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Attorno a Tolstoj sulle tracce di una morale della libertà PDF Stampa E-mail
Rubriche - Letture e spigolature
Mercoledì 26 Gennaio 2011 00:00

di Aldo Marchetti

Il 7 novembre del 1910 moriva nello sperduto villaggio russo di Astapovo l'ottantaduenne Leone Tolstoj. Era fuggito da casa nella notte tra il 27 e il 28 ottobre abbandonando moglie e figli e infilandosi di nascosto in un vagone di seconda classe. Quello sconosciuto villaggio diventò per qualche giorno il centro del mondo perché alla notizia del suo decesso arrivarono da tutti i paesi, giornalisti, fotografi, cineoperatori, curiosi, seguaci e ovviamente famigliari e amici. Cent'anni dopo la ricorrenza: in Italia qualche libro, alcuni articoli di giornale e una settimana di letture a Rai-3. Le riflessioni di Tolstoj sulla condizione operaia e contadina, sulla violenza dello stato e delle sue istituzioni, sulla barbarie della guerra, sulla cecità della religione e sulla ipocrisia dei costumi nel mondo borghese sono fatte per il suo secolo come per il nostro. Su questo terreno il pensiero di Tolstoj ha incontrato quello degli spiriti critici più alti del suo tempo tra cui il Mahatma Gandhi che con lui intrattenne un breve carteggio. Questo breve saggio intende rendere omaggio al grandissimo scrittore e all'ancora più grande sua personalità morale ricordando la ricchezza e la complessità del suo pensiero sociale e della sua anima critica.

Può essere curioso sapere che chi sta scrivendo queste note, a cent'anni dalla morte di Tolstoj, ha potuto acquistare a un prezzo assai modesto, sulle bancarelle di antiquariato che la domenica mattina vengono improvvisate nei pressi del Cordusio al centro di Milano, una serie di suoi opuscoli di polemica civile, pubblicati tra il 1901 e il 1906 da piccole case editrici italiane di orientamento socialista. Uno di questi, edito dalla Società Editrice Partenopea, si intitola Lotte politico-sociali e contiene alcuni articoli sulla situazione politica della Russia, sul compito della classe di governo, sulle condizioni dei lavoratori e una lettera allo Zar in cui viene richiesta l'abolizione della proprietà fondiaria e la distribuzione della terra ai contadini. 

 

Lev Nikolaevi? Tolstoj
La prefazione è a cura di tale Borrelli (quasi certamente uno degli intellettuali che allora si avvicinavano al movimento operaio) il quale, a proposito dello scrittore russo, osserva: “L'età ventura ne rammenterà il nome glorioso di apostolo e di letterato, rammenterà il suo apostolato pratico, rammenterà l'opera sua altissima di romanziere e di artista, ma la sua propaganda sociologica verrà dimenticata, pel grave distacco con la realtà delle cose”(1). Ma allora, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, gli scritti sociali e religiosi di Tolstoi venivano tradotti con tempestività in tutti i paesi europei e distribuiti in migliaia di copie (lo stesso opuscolo di cui sto parlando, sotto il titolo, porta la dicitura: Secondo migliaio) mentre i romanzi che gli hanno garantito un'eterna celebrità (Guerra e pace e Anna Karenina) restavano quasi invenduti poiché erano considerati troppo aristocratici e destinati a una cerchia ristretta di lettori: “Le sue opere polemiche religiose e sociali  ne hanno così diffusa la fama, che oggi non solo in Francia, ma persino in Italia, il paese dove meno si legge, le opere ne vanno a ruba. E si discutono e si ammirano e si riprovano con crescente ardore...”(2). L'influenza morale che Tolstoj ha esercitato sulla società europea dei primi decenni del secolo scorso è oggi difficilmente comprensibile ma oltre a essere stata molto ampia dovette durare parecchio nel tempo se ancora nel 1942 Paolo Giotti, figlio del poeta triestino Virgilio Giotti, soldato nel corpo di spedizione italiano in Russia come interprete di russo (la moglie di Virgilio era russa e aveva insegnato la sua lingua ai figli), in una lettera al padre, parlando delle molte persone del popolo con cui aveva avuto contatto, osserva: “E' caratteristico che Dostoevskij non è niente amato, sanno che è il più grande ma non lo leggono, leggono Tolstoj, Puskin, Checov, Gorki. Conoscono molto bene la musica russa e gli scrittori russi, le opere morali di Tolstoj le conoscono a memoria...”(3).

 

Ma alla fine la profezia del Borrelli ha trovato il suo compimento. Oggi nessuno legge più le opere polemiche di Tolstoj, che sono del resto introvabili, mentre ne permane una pallida eco spesso associata a quel che di scontroso e caparbio c'è stato nella sua figura di vecchio alla ricerca, potremmo dire, dell'autenticità, sino all'ultimo giorno della vita e in continua polemica con il mondo e con moglie e figli, ragionevolmente preoccupati (stando a un'aneddotica ormai affermata) di far quadrare il bilancio famigliare.

In questo breve scritto non si vuole ritornare sul tragitto intellettuale dello scrittore russo (già tante volte percorso dai suoi biografi) culminato, alla fine degli anni '70 dell'Ottocento, in quella che viene definita una conversione religiosa, ma si vuole riflettere piuttosto su alcuni aspetti del suo pensiero politico e sociale, sul contesto culturale e morale europeo in cui si inserì e sull'influenza che esercitò nei primi decenni del secolo scorso. Più precisamente ci si vuole soffermare su quegli intrecci di cultura letteraria e morale che si costituirono in quegli anni e che sarebbe riduttivo ricondurre al pacifismo e alla non violenza poiché affrontavano, come vedremo, un insieme di problemi assai più complesso e vario. Di questi intrecci Tolstoj rappresentò uno dei nodi più importanti ma non l'unico: se la sua influenza sugli altri fu rilevante, quella di altri su di lui non fu trascurabile. E' quindi un certo clima che si respirava attorno a Tolstoj ciò che ci appare interessante rievocare dopo un secolo dalla sua scomparsa.

Per il nostro scopo, del percorso umano di Tolstoj è utile ricordare che la sua crisi interiore, che ha certo coinvolto la vita religiosa, è stata nondimeno una vera e propria metanoia: un cambiamento completo nel modo di guardare la realtà e di confrontarsi con essa, che lo ha portato a vivere in modo diverso e che ha coinvolto il suo ruolo di scrittore, al punto da fargli considerare futili i romanzi sino allora scritti (si tratta  di alcuni tra i più bei romanzi mai scritti) e da dedicarsi a opere critiche e a racconti a sfondo sociale. Lo straordinario fascino degli ultimi tre decenni della vita di Tolstoi sta proprio in questa rara convergenza di altissima arte e testimonianza morale. In questa ricerca, certo, ci fu anche spazio per il compromesso e per la consapevolezza del divario che esisteva tra i principi proclamati e le difficoltà concrete a praticarli. Questo è stato il tormento di Tolstoj. Lo ammise lui stesso in una lettera di risposta a uno studente che lo rimproverava per la contraddizione tra i principi di povertà e autosufficienza che andava affermando e il benessere, ancora garantito dalle rendite fondiarie di cui godeva.

