx e invece quanto mai attuale: proprio l’immaterialità delle prestazioni rende ancor più rozzo lo strumento che ne riconosce la realizzazione. Di denaro ce n’è sempre di più, ma con esso si misura sempre di meno.

 

24 marzo da Paolo

Riflessioni marginali al lavoro di Pompili.

La prima riflessione che faccio dopo la lettura del lavoro di Pompili: il lavoro della prostituta non è mai solo quel breve scambio di sesso per denaro come viene per lo più  immaginato e raffigurato ma implica invece una ‘performance’ che attiene anche alla relazione, ai sentimenti, alle emozioni. Soprattutto quando il cliente è , a differenza di ieri, un lavoratore più precario, senza quasi più diritti.

Mi viene da pensare anche al fatto che la sexworker di epoca fordista aveva forse un’attività meno faticosa: in epoca di piena occupazione (così si diceva!) il cliente cercava il suo sfogo riequilibrante senza troppi fronzoli (!), una scopata e via. Oggi la ‘performance’ (con un cliente più frustrato dalla mancanza di lavoro o da un lavoro saltuario ecc.) svela più apertamente ciò che prima era più occulto e meno considerato cioè il lavoro in più di relazione che ogni scopata costa alla sexworker.

Non si fa grande sforzo in quest’ottica a recuperare categorie marxiane: anche nello scambio sesso-denaro non tutto il lavoro viene pagato. C’è un plusvalore che attiene all’immateriale e che va cioè oltre il dato fisico materiale. Meno visibile ma non meno presente complessivamente, ripeto, nella società fordista.

A monte dell’analisi di Pompili sta l’altra analisi, a Capitale di Marx aperto, della specificità del plusvalore prodotto dalle attività femminili in generale (cioè al di là del sexwork): per essere scambiata con il salario la forza-lavoro, che crea valore maggiore di quanto costi, deve presentarsi al massimo delle sue potenzialità, e a garantirne l’efficienza sono tutte le attività femminili che conosciamo come lavoro di cura, i cui caratteri in qualche modo sono presenti anche nelle prestazioni delle sexworkers.

A questo punto, una volta messo l’accento sui caratteri fin qui misconosciuti del lavoro delle sexworker, ci ritroviamo nell’analisi dentro il discorso dal quale eravamo partiti che riguarda i caratteri del lavoro attuale e cioè la sua femminilizzazione sulla quale ho già detto. Riporto soltanto qui un passo che mi sembra particolarmente chiaro: “[…] sarebbe assurdo pensare che l’ingresso massiccio di una manodopera femminile sul mercato del lavoro sia stata responsabile di questa femminilizzazione. La femminilizzazione del lavoro significa l’applicazione a tutti gli individui di dispositivi di assoggettamento che sono stati applicati storicamente innanzitutto alle donne; significa la captazione, il dirottamento e l’integrazione di un tipo di valorizzazione sinora ignorato, e che passa brutalmente dalla sfera degli affetti – l’amore, la cura, la cooperazione, l’aiuto reciproco, la condivisione - intesa come esteriorità radicale al mondo del lavoro produttivo, e nella quale si è tradizionalmente rinchiuso le donne, a quella della produzione.”

Sulla base delle considerazioni poi di Virno, Hardt e Negri Pompili fa proprie conclusioni che mi lasciano perplesso. Infatti per tutti e tre ci troveremmo di fronte a una “[…] radicale trasformazione della legge marxiana del valore: nella società capitalistica contemporanea il valore del lavoro non è più calcolabile attraverso l’unità del tempo lavorativo, perché sempre di più sono le relazioni e le conoscenze – non computabili attraverso tale misura - che connotano il valore della merce. Non a caso sempre più si parla di femminilizzazione del lavoro che si sostanzia nella messa a profitto delle capacità umane più intime e meno misurabili.”

Non capisco molto cosa significa dire che ci troviamo di fronte a una trasformazione della legge marxiana del valore. Soprattutto perché non mi sembra vero che in epoca fordista non ci fosse messa in opera e dunque sfruttamento delle capacità relazionali e delle conoscenze del lavoratore (il discorso sulla ‘scienza operaia’ è noto e non è il caso di parlarne qui, mi viene solo in mente che all’entrata della Pirelli gli operai in viale Sarca trovavano una cassetta dove venivano invitati a mettere i loro consigli per l’organizzazione del lavoro e per modifiche alle macchine stesse). Le quali sicuramente erano meno complesse e certamente oggi più visibili perché richieste in maniera maggiore.

