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Ricominciamo a pensare possibile l'impossibile: Scienziati contro il riarmo – Un manifesto. PDF Stampa E-mail
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Domenica 30 Marzo 2025 13:36

 

La redazione

Ricominciamo a pensare possibile l'impossibile: Scienziati contro il riarmo – Un manifesto.

La redazione, presentando questo testo, con il quali concorda, osserva che ogni Ipotesi di convivenza civile e democratica non può trascurare la necessità di immaginare e tentare di dare vita a nuove forme materiali e simboliche di riproduzione e produzione della società, a partire dalla relazione tra donne e uomini, questione messa potentemente a tema dal femminismo a partire dagli anni settanta.
A questo proposito proponiamo qui a chiarimento il testo di un intervento di Adriana Perrotta Rabissi, della redazione, nel suo blog 'La penna e il piccone', nel quale ricostruisce brevemente le contraddizioni che il femminismo si è trovato ad affrontare:

Di chiacchiere e di altro, 2

La radicalità del femminismo degli anni Settanta è stata colta subito  da uomini attenti al sociale e ai mutamenti che maturavano, studiosi che non si facevano distrarre dagli aspetti più superficiali e pittoreschi del movimento,  riportati dai giornali con intenzioni svalorizzanti.

Scrive Marcuse nel 1974 (Marxismo e femminismo):

“Le potenzialità, gli obiettivi del movimento di liberazione delle donne si spingono... in regioni impossibili da raggiungere nel quadro del capitalismo, e di una società di classe. La loro realizzazione richiederebbe un secondo livello, nel quale il movimento trascenderebbe il quadro nel quale si trova ora ad operare. In questo stadio, ‘al di là dell’uguaglianza’, la liberazione implica la costruzione di una società governata da un differente principio di realtà, una società nella quale la dicotomia costituita tra il maschile e il femminile è superata nei rapporti sociali e individuali tra esseri umani”

Pietro Ingrao 1978, conversando con Rossanda in una trasmissione di Radio tre:

".. affrontare le questioni dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio: se vuoi affrontare davvero il rapporto donna/uomo, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente – ecco dove la dimensione diventa diversa – vai a incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza, eccetera. Cioè una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione delle stato, tutto il rapporto tra stato e privato (…)"

Nel frattempo studiose in tutti i campi del sapere, filosofe, ricercatrici, sociologhe, epistemologhe, scienziate, economiste, psicologhe, teologhe...  affrontavano l'analisi delle radici storiche della asimmetria sociale, politica, economica, culturale tra donne e uomini, collettivamente e individualmente, producendo un ricco patrimonio di conoscenze, consapevolezze, teorizzazioni.

L'apertura del conflitto sociale, politico e culturale generato dalla la nuova coscienza delle donne ha dato luogo a percorsi di lotta differenti tra loro e a volte contrastanti.

Riporto queste due riflessioni di intellettuali uomini prima di tutto perché siano conosciute, poi perché leggo costantemente articoli pieni di fraintendimenti e confusioni: si confonde il femminismo con l'emancipazionismo, bersaglio polemico fin dai primi tempi, volto a conseguire per le donne in ottica paritaria successi e privilegi finora esclusivi degli uomini, senza mettere in discussione la struttura portante della dissimmetria.

Nei casi più reazionari si arriva a paventare una inversione dei ruoli tra dominanti e dominati, una situazione nella quale gli uomini sarebbero discriminati nel sociale per favorire le donne.

Analisi più raffinate avvertono che l'accento posto sui diritti civili e la frammentazione che ne consegue sarebbe diventata stampella per il sistema produttivo attuale con l'individualismo consumistico.

Ma il femminismo non si è mai risolto  in rivendicazioni in ottica  di emancipazione individuale e/o collettiva a prescindere dal contesto generale nel quale si vive e si opera, per questo ogni ipotesi di reale liberazione delle donne  dai vincoli opposti alla piena autorealizzazione  di ciascuna comporta necessariamente la liberazione di tutti gli altri, a causa dell'intreccio che lega  tutte le componenti umane nella vita sul pianeta.

La divisione ipotizzata all'origine  tra attitudini degli uomini e attitudini delle donne ha determinato due sfere distinte di esperienza di vita e di pensiero, nelle quali sono stati confinate sia le donne che gli uomini, ciascuno nella propria area di competenza, con possibilità di incursioni nell'altra  incoraggiate o ostacolate a seconda delle esigenze generali.

Divisione considerata naturale, e non storicamente determinata, in  grado di mantenere l' ordine simbolico e materiale fondato sullo scambio sessuo-economico, da quale derivano altre forme di dominio  che ancora sperimentiamo e messe a profitto dai vari sistemi sociali e culturali che conosciamo nel tempo e nello spazio.