Dagli anni della crisi in poi e sino all'ultimo momento della vita non c'è stata istituzione o costruzione sociale che non sia passata attraverso un esame critico che dovette presentarsi alla sua coscienza come un susseguirsi tumultuoso di scoperte. Non solo la religione ma lo stato, la giustizia e il sistema carcerario, la guerra e il servizio militare, il sistema economico con lo sviluppo dell'industria e i processi di inurbamento, i rapporti tra le classi, la famiglia, le ideologie (comprese quelle allora nascenti che promuovevano l'emancipazione sociale) furono esaminati con quel realismo che faceva parte del suo talento di narratore e che venne impiegato con rinnovata energia per liberare la vita collettiva dalle concrezioni storiche, sedimentate per ipocrisia, opportunismo, ossequio alle convenzioni, che ne oscuravano il senso più profondamente umano. Ne derivò un metodo critico che procedette per decostruzione e demistificazione. Non si trattò certo per Tolstoj di presentare una nuova teoria sociale: l'argomentazione spesso è scarna e molte delle sue affermazioni appaiono approssimative e poco fondate, ma ciò che importava in questo procedimento era ridurre ogni questione al suo nucleo essenziale contando sul fatto che solo ciò che è semplice può essere convincente. Tuttavia era argomentazione nel senso più alto della parola: ragionamento che confida nella capacità di mettersi in gioco da parte di chi ascolta, nella fiducia nell'intelligenza dell'altro. Nulla di più innovativo e democratico in un paese come la Russia zarista: un luminoso tentativo di costruzione dell'opinione pubblica. Ma per Tolstoj la Russia di quel periodo non rappresentava solo il paese arretrato e dispotico che avrebbe dovuto rammodernarsi, sul modello delle democrazie europee più evolute, essa era lo specchio delle contraddizioni in cui si dibatteva l'umanità intera. La sua era una critica del suo paese a cavallo dei due secoli non meno di ogni altra conformazione statuale più moderna e all'apparenza più emancipata.

Lo stato zarista poteva apparire particolarmente ottuso e sinistramente burocratico ma per Tolstoj era la stessa forma dello stato che andava messa in discussione: “Lo stato è una costruzione artificiale nocevole (sic) e pericolosa perché con esso il male che è nella società invece di diminuire e correggersi si accresce e si afferma”(4). Non solo lo stato non previene e non combatte l'ingiustizia ma la crea e la moltiplica difendendo la proprietà privata e conferendo un carattere permanente e stabile alle differenze di classe. In questo ruolo, che troverà eco nella definizione weberiana dello stato come monopolio della violenza: “I governi come le chiese non possono ispirare che pietà o disgusto”(5) e le leggi, ossia gli strumenti concreti dell'esercizio dell'ingiusto potere dello stato, altro non sono che: “regole stabilite da uomini chi si appoggiano sulla violenza organizzata, regole che si debbono osservare sotto pena di percosse, di prigione o anche di morte”(6).

L'opposizione di Tolstoj a ogni tipo di governo, emerse in modo chiaro nelle opinioni  espresse all'indomani della manifestazione del 15 febbraio del 1905 a Pietroburgo, che culminò nell'intervento dell'esercito e il massacro di un migliaio di dimostranti: ”L'importanza di quanto accadde a Pietroburgo non è già nell'averci rivelato il vizio del dispotismo, come crede la gente superficiale cui sorride il governo rappresentativo, bensì nell'averci mostrato, grazie all'azione del governo russo singolarmente stupida e brutale, con più evidenza che non facciano gli altri governi, il danno e l'inutilità di qualunque governo o, in altri termini di qualunque riunione di uomini che dispongono di mezzi per sottomettere alla volontà propria la massa del popolo..... L'opera nostra, non meno che quella di tutti i popoli asserviti, non deve consistere nel sostituire un governo all'altro  bensì nella soppressione di qualsiasi governo”(7). Risulta anche evidente da queste parole la diffidenza dello scrittore russo nei confronti di ogni tentativo riformista. Non sarà la sostituzione di un governo autoritario con uno democratico e più rappresentativo a risolvere i problemi della strutturale asimmetria di potere tra stato centralizzato e sudditi poiché: “Anche i socialisti e i rivoluzionari, i quali considerano l'organizzazione amministrativa attuale modificabile, riconoscono l'autorità, cioè il diritto e la possibilità di alcuni di costringere altri a sottomettersi alle leggi stabilite quali condizione sine qua non dell'ordine sociale”(8).

Nel rifiutare ogni forma di governo tuttavia Tolstoj si tenne lontano anche dalle più classiche dottrine anarchiche del suo tempo che ai suoi occhi apparivano sprovviste di quel riverbero spirituale decisivo nella lotta contro ogni potere cioè quella religiosità popolare che avrebbe dovuto spingere ognuno al perfezionamento interiore come propedeutico a una società senza autorità e senza leggi. Alle leggi umane avrebbe dovuto subentrare la sola regola sufficiente a reggere ogni rapporto privato e sociale: quella del rispetto reciproco, enunciata nel Discorso della montagna del Vangelo secondo Matteo. Una rivolta etica degli individui, estesa per forza dell'esempio a tutta la collettività, appariva quindi a Tolstoj come la risposta più coerente ai problemi dell'ingiustizia sociale e della violenza del potere. Ma altre volte lo scrittore sembrò attingere piuttosto a modelli sociali più vicini, come l'organizzazione delle comunità cosacche lungamente studiate nelle sue ricerche a carattere antropologico sulla Russia tradizionale. I riferimenti ideali andavano quindi ai villaggi contadini del Sud del paese, lontani dal potere centralizzato dello Stato e autogovernati, dove la giustizia veniva amministrata in modo patriarcale secondo i valori tradizionali della lealtà reciproca e del rapporto personalizzato: “Agli uomini non occorre d'essere protetti colla violenza per godere tranquillamente di quanto è necessario alla vita ed essi han creato col lavoro: codesto diritto è sempre stato sufficientemente assicurato dalla consuetudine, dall'opinione pubblica, dal sentimento di giustizia e di solidarietà sociale”(9).