 

9 aprile da Adri

Mi sembra che l'attenzione al lavoro domestico e di cura per noi abitanti dell'Occidente affluente abbia molteplici valenze: economica, sociale, politica, epistemologica.

Parto da quest'ultima: certe condizioni strutturali  attuali (invecchiamento della popolazione, aumento delle disabilità grazie ai progressi delle tecniche di sopravvivenza, precarizzazione del lavoro,..) rovesciano un presupposto antropologico fondamentale degli ultimi due secoli, la presunta indipendenza e autonomia dell'individuo, che è faber del proprio destino, mettendo in evidenza la  interdipendenza non solo dei bambini/e, dei disabili  temporanei o permanenti, ma anche del maschio adulto con altri uomini e con le donne.

Questa è un'inversione di un  paradigma (anche se non è mai stato interamente vero, come del resto non è del tutto vera la separazione tra mente e braccia nel lavoro fordista) ma  si faceva come se "fosse vero".

I maschi adulti lavoratori, precari o stabili, non pongono pubblicamente (e quindi politicamente) la questione della loro vulnerabilità e fragilità, derivanti dal sistema sociale, economico attuali, ma la scaricano sulle loro donne (questo può avere rapporto con l'aumento della violenza sulle donne  e sui femminicidi in aumento nei confronti delle donne che si sottraggono al ruolo di sostegno affettivo, emotivo, sessuale, di servizio).

La qualità della vita di donne e uomini, perché  questa è la posta in gioco, è in quest'intreccio e questa tensione tra lavoro riconosciuto e lavoro non riconosciuto, tra lavoro non pagato femminile e lavoro pagato maschile.

Le donne si sono fatte carico delle condizioni di vita delle persone amate, hanno supplito alle carenze del sistema produttivo capitalistico in materia  di riproduzione della forza lavoro (welfare insufficiente, o addirittura mancante in certi luoghi, diritti sociali non riconosciuti…).

Anche quando la gran massa di lavoro  domestico (manutenzione e riparazione di ambienti, spazi, oggetti)   e di cura, svolto prevalentemente dalle donne,  è stata retribuita attraverso  gli assegni familiari del coniuge, non  solo si è sempre trattato di fondi largamente insufficienti, ma non ha mai assicurato la minima autonomia ai soggetti erogatori perché comunque passava attraverso salario, lavoro quindi retribuito ma non pagato perché non negoziato direttamente da chi lo svolgeva.

Naturalmente perché questo fosse possibile è stato necessario contare sull’oblatività e  l’adattività  femminili in nome dell’amore, caratteristiche non certo “naturali” per le donne più di quanto non lo siano per gli uomini, ma ottenute  attraverso un’accurata educazione alle emozioni e ai sentimenti :  spirito di sacrificio, insopportabilità della sofferenza altrui (uomo o donna, anziano/a, bambino/a) secondo un modello  di femminiità proposto a tutte, sia a quelle che l’hanno abbracciato, sia a quelle che l’hanno rifiutato, periodicamente  modernizzato e aggiornato  secondo le trasformazioni sociali e economiche.

In questo caso il nostro sistema economico ha trovato fertile terreno nel patriarcato, con il quale ha contratto un matrimonio indissolubile, finora.

Oblatività, flessibilità dei tempi e adattabilità – qualità maturate nel corso dell’esperienza storica delle donne nell’ambito del lavoro domestico e di cura - sono diventate merce pregiata oggi, merce che deve essere fornita  anche dagli uomini  sui nuovi posti di lavoro; sono diventate il paradigma del buon lavoratore e buona lavoratrice, invocate anche con ricorso a argomentazioni etiche, con tutto il grado di precarietà che comportano e di incremento della quantità di lavoro non pagato anche nel settore produttivo.

Oggi le migranti, che permettono a noi di entrare nel mercato del lavoro, sono il prisma attraverso il quale leggere questi aspetti della condizione che ci accomuna:  con il loro carico di lavoro di cura in tutte le forme che sperimentano: domestico, accudimento a vecchi/e, bambini/e, inabilità temporanee o permanenti, lavoro sessuale, con quel carico di relazionalità, sostegno psicologico di cui parlano le sex work di Pompili, pensiamo ai casi di matrimonio con migranti che assicurano ai maschi adulti italiani aspetti e qualità del lavoro domestico e di cura da noi donne occidentali rifiutateIl tutto  lasciando il lavoro domestico e di cura altri e altre nei loro paesi.