Gli strumenti materiali e  concettuali alla base della nostra convivenza sul pianeta sono stati costruiti sulla base di quella concezione, che ha permeato di sé mentalità fantasie, angosce, immaginazioni, speranze, paure sedimentate nella nostra interiorità di donne e uomini.

Per questo è così difficile, lento, faticoso il tentativo di modificarli alle radici,  mettendo in discussione priorità di valori ritenute naturali e quindi inconfutabili.

Se il continuo richiamo alla  formulazione di ipotesi di convivenza civile e democratica  adatte a  contrastare il crescente autoritarismo e bellicismo non parte prima di tutto dalla messa a tema  delle "forme di riproduzione della società, del modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, ...." (Ingrao '78) ogni tentativo di reale mutamento della situazione  attuale di sfruttamento di persone, ambienti,  popoli, terre animali cose è destinato a infrangersi  su motivazioni apparentemente incontestabili.

Carlo Rovelli e Flavio Del Santo, 9 marzo 2025, Manifesto di scienziati
In qualità di scienziati – molti di noi impegnati in settori in cui viene sviluppata la tecnologia militare – come intellettuali, come cittadini consapevoli dei rischi globali attuali, riteniamo che oggi sia un obbligo morale e civile per ogni persona di buona volontà alzare la voce contro l’appello alla militarizzazione dell’Europa e promuovere il dialogo, la tolleranza e la diplomazia. Un riarmo repentino non preserva la pace; conduce alla guerra.

I nostri leader politici dichiarano di essere pronti a combattere per difendere presunti valori occidentali che ritengono in pericolo; ma sono pronti a difendere il valore universale della vita umana? I conflitti in tutto il mondo sono in aumento. Secondo le Nazioni Unite (2023), un quarto dell’umanità vive in aree colpite da guerre. Il conflitto tra Russia e Ucraina, sovvenzionato dai Paesi della NATO con la giustificazione di “difendere i principi”, sta lasciando dietro di sé circa un milione di vittime. Il rischio di genocidio dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano, sostenuto dall’Occidente, è stato riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia. Brutali guerre sono in corso in Africa, come in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo, alimentate dagli interessi sulle risorse minerarie del continente. L’Orologio dell’Apocalisse del Bulletin of the Atomic Scientists, che quantifica i rischi di una catastrofe nucleare globale, non ha mai segnato un pericolo così alto come oggi.

Spaventata dall’attacco russo all’Ucraina e dal recente riposizionamento degli Stati Uniti, l’Europa si sente messa da parte e teme che la sua pace e prosperità possano essere a rischio. I politici stanno reagendo in modo miope, con un appello alla mobilitazione su scala continentale e destinando risorse colossali alla produzione di nuovi strumenti di morte e distruzione. Il 4 marzo 2025, la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato il Piano di Riarmo Europeo, dichiarando: “L’Europa è pronta e capace di agire con la velocità e l’ambizione necessarie. […] Siamo in un’era di riarmo. E l’Europa è pronta ad aumentare massicciamente la sua spesa per la difesa.” L’industria militare, che dispone di immense risorse e di una forte influenza su politici e media, alimenta una narrazione apertamente bellicista. La “paura della Russia” viene agitata come uno spauracchio, ignorando convenientemente che la Russia ha un PIL inferiore a quello dell’Italia. I politici affermano, del tutto infondatamente, che la Russia abbia mire espansionistiche verso l’Europa, rappresentando una minaccia per Berlino, Parigi e Varsavia, quando ha appena dimostrato di non essere nemmeno in grado di conquistare Kiev, sua ex-satellite. La propaganda di guerra si nutre sempre dell’esagerazione della paura. Con la diplomazia, l’Europa può tornare alla pacifica convivenza e collaborazione con la Russia che l’affare ucraino ha tragicamente interrotto.