Se la forma stato con il corredo delle leggi andava abolita come fonte d'ingiustizia sociale a maggior ragione dovevano essere messi in discussione la pena di morte e più in generale i sistemi giudiziario e penitenziario, argomenti di una indagine minuziosa in Resurrezione, che per alcuni versi sembra anticipare addirittura il metodo adottato da Goffman nelle sue ricerche sulle istituzioni totali. La distinzione di Goffman tra palcoscenico, come luogo della celebrazione del rito, con cui l'istituzione pubblica deve presentarsi tecnicamente obiettiva, e retroscena dove al contrario le relazioni tra persone e ruoli avvengono secondo criteri personalizzati e casuali è presente lungo tutto il racconto del processo a Katiusa Màslova (innocente ma condannata per un cavillo legale) e del funzionamento dei diversi carceri attraverso i quali passerà, dopo la condanna, nel suo viaggio verso la Katorga. Inoltre che il crimine sia più una produzione sociale che una colpa del singolo (teoria che sarà elaborata da buona parte della scuola sociologica di Chicago e sarà presente nel funzionalismo di Merton) diventa evidente a Tolstoj, che indossando le vesti di Nehljudov e inseguendo la Maslova nel suo viaggio penitenziale ha occasione di approfondire la conoscenza di condannati comuni e politici, uomini e donne, sino a concludere che esistono cinque tipi di detenuti cosiddetti criminali: gli innocenti (condannati per errore); quelli che hanno commesso reati in condizioni eccezionali (nelle quali anche coloro che li giudicano avrebbero fatto le stesse cose); coloro che hanno agito in buona fede (seguendo criteri che apparivano giusti ai loro occhi ma che appaiono ingiusti a quelli della Giustizia ordinaria); quelli che hanno una levatura morale più elevata della media della società (come gli aderenti alle sette religiose, i socialisti e i rivoluzionari); quelli infine “nei confronti del quali la società era molto più colpevole di quanto loro non lo fossero nei confronti della società stessa cioè... gli individui abbandonati a se stessi o abbrutiti dalle violenze e le angherie che avevano subito”(10). Sulla pena di morte infine l'opinione di Tolstoj è molto chiara. Ricorda Milone nel suo recente libro intitolato Tolstoj e il rifiuto della violenza: “Nel marzo del 1881, dopo aver appreso la notizia dell'attentato allo zar Alessandro II, Tolstoj scrive al successore, Alessandro III, chiedendogli di risparmiare la vita al responsabile della morte del padre.... la lettera non viene consegnata allo zar e l'esecuzione ha corso ma Tolstoj non si dà per vinto e inizia una campagna contro la pena di morte che proseguirà sino agli ultimi giorni della sua vita”(11).

Resurrezione è stato definito da Romain Rolland “uno dei più bei poemi di compassione umana” ed è proprio all'incrocio dei sentimenti di pietà per l'uomo e di avversione per la violenza delle grandi istituzioni di potere che si pongono anche l'antimilitarismo e il pacifismo di Tolstoj che del resto non attesero la sua crisi morale per manifestarsi se si pensa come nell'ultima parte di Guerra e pace lo scrittore si sia impegnato a smantellare pezzo per pezzo il mito bellicista di Napoleone Bonaparte (considerato più una vittima che un protagonista del proprio destino) contrapponendogli la figura paziente e fatalista, di uomo del popolo e di vecchio contadino, del generale Kutuzov. E' proprio nel mezzo della guerra russo giapponese che il pacifismo di Tostoj assume i toni più decisi (il governo zarista perseguitava gli editori che pubblicavano i suoi scritti e  ne  impediva la divulgazione ma non aveva il coraggio di imprigionare lo scrittore per il seguito che aveva nell'opinione pubblica in Russia e all'estero). Nell'opuscolo intitolato Contro la guerra russo giapponese (scritto nel 1904 e pubblicato nello stesso anno in Italia) si rivolse contro la stampa di regime che stava sostenendo gli sforzi bellici del governo zarista: “Tutti questi discorsi svergognati, menzogneri sulla devozione al monarca, l'adorazione per lui, il desiderio di sacrificare la propria vita, tutte queste promesse.... questi giornali malvagi e svergognati....tutto ciò non è che un indice della coscienza della criminalità di quest'opera orribile che si commette e l'istigatore di tutto questo è lo zar”(12). Possiamo facilmente immaginare l'effetto di queste parole nella Russia imperiale impegnata in guerra, così come di queste altre indirizzate contro: “ la menzogna del patriottismo per cui uomini orribili, immorali, crudeli che si chiamano generali e ammiragli hanno annegato migliaia di giapponesi pacifici e sono egualmente descritti come autori di eroiche gesta che devono inorgoglire i russi... E in tutti i giornali si pubblica un appello terribile all'assassinio.....e tutto ciò avviene come se il cristianesimo e il buddismo non fossero mai esistiti”(13). Ma già alcuni anni prima, nel 1901, nello scritto Non indurre in tentazione, rivolto agli ufficiali dell'esercito zarista, veniva denunciato l'uso dell'esercito in ordine pubblico: “E orribile essere assassini ma è più orribile condurre all'assassinio dei fratelli i quali hanno fiducia in voi. Ecco che cosa fate o signori ufficiali dello Czar ed ecco qual è il servizio che rendete all'Impero”(14).

L'attitudine alla critica politica e religiosa maturata nel corso del tempo, unita all'impegno di ricerca sociale che da sempre accompagnò e alimentò la sua attività di narratore si rivelano infine negli scritti dedicati alla questione operaia e contadina. In Tolstoj la denuncia delle condizioni di lavoro del moderno proletariato di fabbrica non è mai stata disgiunta dalla riflessione sui processi di immiserimento del ceto contadino, sull'inurbamento dei poveri e sulle condizioni di vita nelle grandi città. Si tratta di aspetti diversi di un medesimo problema: quello dello smarrimento dei valori religiosi e morali delle tradizionali comunità contadine attraverso i percorsi della modernizzazione.

Che la città sia un luogo di perdizione, disgregazione etica e  perdita del senso comunitario è una convinzione sempre e ovunque presente nel mondo contadino. Era viva nell'antichità e perdura inalterata nel nostro tempo(15). Essa ha una sua estensione peculiare nell'opinione, diffusa nelle piccole città, che siano le grandi metropoli a condurre allo sbando chi vi si avventura arrivando dai  centri minori. Questa convinzione era forse particolarmente viva nella letteratura ottocentesca (attraversa, per fare un esempio, tutto il romanzo di Balzac) e nella nascente sociologia di fine secolo (Simmel, Tonnies, Durkheim). Il binomio polare campagna-città infatti rinvia a quello comunità-società: la campagna è luogo dei rapporti di fiducia, della lentezza, della fratellanza, della permanenza, della solidarietà; la città è sede del contratto anonimo, della velocità, del cambiamento, del conflitto. In questo complesso schematico, pur senza idealizzare il mondo contadino, Tolstoj non ebbe dubbi sul versante su cui schierarsi. Egli assunse con convinzione il punto di vista del mondo tradizionale contadino e artigianale russo. I processi di inurbamento e di industrializzazione in quest'ottica furono interpretati come effetti della dissoluzione di quel mondo la cui restaurazione sembrava essere la sola soluzione al trauma della modernità.

