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Mercato globale: comprarsi l'Africa PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Martedì 11 Maggio 2010 00:00

di Paolo Rabissi

Il fenomeno dell’acquisto da parte di sempre più numerose nazioni di terreni agricoli soprattutto in Africa è da poco manifesto. Mancano sin qui analisi complessive che sappiano mettere in relazione questo fenomeno con i suoi aspetti sociali, politici e finanziari. Grandi quantità di capitali si stanno mobilitando per questo tipo di operazioni attratti dalla redditività di titoli legati allo sfruttamento dei terreni.

Le  implicazioni di natura sociale e politica di questo fenomeno sono comunque intuitive, da una parte l’immiserimento indotto nelle popolazioni interessate e dall’altra la perdita di sovranità stessa degli stati. Nell'attuale crisi economica globale, commenta un articolo apparso su der Spiegel il 30 luglio 2009 (a firma di Horand Knaup e Juliane von Mittelstaedt) gli investitori stanno cercando approdi sicuri, non solo gestori di hedge fund ed executive dell’industria e dell’agricoltura, ma anche rappresentanti di fondi pensione e persino capi di uffici finanziari di università, Harvard inclusa. Migliaia di fondi di investimento, dal piccolo al grande, hanno iniziato ad applicare la formula base del mondo e della vita: l’umanità deve mangiare, comunque.

Il problema è quello della produzione di cibo. Stando alle previsioni, nel 2050 ci potrebbero essere 9.1 miliardi di persone sulla terra, circa due miliardi in Frida Kahlo Without hope, 1943più. Nei prossimi 20 anni la domanda mondiale di cibo crescerà del 50%. Il cibo diventerà verosimilmente il nuovo petrolio. Le riserve mondiali di grano si sono drasticamente ridotte fino ad arrivare ad un minimo storico all’inizio del 2008, accompagnato da un’esplosione dei prezzi. Proprio come era accaduto per il petrolio durante la crisi degli anni Settanta. Questo è il motivo per cui molti paesi in deficit di terra coltivabile ne hanno avviato l’inedita campagna acquisti soprattutto in Africa. Stando a quanto scrive la giornalista Carla Serchia, su La Stampa del 26 aprile 2009, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Arabia Saudita e Cina hanno già comprato 7,6 milioni di ettari nel 2008, più della metà della superficie agricola coltivata in Italia. La sola Cina ha firmato accordi di cooperazione agricola che hanno portato all'insediamento di 14 aziende di Stato in Zambia, Zimbabwe, Uganda e Tanzania. Entro il 2010, secondo le stime, in Africa sarà stabilmente insediato un milione di agricoltori cinesi. L’obiettivo ufficiale è ovviamente pieno di buoni propositi, ovvero aiutare i Paesi che li accolgono ad aumentare la produzione attraverso le tecnologie cinesi. Ma in effetti, gli analisti concordano, gran parte del raccolto sarà esportato in Cina. Il Paese più popoloso del mondo, infatti, rappresenta il 40 per cento della popolazione attiva agricola mondiale, ma possiede solo il 9 per cento dei terreni coltivabili del pianeta e il governo cinese ha messo la politica di acquisto dei terreni agricoli all'estero tra le priorità. Stesso discorso per il Giappone e per la Corea del Sud che importa già il 60 per cento dei prodotti alimentari dall'estero.

Si tratta in altre parole , come ha affermato lo stesso presidente della Coldiretti italiana Marini, di una riedizione del colonialismo (non più solo europeo!) che peraltro trova consenzienti i paesi che vendono. Un neocolonialismo che non sarà di nessun vantaggio per le popolazioni locali ma anzi tenderà inevitabilmente a strozzare le loro iniziative. Basti pensare alla sottrazione dell’acqua dalle tradizionali attività. Riportiamo qui un articolo apparso nel maggio del 2009 sulla rivista Nigrizia a firma di Sara Milanese, che affronta con lucidità la questione: “I nuovi proprietari dell'Africa sono indiani, cinesi, arabi, sudcoreani. I governi africani stanno vendendo loro la terra migliore, quella coltivabile. Il vertiginoso aumento dei prezzi degli alimentari prima, e la crisi economica poi hanno fatto tremare le vene dei polsi a Dehli, Rihyad, Pechino, Seul: il cibo non sarà "a buon prezzo" per sempre. La necessità di intensificare la produzione agricola ha spinto questi paesi, accomunati dalla voglia di crescere e dalla fame di materie prime, a cercare nuovi spazi, non ancora sfruttati a dovere, per assicurarsi un rifornimento di riso, mais, palme da olio. L'Africa sembra proprio la risposta alle loro esigenze: ricca, fertile, non sfruttata per mancanza di mezzi, e soprattutto, a prezzi stracciati. Un granaio a cielo aperto. Tanto che le vendite e le concessioni dei governi africani agli investitori stranieri sono in aumento. Un fenomeno che non è passato certo inosservato: due agenzie Onu per l'agricoltura, FAO e IFAD, con l'Istituto internazionale per l'ambiente e lo sviluppo (IIED), ci hanno dedicato uno studio focalizzando la situazione in 5 paesi africani: Sudan, Etiopia, Madagascar, Ghana, Mali.