Inoltre è  evidente quanto poco sia "pagato" del loro lavoro e quanto invece "non pagato", e lì si coglie bene il rapporto conflittuale tra lavoro pagato e lavoro non pagato, la tensione tra le due dimensioni, dovuta soprattutto alle difficoltà della misurazione e del confronto fra i due valori.

Così tanto è diventato  evidente e così bene, che da qualche tempo molti economisti, e non solo in Italia,  hanno scoperto il valore economico del lavoro domestico e di cura  non pagato, e l’essenzialità di questo al sistema capitalistico, basti pensare all’ ultimo il libro di Ichino e Alesina  che tanto successo ha riscosso.

A livello internazionale ci sono numerose ricerche sulla quantità di lavoro non pagato, che a livello mondiale supera- di poco.- tutto l’insieme del lavoro pagato.

E’ svolto prevalentemente dalle donne, che costituiscono il 70% di tutti i poveri del mondo, con gradi e livelli differenti di pesantezza e rischio di vita, a seconda del grado di ricchezza delle popolazioni e di libertà e autonomia delle donne nelle differenti realtà politiche e sociali.

Ci sono statistiche su statistiche sull'uso del tempo delle donne e degli uomini che mettono in luce il carico del lavoro domestico e di cura  (le donne italiane ne fanno più che altrove e gli uomini italiani meno che altrove), si analizzano diari quotidiani, ma senza un trasferimento nel campo politico, queste analisi istituzionali rimangono, per dirla con un'espressione della Picchio, "un monumento alla sacrificalità femminile".

Se non vogliamo fermarci alle statistiche bisogna che affrontiamo il problema politicamente, innanzitutto partire dal riconoscimento del fatto che il lavoro domestico e di cura riguarda donne e uomini, perché è il problema della qualità della vita,  non è un problema di donne, e qui si entra direttamente nel cuore delle relazioni  tra donne e uomini.

Inoltre su questo va aperto il conflitto  con il sistema: infatti se è vero che le politiche di conciliazione, di pari opportunità, al pari delle soluzioni individuali (dettate dal grado di privilegio economico e sociale, e determinate dall’intreccio classe-etnia)   permettono a molte donne di sfuggire al destino sociale di casalinghitudine, tutte queste  sono solo strategie individuali di sopravvivenza, vanno bene per vivere, ma non spostano la questione fondamentale, che rimane quella di mantenere viva l’idea che l’attitudine alla riproduzione materiale, psicologica, affettiva di donne e uomini sia una disposizione innata nelle donne, e quindi connaturata al loro essere femmine, e non invece un tratto che pertiene a tutto il genere umano.

Un’ ultima considerazione sulla fase economico-sociale che stiamo vivendo, caratterizzata dalla precarietà, dall’insicurezza di vita e lavoro per tutte e tutti, questa fase, in presenza di  un welfare inadeguato perché legato a condizioni di lavoro ormai in gran parte superate (un welfare che, pur così, viene continuamente e sistematicamente smantellato), rischia di rinchiudere nuovamente le donne nelle case, come succede nei momenti di emergenza sociale.

 

15 aprile da Aldo

Sul dibattito proposto da Adriana vorrei solo dire che mi pare contenga molti elementi che sono difficili da trattare assieme. Mi pare che ci siano almeno cinque ambiti di problemi: a) Il lavoro delle donne immigrate, b) il rapporto tra lavoro, lavoro di cura, affettività, e diversa posizione delle donne e degli uomini a tale riguardo, c) il lavoro di cura e di riproduzione non pagato, d) le trasformazioni generali del lavoro che implica sempre di più coinvolgimento personale, dedizione, flessibilità ecc.e) il propblema del salario sociale o di cittadinanza. Sono ambiti che si intrecciano ma che ritengo debbano essere analizzati separatamente.

 

16 aprile da Adri

Ritengo che la  distinzione degli argomenti vada bene e anzi sia necessaria ai fini e per comodità dell’analisi. Ritengo invece che sul piano politico-culturale vadano colti i nessi che li tengono saldamente uniti e occorra anzi cogliere il loro intreccio,  perché è questo che  incide fortemente  nelle vite concrete di uomini e donne.