Tolstoj trattò diffusamente della condizione contadina e operaia nell'opuscolo La moderna schiavitù scritto nel 1900 che inizia con la denuncia delle condizioni di lavoro degli operai che lavoravano sulla linea ferroviaria Mosca-Kazan e ritornò su questo argomento nello scritto Dov'è l'uscita? : “Noi tutti conosciamo quali terribili effetti eserciti l'industria moderna. Tuttavia (gli operai industriali N. di R.) non sono stati costretti a ciò ma sono stati spinti dai loro genitori e dai loro parenti ad abbandonare i loro villaggi. La causa del loro miserabile stato non è la concentrazione capitalista dei mezzi di produzione, epperò bisogna cercarla fra i motivi che li hanno cacciati dai loro villaggi. A causa delle imposte e dei prezzi alti dei generi di largo consumo i contadini sono costretti a vendere le loro terre e a emigrare in città e si disabituano alla patriarcale semplicità della loro vita. I costumi viziosi delle città propagansi (sic) fra i contadini da poco emigrati dai loro villaggi.....in città, nelle fucine e nelle fabbriche, altri uomini fisicamente e moralmente corrotti da un lavoro monotono, incessante, antigienico opposto alla natura loro, servono quali schiavi i grossi industriali.....in città divengono forse più ricchi ma anche e più viziosi e via via maggiormente incapaci a compiere qualsiasi altro lavoro all'infuori di quello al quale sono abituati la qual cosa ancora di più li pone alla mercè delli industriali”(16).

La consapevolezza del dramma operaio è acuta quanto quella del mondo rurale russo ed anzi, Tolstoj riuscì anche a scorgere all'orizzonte il destino della classe lavoratrice urbana imprigionata nel circolo vizioso del consumismo, e tuttavia giunto a questa soglia la sua analisi si arrestò: invece di cogliere l'inevitabilità della transizione dal mondo contadino a quello industriale egli auspicò un percorso a ritroso che dall'industria riportasse a una civiltà rurale, anche se riformata e liberata dalle peggiori tare storiche: “ In questi ultimi tempi vennero diminuite le ore di lavoro, aumentati i salari e tuttavia io non vedo alcun miglioramento nella condizione dei lavoratori, poiché per la felicità della loro vita, importa ben poco ch'eglino possano crearsi abitudini di lusso, procurarsi orologi, fazzoletti di seta, tabacco, acquavite, carne, birra, ma soltanto che possano ricuperare infine la salute, la moralità e la libertà soprattutto”(17). In altre parole: “ il loro dramma è di non poter vivere una vita normale, in piena natura, costretti a penare per altri in un lavoro sempre eguale e comandato”(18). Ciò che bisogna sottolineare in questo passo è la riflessione sull'inevitabile svantaggio del lavoro di fabbrica in quanto lavoro subordinato (posizioni simili, va ricordato, sono state sostenute anche di recente da André Gorz) e sullo snaturamento della condizione umana che deriverebbe dalla mancanza del rapporto tra uomo e natura (la piena natura) nell'esercizio del lavoro.

Tolstoj non ignorò le opere di Marx e anzi nei suoi scritti dimostrò di averne una discreta conoscenza così come mostrò di essere buon conoscitore delle condizioni del lavoro di fabbrica avendo osservato le industrie tessili vicine alla sua residenza di campagna e tuttavia ritenne che l'industrialismo fosse un incidente storico di percorso sulla strada della piena realizzazione di una società contadina. Certo le fabbriche sarebbero continuate a esistere ma se ne poteva regolare lo sviluppo attraverso le riforme che avrebbero arginato l'esodo dalle campagne: l'abolizione del latifondo, la distribuzione della terra ai contadini, la riduzione delle tasse legate alla produzione agricola e l'usura. In una lettera allo zar scrisse: “Caro fratello, in Russia, dove la maggioranza della popolazione trae i mezzi di sussistenza dalla terra o dipende completamente dai proprietari di fondi, l'affrancamento dei lavoratori non potrebbe effettuarsi per mezzo dell'unione delle fucine e delle fabbriche; il popolo russo può raggiungerlo solo con l'abolizione della proprietà fondiaria e col riconoscere la terra come bene nazionale.... è evidente che la schiavitù della classe lavoratrice non potrà essere abolita sino a che i governi garantiranno la proprietà privata della terra a chi non la coltiva, imporranno tasse dirette e indirette e difenderanno la proprietà dei capitalisti”(19).

Ciò che la memoria collettiva ricorda soprattutto di Tolstoj è l'opposizione alla violenza, mentre gli obiettivi sociali di eguaglianza e giustizia per il conseguimento dei quali la non violenza avrebbe dovuto essere veicolo sembrano essere stati dimenticati. Strana ed equivoca smemoratezza poiché invece per lo scrittore russo strumenti e obiettivi erano la stessa cosa. Si può discutere della loro adeguatezza agli scopi prefissati ma separare fini e mezzi significa scarnificare il suo pensiero e renderlo sterile o moralistico. Peraltro il termine pacifismo non rende il senso di una mobilitazione delle coscienze che per Tolstoj avrebbe dovuto dispiegarsi attraverso una ben più complessa strumentazione. Disobbedienza civile innanzitutto, come sottrazione del consenso e svuotamento dall'interno dell'efficacia del rapporto di potere: in questo Tolstoj fece riferimento esplicito a Thoreau e al suo rifiuto di pagare le imposte al governo statunitense che tollerava la schiavitù  e che per questo motivo era stato incarcerato. Obiezione di coscienza e rifiuto di coprire certe cariche pubbliche o di svolgere alcune attività: “ Cosa fare... nessuno deve partecipare all'opera dei governi e di conseguenza non deve accettare le cariche di soldato, feldmaresciallo, ministro, podestà, giurato, governatore ecc... non bisogna fare i poliziotti, gli esattori, i giudici, gli ufficiali, rifiutare tutte le occupazioni che hanno a che vedere con la repressione”(20). Denuncia pubblica: “Noi non abbiamo altro mezzo di abbattere i governi se non denunciando agli uomini la menzogna ufficiale”(21). Avviare esperienze di didattica alternativa: “I governi si basano sull'ignoranza crassa della popolazione e allora bisogna organizzare l'istruzione senza domandare niente ai governi”(22); Infine riforma morale che partendo dai singoli avrebbe dovuto estendersi come comportamento sociale: “non già le istituzioni nuove, sorrette dalla forza, assicureranno una società libera bensì una morale che inspiri la volontà di agire verso gli altri come vorremmo vederli agire verso di noi”(23); “Come i lavoratori saranno liberi? Il mezzo è semplice e facile, ma da troppo tempo dimenticato. Il mezzo è di vivere secondo la legge di Dio. Ciò vuol dire temer Dio e obbedire a Lui più che alla polizia, al governatore, allo Zar. Se dunque costoro pretendono cose vietate da Dio non bisogna obbedir loro bensì a Dio”(24); “Bisogna compiere semplicemente con franchezza e tranquillità ogni cosa, ogni azione buona senza tenere conto del governo senza preoccuparsi se a lui piaccia o dispiaccia. Bisogna ignorare il potere. Bisogna vivere secondo regole religiose inflessibili”(25).

