di Adriana Perrotta Rabissi
La riflessione di un matematico e di un filosofo sulla possibilità di fondare una teoria e una pratica volte a superare l’attuale sistema economico e politico, coniugando una categoria marxiana con la teoria della decrescita.
La dimensione attuale di sacrificio di persone (sia in riferimento a diritti e libertà, anche minime acquisite negli ultimi decenni, che a relazioni sociali, collettive e individuali ), di sacrificio di animali e di cose (risorse ambientali) costringe a prendere in considerazione qualunque ipotesi non dico di eliminazione, ma almeno di rallentamento di questo consumo rapido, rapace e distruttivo del pianeta e dei suoi abitanti, in nome dello sviluppo economico.
Di qui il ricorso frequente al termine decrescita nei numerosi saggi di studiose e studiosi dello stato di cose presenti, che ha sostituito l’espressione sviluppo sostenibile, rivelatasi un ossimoro.
Nel numero scorso abbiamo pubblicato un’intervista di Benedetto Vecchi a Serge Latouche, uno dei principali sostenitori della proposta teorica e politica che sembra per ora l’unica in grado di superare il modello produttivo attuale, tipico della società capitalistica, responsabile di una crescita dissennata, che si è progressivamente esteso, con le buone e/o con le cattive, a tutto mondo.
Segnaliamo in questo numero il libro di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, Marx e la decrescita. Perché la decrescita ha bisogno del pensiero di Marx, Trieste, Abiblio, 2010, testo che apre una prospettiva secondo me rigorosa sulla questione, sottraendola ai facili entusiasmi nei confronti di un’ipotetica e anacronistica società bucolica da un lato, e ai catastrofismi di chi vi legge invece atteggiamenti di ascendenza luddista, con conseguente ritorno a un’età buia (nel senso di scarsa illuminazione) e misera di beni e servizi dall’altro.
Già nell’introduzione i due autori avvertono dell’ inimicizia tra coloro che “ continuano a ricavare ispirazione dal pensiero di Marx e coloro che in tempi recenti hanno iniziato a teorizzare la decrescita […] i primi tendono a vedere la decrescita, nel migliore dei casi, come un’aspirazione soggettiva di natura socialmente ambigua, mentre i “decrescisti” vedono nel pensiero di Marx nient’altro che una versione “di sinistra” dell’idolatria dello sviluppo che oggi domina il mondo e contro cui intendono combattere” (p. 9).
I due studiosi partono dalla constatazione che dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso non si è più data la correlazione, fino ad allora acquisita, tra allargamento della scala di produzione di merci e diffusione del benessere economico, ampliamento della libertà individuale, avanzamento dei costumi e delle conoscenze, infatti l’incremento della produzione di merci ha da allora ridotto libertà individuali, risorse per la tutela di fasce deboli delle popolazioni, diritti del lavoro, diritti di mobilità, benessere della maggioranza delle popolazioni.
Il discorso però non è quello di fruire di un numero minore di servizi o beni, ma di limitare la produzione e il consumo di merci (nel senso marxiano del termine: bene o servizio prodotto per il mercato in vista di un profitto e dotato quindi di un prezzo (p. 11).
Attraverso una veloce sintesi delle categorie marxiane, ancora valide per leggere il presente, Badiale e Bontempelli intendono dare vita a una convincente fondazione teorica della decrescita (p. 17).
A questo fine ricorrono alla teoria del modo di produzione capitalistico, che permette di individuare la struttura logica sottesa alla attuale fase di sviluppo del capitalismo, definito -capitalismo assoluto-, e le sue contraddizioni da fare esplodere.
Osservano infatti che oggi la contraddizione fondamentale risiede nella devastazione contemporanea di società e natura, che mette in crisi il tradizionale rapporto tra condizioni per la creazione di plusvalore (sfruttamento della natura) e condizioni per realizzarlo (stabilità necessaria per incrementare il consumo di merci), così “le lotte contro la devastazione capitalistica della natura, le lotte delle comunità invase e sconvolte da vari tipi di interventi capitalistici, le lotte in difesa del territorio contro le grandi opere, rappresentano in questa fase storica l’esplicitarsi della contraddizione fondamentale del capitalismo e hanno, se condotte con coerenza, una valenza oggettivamente anticapitalistica (qualsiasi sia la coscienza di chi è coinvolto in esse) perché rappresentano un ostacolo all’accumulazione allargata del plusvalore” (p. 37).
Mentre “la teoria della rivoluzione di Marx [non può] rappresentare la base teorica per l’anticapitalismo contemporaneo” (p.27).
Infatti una brevissima rassegna delle lotte condotte dalle classi sfruttate (nel senso marxiano del termine di produttrici di plusvalore) in vari momenti storici ci conferma del fatto che: “ Le classi sfruttate sono certo capaci di lotte e ribellioni, ma non hanno mai, proprio mai, rivoluzionato il modo di produzione, cioè indotto e gestito il passaggio da un modo di produzione all’altro” (p. 25).
Così è stato anche per la classe operaia nelle rivoluzioni del XX secolo; perché la classe operaia (o proletariato in senso lato) è interna al funzionamento del modo di produzione e di conseguenza non può avviare un processo di superamento del sistema stesso, mentre può organizzarsi e lottare contro il proprio sfruttamento, come in effetti ha fatto e ancora fa.