 

16 aprile da Aldo

Su quanto dice Paolo sulle trasformazioni del lavoro sono d'accordo. L'economia della conoscenza. Il problema è questo e lo si vede in modo molto semplice. Oggi se una maglia di cotone costa 20 euro, di questi venti euro solo 4 o 5 sono imputabili al costo del lavoro, più la materia prima, più l'ammortamento delle macchine, più le bollette elettriche, più il profitto d'impresa. I restanti 15 euro sono per la pubblicità, il design, il cool hunting, le sfilate, la promozione, la ricerca di mercato,  ecc. Solo 20 anni fa il rapporto era rovesciato ( tutto questo non è una mia valutazione ma dati certi raccolti in un'intervista mia al  bravissimo direttore del personale di Dolce e Gabbana). Questo il problema della catena del valore. Al tempo di Marx il problema non si poneva che in minima parte: 5 euro per la manodopera, le materie prime e le macchine e i restanti 15 per il profitto (schematizzando). Marx vedeva questo e ne traeva le conseguenze: non gli si può dare torto.

L'economia della conoscenza trascina con sé altre cose: la dedizione, la flessibilità, il coinvolgimento emotivo, le relazioni interpersonali. Tutto questo ha indotto i sindacati in tutta Europa a rivedere i sistemi di classificazione del personale con un'ampia sperimentazione in corso. Si va verso nuovi modelli di classificazione del lavoro che tengano conto delle conoscenze e delle sempre più preziose "competenze trasversali" (in Italia gli accordi Aer Macchi e Dalmine).

 

17 aprile da Laura

Il lavoro delle migranti costituisce certamente una nuova forma di schiavismo esercitata più o meno consapevolmente anche da chi schiavista non ritiene di essere. Ed è vero che supplisce alla grande alla mancanza di collaborazione tra i componenti della famiglia, offrendo al maschio un fantastico alibi e alla donna un sollievo, oppure, nel caso delle donne in carriera, la possibilità di realizzarsi. Sempre permettendo al maschio di sentirsi esentato dalle incombenze di famiglia. Anzi, è quasi con un senso di rivalsa che l'uomo ritiene doveroso che ci sia qualcuno - una donna, comunque - che mandi avanti la casa.

Nessun lavoro è stato fatto in questo senso perché ci fosse un progresso culturale che portasse gli uomini a rinunciare all'eterna riproduzione del patriarcato all'interno della famiglia. Naturalmente tendo a generalizzare, per brevità. Sappiamo, però, quanta resistenza oppongano  anche i "compagni" di sinistra  a una divisione dei compiti domestici.

Mi è parso molto interessante il saggio di Pompili sul sex-work. Anche in questo caso, il lavoro di supplenza delle insufficienze di rapporto a livello familiare è affidato alle donne. Lavoro antichissimo, ma oggi gestito molto bene soprattutto dalle migranti, che lo fanno freddamente , in molti casi, per puro lucro.e non comeavrebbero potuto trovare in altro modo e in quella misura. Vedi anche le dichiarazioni della italianissima escort Daddario, che voleva raggranellare fondi per aprire un residence e mettersi negli affari.

La prostituta svolge dunque un ruolo che va ascritto principalmente al valore d'uso. Allevia le tensioni a livello sessuale tra coniugi, dovute a stanchezza e a dinamiche che sono ben note all'interno del matrimonio. La sua finzione affettiva  "tiene insieme" le tensioni e non le fa forse esplodere. Essa è tristemente definibile come un surrogato d'amore, un amore, come la dedizione aziendale, che si spegne al momento del congedo dal cliente. Un lavoro non semplice, forse, anche se il mestiere affina l'arte. Non è un caso che le prostitute più ambite- e meglio ricompensate - siano proprio quelle che sanno parlare, si prestano ad accogliere confidenze e non si limitano alla pura e semplice prestazione sessuale. Ma, scusate se sono brutale, loro sono pagate.

Non vedo soluzione per le casalinghe/donne che hanno anche un impiego, che, al termine della giornata lavorativa, svolgono un multifome e complesso lavoro di cura: basato su implicazioni affettive e su di un'accettazione passiva del ruolo femminile. Esse  restano spesso schiacciate da questo "ricatto" che è anche fonte di orgoglio, ma è pur sempre legato all'amore. Una trappola che non permette di ricevere compenso materiale (quando va bene, vi è una risposta affettiva). Personalmente penso anch'io- rischiando di essere tradizionalista - che reificare l'opera familiare della donna significherebbe svilirla. Al contrario vorrei che davvero si potesse riuscire a raggiungere ciò che già negli anni '70 si chiedeva: l'uguaglianza tra i sessi - pur nella diversità - all'interno della comunità familiare e dunque una suddivisione del lavoro di cura che gli uomini hanno tutto l’interesse a far credere che solo le donne sappiano svolgere.

 

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