Tolstoj cercò, nei limiti del possibile, di vivere secondo le regole morali che andava affermando. Tentò di cedere ai contadini le sue terre, visse in povertà, fabbricò da sé i mobili, le scarpe, i vestiti di cui aveva bisogno, stette lontano dalla città e vicino alla natura, sull'esempio che gli veniva dalla vita di Thoreau (che, come è noto, visse a lungo nei boschi in una capanna costruita con le proprie mani), adottò una dieta vegetariana sia per motivi di salute che per rispetto verso gli animali, rifuggì dall'alcool e dal tabacco. Fu scomunicato dalla chiesa ortodossa per le sue idee contrarie alla religione e per il suo teismo, tenne numerosi contatti con sette religiose eretiche e gruppi pacifisti nel suo e negli altri paesi. Attorno a lui non si creò un vero e proprio movimento organizzato ma si costituirono molti gruppi che fecero delle sue idee un modo concreto di vivere.

Uno dei luoghi dove il pensiero di Tolstoj attecchì con maggiore facilità fu Londra che a cavallo dei due secoli era la regina del più vasto impero allora esistente, la grande metropoli per eccellenza, la capitale mondiale della cultura. Il clima che si respirava nella Londra di fine '800, fortemente influenzato dal pensiero socialista e dalla cultura di opposizione, era animato da un arcipelago di movimenti, iniziative, associazioni di opposizione all'industrialismo, all'urbanesimo, alla religione, allo stile di vita borghese. In un ambiente libero, poco dogmatico e trasgressivo come quello londinese il pensiero tolstojano si incontrò con quello di gruppi di intellettuali che assieme a lui avevano come punti di riferimento Waldo Emerson, David Thoreau, Henry George (economista statunitense sostenitore della riforma agraria), la filosofia orientale.  Lì le sue idee trovarono nuovi compagni di strada come Ruskin, Morris, Carpenter(26).

John Ruskin (come critico d'arte sarà venerato da Proust) che già nel capitolo centrale di Le pietre di Venezia aveva denunciato la disumanizzazione del lavoro industriale nel quale l'operaio è ridotto ad un mero attrezzo animato, elaborò una critica radicale della civiltà delle macchine, disumana e degradante, avvicinandosi, anche attraverso la lettura delle opere giovanili di Marx, a idee di socialismo utopistico. In Unto This Last, una raccolta di scritti apparsi sul Cornhill Magazine, difese la dignità del lavoro, esortò alla vita semplice, all'eliminazione del superfluo, alla ricerca di una felicità più profonda rispetto a quella vanamente promessa dalla ricchezza. Se Tolstoj edificò e diresse scuole per i figli dei contadini, Ruskin fondò una sorta di comunità di lavoratori che chiuse dopo pochi anni ma che diede spunto alle riflessioni raccolte nel libro Sesame and Lilies.

William Morris fu architetto, poeta, editore e come designer è ritenuto uno dei fondatori dell'industrial design. Nella sua dottrina estetica tuttavia rifiutò l'ingerenza dell'industria nella decorazione e nell'architettura, caldeggiando il ritorno al lavoro manuale. Militante socialista lavorò con Marx ed Engels per radicare il socialismo in Inghilterra e cercò di mediare tra i marxisti e gli anarchici. Fu uno strenuo oppositore della rivoluzione industriale e cercò in ogni modo di rivitalizzare la tradizione degli artigiani per conferire loro nuovamente il rango di artisti.

Edward  Carpenter, poeta, scrittore, polemista, amico di Morris fu un socialista idealista. Critico radicale della società industriale, odiava la grande città sia nei suoi ipocriti quartieri borghesi che negli squallidi sobborghi operai. Esaltò come Morris la natura e il piacere del lavoro manuale. Carpenter era omosessuale dichiarato e fu uno dei primi ad affrontare pubblicamente il problema negli stessi anni in cui Oscar Wilde veniva perseguitato e incarcerato. Si interessò anche del movimento femminista di cui divenne un attivo propagandista, lesse le opere del buddismo e la Bhagavadgita e si entusiasmò per l'India dove soggiornò per un lungo periodo. Gli scritti di Thoreau facevano parte della sua biblioteca e il suo lavoro fu ammirato da Tolstoj che fece stampare in russo un capitolo del suo Civilisation: Cause and Cure.

Assieme a Ruskin, Morris e Carpenter potremmo ricordare tanti altri della loro generazione o di quella successiva: intransigenti oppositori del capitalismo e dell'industrialismo consideravano la grande città come una Babilonia moderna, agitavano idee, fondavano giornali, scrivevano opuscoli di propaganda in un pullulare, come abbiamo detto, di associazioni socialiste, femministe, pacifiste, salutiste, vegetariane, antivivisezioniste, di protezione della natura e degli animali. Per fare ancora qualche esempio possiamo citare John Kenworthy, discepolo di Tolstoi,  fondatore della Land Colonization Society che incoraggiava e aiutava la gente a fuggire dalle città per tornare a vivere in campagna (come sta facendo ancor oggi il movimento brasiliano dei Sem-terra); i propagandisti di ateismo Charles Bradlaugh e Annie Besant ambedue vicini ai movimenti socialisti; Thomas Davidson che fondò l'Associazione della nuova vita secondo cui solo la rigenerazione individuale avrebbe potuto costituire la premessa di un autentico cambiamento sociale.

Le influenze reciproche, le triangolazioni culturali in quell'ambiente e in quel periodo costituiscono di per sé un capitolo di storia della cultura di cui forse non si è capita ancora l'importanza. Tolstoj lesse Thoreau, Ruskin, Carpenter, le vite del Budda e di Confucio, i Veda, il filosofo Ramakrisna; Emerson e Thoreau, conoscevano la mistica orientale i testi sanscriti e pali, il Rig-Veda e le Upanishad (Emerson in particolare considerava la Bhagavadgita il più bello dei libri); Carpenter lesse Tolstoj, la Bhagavadgita e i testi buddisti.

Quando Gandhi a diciassette anni, nel 1986, arrivò a Londra forse ebbe meno difficoltà a inserirsi di quanto si possa pensare. Il consigliere prediletto di sua madre era stato un monaco giainista: una religione che predica l'ahimsa (la non violenza), le diete e le cure naturali, la castità, la limitazione del possesso. Il suo primo articolo lo scrisse sulla rivista londinese The Vegetarian. Ben presto tuttavia cominciò a detestare la grande città e il mondo dell'industria: “Ferrovie, macchine, nuovi costumi sono segni di schiavitù per gli indiani come per gli europei. Il sorgere di grandi città come Bombay o Calcutta è cosa di cui rammaricarsi anziché rallegrarsi”(27). Lesse allora (o leggerà in seguito) tutti gli autori che abbiamo citato. Ebbe una profonda ammirazione per Ruskin, trasse grande profitto (stando alle sue stesse parole) dagli scritti di Thoreau ed Emerson, fu scosso profondamente dalla lettura del Sermone della montagna e dalla Bhagavadgita che restò la lettura prediletta con cui si accompagnò per il resto della vita(28). L'ammirazione per Tolstoj fu sconfinata, soprattutto per i suoi scritti morali, poiché lesse solo più tardi i suoi ultimi romanzi (Resurrezione, La morte di Ivan Ilic, La sonata a Kreuzer).