Il rapporto, intitolato 'Land Grab or development opportunity?' ("Incetta di terre o opportunità di sviluppo?") è stato presentato lunedì 25 maggio, e lancia moniti preoccupanti: 2,41 milioni di ettari di terreno venduti negli ultimi 5 anni, nei soli paesi in esame. Un vero e proprio "neocolonialismo", soprattutto perché nella maggior parte dei casi i contratti sono svantaggiosi per i cittadini africani.

Khartoum, Addis Abeba, Accra, Bamako, Antananarivo hanno svenduto, in omaggio con l'acquisto della terra, anche la manodopera per coltivarla, cioè i contadini, in cambio di vaghe promesse della creazione di nuovi posti di lavoro e di infrastrutture: nei testi dei contratti non ci sono clausole vincolanti o precise, secondo lo studio, che prevedano iniziative concrete da parte degli investitori, neppure che riguardino il controllo o la verifica degli impegni sottoscritti. La durata delle concessioni è di 30, 40, anche 90 anni, ma gli accordi prevedono affitti ridicoli: dai 2 ai 10 dollari per ettaro, in Sudan o in Etiopia. Non tengono conto della complessità economica e sociale delle realtà africane, sono appiattiti sulle esigenze spicce degli investitori; nessun riferimento nemmeno alla sicurezza alimentare delle popolazioni locali, alle quali viene destinata solo una minima parte dei raccolti. Le prospettive non promettono niente di buono, anche se le agenzie delle Nazioni Unite sottolineano come in questo modo molti dei terreni non sfruttati diventeranno produttivi. Il che significa anche impianti di irrigazione e allacciamenti di energia elettrica, e posti di lavoro, ma solo come bassa manovalanza: la gestione è affidata a tecnici e amministratori che vengono dall'estero.

Gli africani stanno velocemente perdendo il loro bene più prezioso: la terra. Che potranno lavorare e non possedere, e di cui mangeranno i frutti solo in parte. E con la terra rischiano di perdere anche altre risorse, a partire dall'acqua. Senza contare le consuetudini legate alla pastorizia, all'allevamento, alle attività di raccolta tradizionali. E infatti lo studio avverte: le popolazioni non devono esser tagliate fuori dalle decisioni, devono essere coinvolte negli accordi. FAO, IFAD e IIED lanciano inoltre un appello agli investitori locali, che devono essere più presenti in queste operazioni. Il fenomeno è massiccio, non riguarda solo l'Africa, e non si può fermare, anche perché rientra nella logica globale di prevenzione delle crisi alimentari con l'aumento della produzione. Ma va controllato, e regolato, soprattutto per tutelare le comunità locali e l'ambiente.

Di sicuro non tutti sono disposti a vedersi rubare la terra da sotto i piedi: in Madagascar il contratto stipulato tra la sudcoreana Daewoo e il governo dell'ex presidente Marc Ravalomanana ha subito suscitato enormi polemiche tra i contadini, tanto da diventare la miccia di una crisi istituzionale. La Daewoo aveva ottenuto la concessione di 1,3 milione di ettari per 99 anni; prevedeva la coltivazione intensiva di palme da olio e di mais. Il malcontento popolare è stato sapientemente cavalcato dall'opposizione, che è riuscita a costringere Ravalomanana alle dimissioni, e ha imposto il leader del fronte opposto, Andry Rajoelina, alla guida del paese. La situazione è ancora instabile e una soluzione sembra lontana, ma almeno per ora la Daewoo ha sospeso i suoi progetti. In attesa probabilmente di tempi migliori.”

 

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