Il fondamento del modo di produzione capitalistico è l’accumulazione illimitata, in relazione a essa osservano i due autori: “…la tendenza all’accumulazione illimitata […] conduce, alla fine, all’estensione del rapporto sociale capitalistico a tutti gli ambiti della società, anche a quelli la cui logica di funzionamento è del tutto incompatibile con esso ( la scuola, per esempio). Fino a qualche decennio orsono nei paesi capitalistici la subordinazione alla logica del rapporto sociale capitalistico dei vari ambiti sociali esterni all’impresa capitalistica rappresentava un loro vincolo esterno, mentre al suo interno ogni ambito non aziendale continuava a funzionare secondo la sua logica specifica, diversa da quella del profitto. La novità che è intervenuta negli ultimi decenni sta nel fatto che tutte le sfere della società sono sussunte alla logica dell’accumulazione capitalistica, per cui la scuola è diventata un’azienda, gli ospedali sono diventati aziende, ed è diventato un’azienda anche lo Stato, che non è più ‘Repubblica italiana fondata sul lavoro’, ma appunto ‘azienda Italia’”(pp.29-30).
La teoria marxiana del modo di produzione capitalistico, che ha svelato la natura del sistema fondato sull’allargamento continuo della produzione e del consumo (in ragione della sua necessità di sopravvivenza), trova un’alleanza evidente con la teoria della decrescita, che si presenta attualmente come possibile elemento destrutturante del modo di produzione basato sull’accumulazione illimitata, perché prevede proprio la graduale sostituzione di merci con beni e servizi non mercificati., nelle varie forme e tempi in cui è possibile realizzarla, nei diversi contesti locali, senza modelli precostituiti e universali.
Se riflettiamo sulla pubblicistica economico-sociale e politica, specie dell’ultimo decennio –di destra come di sinistra- , ci accorgiamo che sempre più la dinamica dell’ accumulazione illimitata viene presentata come una legge di natura, per nasconderne la valenza di scelta politica da parte dei gruppi dominanti, e indurre al contempo sfiducia nelle reali possibilità di combatterla; i fenomeni di globalizzazione avanzata contribuiscono a rinforzare questa credenza nelle opinioni pubbliche del primo, secondo, terzo e quarto mondo.
D’altra parte il malessere, non solo economico e sociale provocato dalla situazione, ma anche psicologico ( dal momento che impoverisce anche la vita affettiva e relazionale, oltre a distruggere ambiente, persone, formazioni sociali, animali, cose, come abbiamo visto) genera resistenze ad opera di gruppi vari in varie parti del mondo, resistenze sulle quali, a parere di Bontempelli e Badiale, si può “radicare una forza anticapitalistica” (p. 30).
A questo punto il discorso si complica nell’affrontare la dimensione più politica dell’analisi; un riferimento a forme di resistenza in Italia coinvolge ad esempio le proteste popolari contro le grandi opere che devastano il territorio (p.30); tuttavia è presente agli autori la complessità del problema.
Purtroppo il lavoro anche di solo collegamento e coordinamento delle lotte che si manifestano in varie forme appare immane e ricco di insidie, a causa delle modificazioni di contesto rispetto alle lotte tradizionali.
Ad esempio chi, sulla base della pratica tradizionale, ritiene necessario individuare il rapporto tra potenziale oggettivo delle lotte e coscienza soggettiva dei protagonisti delle lotte stesse, corre il rischio di restare sconcertato di fronte all’emergere di gruppi che sembrano mossi da istanze di puro egoismo sociale.
Inoltre, rispetto alle lotte tradizionali anticapitalistiche, non si individua oggi un soggetto antagonista determinato a priori dal modo di produzione, o dai rapporti sociali dati, perché i soggetti si costituiscono temporaneamente e trasversalmente alle varie fasce sociali; da questa impossibilità di cogliere in ogni episodio di resistenza il soggetto antagonista per eccellenza, dato una volta per tutte, derivano seri problemi di organizzazione di lotte stabili.
Inoltre c’è da osservare un’ulteriore modificazione di contesto rispetto allo scenario delle lotte tradizionali anticapitalistiche di ispirazione marxista: mentre in quel caso si trattava di spingere al massimo i processi di sviluppo delle forze produttive per provocare l’esplosione delle contraddizioni in seno al capitale, i movimenti di resistenza contemporanei contestano “ immediatamente lo sviluppo capitalistico, ed è proprio questa l’unica prospettiva sulla quale abbia senso basare oggi una forza politica anticapitalistica (p.31) “, se condividiamo l’analisi delle forme che ha assunto oggi la contraddizione fondamentale dello sviluppo capitalistico.
In questo senso la teoria della decrescita appare l’unica proposta in grado di dar vita a prospettive reali di lotta, a patto di non nascondersi non solo la lentezza di certi processi, la difficoltà di governarli, ma anche i rischi comportati dalla reazione a quello che si verrebbe a configurare come un mutamento radicale dell’organizzazione sociale da parte di chi ha tutto l’interesse a mantenere l’attuale ordine economico e sociale. |