Come è noto tra Tolstoj e Gandhi intercorse un breve rapporto epistolare tra l'ottobre del 1909 e il settembre del 1910. Si trattò nel complesso di undici lettere di cui quattro di Gandhi allo scrittore russo e tre di quest'ultimo al Mahatma mentre le altre quattro sono state scritte da interposte persone. Sono lettere piuttosto brevi in cui l'uomo politico indiano spiega la lotta degli emigranti indiani nel Transvaall e chiede di poter tradurre e pubblicare uno scritto precedente di Tolstoj (Lettera ad un Indù) mentre questi dimostra apprezzamento per l'azione politica di Gandhi e si sforza di spiegare nuovamente il significato della non violenza. L'ultima di queste lettere venne scritta da Tolstoj il 20 settembre del 1910 e fu anche uno dei suoi ultimi scritti poiché morì poche settimane dopo: il sette novembre. Il significato di quella breve corrispondenza tuttavia non sta tanto nel suo contenuto quanto nel rilievo dei due interlocutori. Per chi ritiene che Tolstoj e Gandhi siano state due tra le figure morali più alte rispettivamente dell'Ottocento e del Novecento è come se quei due secoli, per un breve momento, si siano incontrati e riconosciuti. Qualche cosa dell'uno si è riversata nell'altro.

I personaggi che abbiamo brevemente considerato (Tolstoj e Gandhi, Thoreau e Ruskin, Morris e Carpenter) hanno non poco in comune. Hanno sempre unito la produzione artistica e letteraria all'impegno sociale e politico e nella vita concreta hanno cercato di mettere in pratica le idee propugnate pagandone spesso il prezzo. Ma ciò che appare ancor più mirabile nella loro avventura è che a cavallo di due secoli, autori così lontani tra loro (nordamericani, europei, russi ed indiani) si siano uniti in una piccola comunità globale di valori etici condivisi e appassionatamente divulgati, in cui Il Vangelo e la Bhagavadgita abbiano potuto dialogare tra loro e modelli di pensiero e di vita così diversi come l'individualismo anglosassone, lo spirito contadino della Russia profonda e lo spiritualismo indiano abbiano trovato un linguaggio comune e abbiano lasciato al mondo un messaggio armonico, raro per profondità e semplicità.

Il pacifismo e la disobbedienza civile sono un elemento preponderante di questo messaggio. Si può discutere ancora, come sempre si è fatto, sull'efficacia di questi strumenti nel processo di cambiamento sociale e anche di recente Domenico Losurdo, in suo suo interessante libro, ha cercato di mettere in evidenza i limiti e le incongruenze del pacifismo per sottolineare allo stesso tempo la relazione problematica che è sempre intercorsa nei processi di cambiamento sociale tra le pratiche di disobbedienza civile e il ricorso alla violenza individuale o collettiva(29). Non è certo il caso in questa sede di inoltrarci in una discussione così complessa. Basterà ricordare che in ogni movimento sociale le due componenti pacifica e violenta convivono, si sovrappongono, entrano in conflitto tra loro. Spesso accade che una delle due prenda il sopravvento sull'altra. La non violenza, il dissenso (cioè la sottrazione del consenso) e la disobbedienza civile, che in modo implicito o esplicito hanno fatto riferimento al pensiero di Thoreau, Gandhi e Tolstoi, sono ricomparsi di frequente anche nei grandi movimenti sociali della seconda metà del secolo scorso: basti pensare al rifiuto del servizio militare durante la guerra del Viet-Nam, al movimento per i diritti civili dei neri d'America e del Sud Africa, ai movimenti femminili, alla mobilitazione contro la seconda guerra in Irak.

Ma, come abbiamo detto, il messaggio di Tolstoj e dei suoi ispiratori ed epigoni non si limita alla disobbedienza civile e al pacifismo ma promuove un insieme di cause: la conservazione della natura che si accompagna al bisogno di sentirla più vicina, la lotta contro la pena di morte, il riconoscimento del diritto alla diversità, il rispetto degli animali, l'opposizione al consumo della loro carne e alla vivisezione, il bisogno di ricostruire forme comunitarie e conviviali in contrasto con il modello di vita delle metropoli, il rifiuto del consumismo, un'alimentazione più attenta alla salute. Si tratta come si vede di pratiche oggi largamente diffuse tra persone e gruppi in ogni paese. Non si tratta di un unico movimento, ma per utilizzare la metafora di Bauman sulla società liquida, possiamo considerarle come molecole in sospensione, di peso specifico maggiore rispetto al fluido in cui sono immerse e sempre suscettibili di unirsi tra loro per formare corpi ancor più densi e di maggiore volume.

Forse il modo migliore per ricordare il centenario della morte di Tolstoj è considerare quanta  parte della sua sensibilità si sia conservata e diffusa nel corso del tempo e quante forme possa ancor oggi assumere una feconda opposizione al sistema del capitalismo industriale.

 

Note:

(1) L. Tolstoj, Lotte politico-sociali, Napoli, Società Editrice Partenopea, 1906, p. 46.

(2) Op. cit., p. 47.

(3) P. Giotti, Lettere al padre, Trieste, Edizioni Il Ramo d'oro, 2008, p. 87.

(4) L. Tolstoj, La moderna schiavitù, , Genova, Libreria moderna, 1901, p. 87.

(5) Op. cit. p. 89.

(6) Op. cit., p.90.

(7) L. Tolstoj, Lotte politico-sociali, Op. cit., p. 72.

(8) Op. cit., p. 7.

(9) L. Tolstoj, Dov' è l'uscita?, Genova, Libreria moderna, 1901, p. 16.

(10) L. Tolstoj, Resurrezione, Milano, Mondadori, 2009, p. 404.

(11) B. Milone, Tolstoj e il rifiuto della violenza, Milano, Servitium, 2010, p. 101.

(12) L. Tolstoj, Contro la guerra russo giapponese. Ricredetevi, Roma, Luigi Mongini Editore, 1904, p. 12.

(13) Op. cit. p.13.

(14) L. Tolstoj, Non indurre in tentazione, Firenze, L'Elzevirana Ditta Editrice, 1902, p. XIII.

(15) Per fare un esempio si possono ricordare le ricerche di Oscar Lewis condotte negli anni '50 sui contadini messicani immigrati a Città del Messico e in particolare al suo libro I figli di Sanchez, in cui spesso ci si imbatte in frasi come questa: “Io preferisco la vita di campagna. E' più calma, più tranquilla, si respira a proprio agio. Si sente l'onestà fin sulle punte delle dita. Lì la gente è diversa, più rispettosa e leale, ha un modo diverso di essere. Qui in città devo sempre stare sul chi vive, pronto ad aspettarmi qualsiasi cosa da chiunque.” (O. Lewis, I figli di Sanchez, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1966, p. 149). A chi scrive poi è capitato di sentirsi dire da un contadino senegalese: “La grande città brucia l'anima”. Raramente ho sentito esprimere un concetto in modo così efficace e pittoresco.

(16) L. Tolstoj, Dov'è l'uscita?, Op. cit., p. 16.

(17) L. Tolstoj, La moderna schiavitù, Op. cit., p. 33.

(18) Op. cit., p. 44.

(19) L. Tolstoj, Come i lavoratori saranno liberi, in La moderna schiavitù, Op. Cit., p 87.

(20) Op. cit., p. 88.

(21) Op. cit., p. 90.

(22) Op. cit., p. 92.

(23) Op. cit., p. 92.

(24) Op. cit., p. 98.

(25) Op. cit., p. 99.

(26) Per la ricostruzione dell'ambiente culturale della Londra di fine 800 vale il bellissimo libro di P. C. Bori, G. Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni. Bologna, Il Mulino, 1985.

(27) L. Fischer, The life of Mahatma Gandhi, Mumbai, Bhavan's Book University, 1998, p. 475.

(28) Gandhi ebbe una volta a dire: “La mia vita è stata piena di tragedie e se esse non hanno lasciato alcun tipo di visibile ed indelebile effetto su di me io devo questo agli insegnamenti della Bhagavadgita” (L. Fischer, Op. cit., p. 358)

(29) D. Losurdo, La non-violenza, Bari, Editori Laterza, 2010.


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Dalla redazione:

Adriana Perrotta Rabissi:

Mi sembra interessante questo piccolo saggio sulla ricezione di Tolstoj oggi, giusto in occasione del bell'articolo di Aldo sugli scritti politici e sociali di Tolstoj.
E' un po' lungo, ma alla fine si chiude con quella folgorante intuizione che apre Resurrezione e che anticipo qui per i pigri:
«Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo
spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per
quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per
quanto estirpassero qualsiasi filo d'erba che riusciva a spuntare, per
quanto esalassero fiumi di carbon fossile e petrolio, per quanto
abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli
la primavera era primavera anche in città»:

Valentina Parisi

Bilancio del centenario disertato dall'editoria. Un anno con Tolstoj.

Può sembrare paradossale, ma a cent'anni di distanza dalla scomparsa

dell'autore di Guerra e pace sembrano sul punto di compiersi le sue

ultime volontà: essere ricordato non tanto per le opere narrative -

quelle «sciocchezze», come amava ripetere davanti a testimoni attoniti

- quanto per i testi di carattere teorico composti all'indomani della

conversione. Un sentiero di lettura tra gli ultimi titoli

Due «date fauste» avrebbero dovuto - secondo Guido Ceronetti -

contrassegnare il 2010: il centenaro dalla morte di Tolstoj e il

centocinquantenario dalla nascita di Cechov, «formidabili consolatori

del genere umano». A distanza di quasi dodici mesi non si può che

constatare l'eccessivo ottimismo di un simile augurio: se

dell'anniversario cechoviano non si è accorto pressoché nessuno, il

centenario dell'autore di Guerra e pace, pur in assenza di progetti

editoriali di ampio respiro o di percorsi interpretativi originali,

sembra avere evidenziato una netta cesura nella ricezione del

romanziere, sulla quale vale senz'altro la pena di interrogarsi. Il

lento ma inesorabile esaurirsi di celebrazioni un po' in sordina

potrebbe diventare l'occasione per stabilire quale posizione abbia

assunto l'astro tolstojano e quale faccia ci mostri ora di sé:

ovviamente a patto di affidarci alla «bella e amabile illusione» già

attribuita da Leopardi agli anniversari: l'illusione di indurci a

credere che due date prive di qualsiasi nesso siano in realtà legate

da un'intima necessità, dal materializzarsi di un'ombra che torna a

visitarci.

Può sembrare paradossale, ma a cent'anni di distanza dalla scomparsa

sembrano sul punto di compiersi le ultime volontà dello scrittore:

essere ricordato non tanto per le sue opere narrative - quelle

«sciocchezze», come amava ripetere dinanzi a testimoni lievemente

attoniti - quanto per i testi di carattere teorico ed edificante

composti all'indomani della conversione. Una sorprendente rivincita

postuma del moralista sul romanziere sancita da molti titoli apparsi

di recente.

 

Il versante pedagogico

I titoli usciti negli ultimi tempi vanno da Il risveglio interiore.

Scritti sull'uomo, la religione, la società (a cura di Nicola Caleffi

e Guglielmo Leoni, Incontri Editrice) a La religione del progresso e i

falsi fondamenti dell'istruzione (a cura di Giuseppe Ianiello,

Pungitopo), passando per La schiavitù del nostro tempo. Scritti su

lavoro e proprietà (a cura di Bruna Bianchi, Bfs edizioni) e il saggio

di Bruno Milone, Tolstoj e il rifiuto della violenza, in cui il

romanziere russo viene celebrato come pervicace «negatore»

(netovshchik, così l'aveva ribattezzato il principe Petr Vjazemskij)

di idee ritenute scontate dai suoi contemporanei (in primis il

progresso elevato a legge), nonché anticipatore di temi quali la

descolarizzazione e la decrescita. In questa ottica, di particolare

interesse è il volumetto proposto da Pungitopo dove, replicando a un

certo signor Markov che aveva definito irrealistici i metodi di

insegnamento sperimentati a Jasnaja Poljana, Tolstoj smascherava i

presupposti coloniali impliciti nella «religione del progresso» e

ribadiva l'interrogativo posto alla base del suo pensiero: «I figli

dei contadini devono imparare a scrivere da noi o noi da loro?».

Accanto a questa rivalutazione delle considerazioni pedagogiche del

romanziere russo (avviate in Italia nel 1995 dal volume di Pier Cesare

Bori L'altro Tolstoj e riprese dal convegno di studi Fa quel che devi,

accada quel che può. Arte, etica e politica in Lev Tolstoj, che si

tenne in novembre a Ca' Foscari), gli scaffali evidenziano un'altra

variante dell'«accanimento biografico»: quella per cui l'attenzione si

è andata concentrando, appunto, sul «personaggio Tolstoj» e, in

particolare, sull'afflato indubbiamente romanzesco della sua fuga da

Jasnaja Poljana su treni di terza classe diretti verso il sud. I

possibili sviluppi narrativi di questo epilogo sono stati esplorati

con alterne fortune da una pletora di testi che vanno dal Tolstoj è

morto di Vladimir Pozner (scritto nel 1935 e proposto a maggio da

Adelphi nella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco) alla Fuga di

Tolstoj di Alberto Cavallari (1986, ripubblicato ora da Electa)

all'Ultima stazione di Jay Parini (Bompiani, traduzione di Lorenzo

Matteoli), cui fa da corollario Begstvo iz raja («Fuga dal paradiso»)

di Pavel Basinskij, un libro che ha appena vinto a Mosca il premio

Bol'shaja Kniga, e tende a rileggere retrospettivamente tutta la

parabola esistenziale e artistica dello scrittore alla luce del suo

atto finale.

 

Voci catturate in famiglia

A fronte di questo tenace interesse per gli ultimi giorni di Tolstoj

risulta tanto più impressionante il vuoto che si è aperto intorno alla

sua opera narrativa: con la meritoria eccezione del racconto Chadzi

Murat, edito da Voland nella nuova versione di Paolo Nori, l'anno del

centenario ha brillato soprattutto per l'assenza di quelle particolari

riletture che sono le ri-traduzioni. Tutt'al più si dipanano

narrazioni accessorie e periferiche, come l'itinerario «coniugale»

intrapreso dalle edizioni La Tartaruga già nel 2009 con la

pubblicazione di Amore colpevole (mediocre romanzo della moglie

Sof'ja) e proseguito ora con una scelta dai Diari della stessa

contessa Tolstaja. Nella medesima linea, benché con esiti più

significativi, si colloca Preludio a Chopin che inaugura la nuova

collana «Asce» degli Editori Riuniti: quattro racconti di autori

diversi, diseguali per valore letterario e legati tra loro da una

comune intenzione: replicare a quell'inaccettabile provocazione

rappresentata dalla Sonata a Kreutzer, ultimo atto dell'annichilimento

dialettico che Tolstoj aveva riservato alla istituzione matrimoniale,

tanto nella Felicità domestica che in Anna Karenina. Tra gli autori

che polemizzano con Tolstoj c'è innanzi tutto il suo quartogenito Lev

L'vovic, i cui due testi sono interessanti più che altro come atto

d'accusa contro la generazione egoista dei padri che vorrebbero negare

ai giovani la possibilità di un amore puro e (neo)romantico. A questi

si affianca il racconto di Nikolaj Leskov A proposito della Sonata a

Kreutzer, una raffinata sfida endoletteraria dove intorno ai rimorsi

di coscienza di un'adultera convergono non solo gli alter ego di

Tolstoj e dello stesso Leskov, ma addirittura l'ombra di Dostoevskij.

Anche Cechov si unisce al coro con Mia moglie, benché questo

soffocante interno domestico illuminato con la consueta intelligenza e

malinconia sembri ispirarsi, più che al dibattito sulla Sonata

tolstojana, alla carestia che nel 1892 colpì la regione in cui si

trovava Melichovo, la tenuta dello scrittore.

Soffocato dal chiacchiericcio dei suoi familiari e privo di alcuni tra

i suoi «lettori» più sensibili (in libreria manca sia il fondamentale

volume di Viktor Sklovskij edito dal Saggiatore nel 1978, sia il

saggio di Dmitrij Merezkovskij che nel remoto 1900 inaugurò la

tradizione del raffronto con Dostoevskij), Tolstoj appare oggi

confinato in un passato arcirusso, come suggerisce anche il

sottotitolo di una biografia appena uscita in Inghilterra, Tolstoy: A

Russian Life di Rosamund Bartlett. Perché, invece, non riportarlo a

confronto con Kierkegaard o con Proust, come si era già tentato

vent'anni fa, o indagarne la presenza fantasmatica, ma più che

accertata, nella prosa postmoderna russa di oggi?

Sul fronte editoriale italiano l'evidente mancanza di «investimenti»

tolstojani appare tanto più sorprendente dal momento che, solo

vent'anni fa, l'effervescenza era tale da generare veri e propri

mostri. Ricordo, a questo proposito, che Tolstoj entrò nella mia vita

di dodicenne - era il 1988 - con un titolo bizzarro, Casa Rostov: il

volume che mi venne messo allora in mano conteneva stralci di Guerra e

pace nell'adattamento che l'editore Marietti aveva approntato per i

più giovani: niente digressioni storico-filosofiche, pochissima

«guerra» e, della «pace», la sola linea narrativa legata alla casata

Rostov, privilegiata rispetto a quella dei Bolkonskij nella speranza

di far scattare nelle menti preadolescenziali i più scontati

meccanismi di identificazione psicologica. Così amputato, Guerra e

pace si riduceva a un libretto tutto sommato agile, di sole

duecentocinquanta pagine, che divorai avidamente, un po' turbata dalla

sua sconclusionatezza di fondo: i riassunti inseriti qua e là non

potevano certo restaurare la coerenza dell'intreccio e parevano

alludere alla mole invisibile che si estendeva al di là delle pagine

superstiti. L'immaginazione finiva così per proiettarsi su quei

territori negati, su quel resto che veniva taciuto.

Più tardi, una volta affacciata sulla mole del corpus tolstojano, mi

accorsi che quel caso di vivisezione editoriale aveva lasciato una

traccia durevole nella mia memoria. Non a caso, a distanza di anni,

l'immagine della lacuna o, meglio, dell'eclissi resta inscindibile per

me dall'opera dello scrittore di Jasnaja Poljana, complice anche la

lettura reiterata dei Diari dove, a frammenti di sfolgorante

introspezione, subentrano abissi temporali spiazzanti, quando

l'autore, dopo aver fustigato per bene la propria vanità ed essersi

imposto regole di condotta draconiane, dimentica per mesi, se non per

anni, i suoi quaderni in un cassetto. O magari per effetto di quel

passo meraviglioso di Adolescenza in cui si descrive intento a

voltarsi di scatto, per sorprendere il nulla cosmico che intuisce alle

sue spalle.

A distanza di anni Tolstoj avrebbe riposizionato la sede di quel

vuoto, imprimendole una rotazione di 180 gradi e collocandola di

fronte a sé («Vivo è l'uomo che avanza verso il luogo rischiarato da

un lume che si muove innanzi a lui», annotò nel diario del 1890), ma

immutata sarebbe rimasta in lui la tendenza a contraddirsi, a superare

quanto era già in suo possesso. «Non si può mettere su un piedestallo,

ad ammaestramento dei posteri, un individuo che è esclusivamente una

lotta», scriveva di Dostoevskij nel 1883; eppure avrebbe potuto

benissimo riferire questa frase a se stesso, perennemente impegnato

com'era a inseguire il miraggio dell'autoperfezionamento, a respingere

la tranquillità definendola «vigliaccheria dell'anima».

 

Ipotesi su un disinteresse

Alla luce di questa «discontinuità» già notata da Isaiah Berlin, forse

non dobbiamo sorprenderci se una parte di Tolstoj è fatalmente

destinata a restare in ombra, a sottrarsi allo sguardo dei lettori.

Resta però da chiedersi se lo scarso fermento editoriale del 2010 sia

indice di saturazione («Tutti hanno già letto Tolstoj») oppure di

scoramento («Nessuno legge più Tolstoj»). E se sul versante accademico

sia opportuno dedicare interi corsi all'«altro Tolstoj», visto che gli

studenti spesso non hanno ancora letto Guerra e pace - neppure in

forma vivisezionata.

Definendolo «uomo di intempestività, inattualità e differenza», Andrea

Zanzotto lo ascriveva al novero ristretto di quegli autori che

potrebbero investire tutta la nostra esistenza con una semplice frase.

In effetti, basterebbe a dimostrarlo quell'autentica slavina verbale

che è l'incipit geniale e arcigno di Resurrezione: «Per quanto gli

uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio,

cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la

soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto

estirpassero qualsiasi filo d'erba che riusciva a spuntare, per quanto

esalassero fiumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero

gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli - la

primavera era primavera anche in città».

 

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