L’idea che la pace dipenda dal prevalere sugli altri porta solo all’escalation, e l’escalation porta alla guerra. La Guerra Fredda non è diventata una guerra “calda” perché politici saggi, da entrambe le parti, hanno saputo superare profonde divergenze ideologiche e reciproche “questioni di principio”, arrivando a una drammatica ma equilibrata riduzione degli armamenti nucleari. I trattati START tra Stati Uniti e Unione Sovietica portarono alla distruzione dell’80% dell’arsenale nucleare globale. Scienziati e intellettuali di entrambe le fazioni svolsero un ruolo fondamentale nel spingere i politici verso una de-escalation razionale. Nel 1955, il filosofo, matematico e Premio Nobel per la Letteratura Bertrand Russell e il Premio Nobel per la Fisica Albert Einstein firmarono un manifesto influente, che ispirò la Conferenza Pugwash, riunendo scienziati di entrambi gli schieramenti per promuovere il disarmo. Quando Russell, nel 1959, fu invitato a lasciare un messaggio per la posterità, rispose:

“In questo mondo, che sta diventando sempre più interconnesso, dobbiamo imparare a tollerarci a vicenda. Dobbiamo accettare il fatto che alcune persone diranno cose che non ci piacciono. Solo così possiamo vivere insieme. Ma se vogliamo vivere insieme, e non morire insieme, dobbiamo imparare un certo tipo di carità e un certo tipo di tolleranza, assolutamente vitali per la sopravvivenza dell’umanità su questo pianeta.”

Dovremmo custodire questo patrimonio di saggezza intellettuale.

I grandi conflitti sono sempre stati preceduti da enormi investimenti militari. Dal 2009, la spesa militare globale ha raggiunto livelli record ogni anno, con la spesa del 2024 che ha toccato il massimo storico di 2443 miliardi di dollari. Il Piano di Riarmo Europeo impegna l’Europa a investire 800 miliardi di euro in spese militari. Sia l’attuale Presidente degli Stati Uniti che l’attuale Presidente della Russia hanno recentemente dichiarato di essere pronti ad avviare colloqui per la normalizzazione delle relazioni e per una riduzione equilibrata degli armamenti. Il Presidente della Cina ha ripetutamente chiesto la de-escalation e un passaggio da una mentalità di confronto a una di collaborazione win-win. Questa è la direzione da seguire. E ora l’Europa si prepara alla guerra, con nuove spese militari pianificate come non si vedevano dalla Seconda Guerra Mondiale. L’Europa è forse disposta a brandire le armi perché si sente messa da parte?

L’umanità affronta sfide globali enormi: il cambiamento climatico, la fame nel Sud del mondo, la più grande disuguaglianza economica della storia, l’aumento del rischio di pandemie, la minaccia di una guerra nucleare. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno oggi è che il Vecchio Continente passi dall’essere un faro di stabilità e pace a diventare un nuovo signore della guerra.

Si vis pacem para pacem – Se vuoi la pace, costruisci la pace, non la guerra.
(in Internet è possibile leggere i nomi e firmare per adesione).
 
Ricominciamo a pensare possibile l'impossibile: stop alla produzione di armi PDF Stampa E-mail
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Venerdì 21 Marzo 2025 12:52

la redazione


Presentiamo il testo dell’appello steso da Luigi Ferrajoli, presidente di Costituente Terra (https://www.costituenteterra.it/categorie/il-progetto-

costituente/) che si accoda all’Appello delle città promosso in tutto il mondo, per la garanzia più efficace contro la guerra: il disarmo.

uovo con stecco

1. L’anno che abbiamo alle spalle ben possiamo considerarlo un annus horribilis. E ancor più orribile possiamo considerare quest’ultimo mese, nel quale è iniziata la presidenza Trump.

In quest’ultimo anno si sono aggravate tutte le catastrofi globali che minacciano il futuro dell’umanità. Innanzitutto la guerra, anzi le due guerre. quella in Ucraina e quella in Palestina, dapprima alimentate dal clima bellicista sviluppatosi in Europa e oggi avviate a un esito penoso – penoso ovviamente per le parti più deboli dei due conflitti, il popolo ucraino e il popolo palestinese – dagli interventi cinici di Trump: in Ucraina l’abbandono di Zelensky, l’umiliazione dell’Europa, e un accordo direttamente con il suo simile Putin, sulla testa degli ucraini, di fatto una resa, in termini enormemente più svantaggiosi per l’Ucraina di quelli dell’accordo che poteva concludersi fin dal marzo 2022, con un milione di vittime in meno; a Gaza la proposta ancor più cinica e volgare di una gigantesca pulizia etnica diretta a evacuare più di due milioni di palestinesi dalla loro terra per far posto a ville e a lussuosi stabilimenti balneari in quella che diverrebbe “la Riviera del Medio Oriente”.

In secondo luogo la catastrofe ecologica. L’impatto umano sulla Terra sta diventando insostenibile. Secondo i calcoli della scienza occorrerebbe, per scongiurare la catastrofe climatica, azzerare tutte le emissioni di anidride carbonica entro il 2050. Stiamo invece andando in direzione opposta. Le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera sono giunte ormai all’enorme cifra di 51 miliardi di tonnellate l’anno. Secondo il rapporto GHG Emissions of All World Countries. 2023, esse sono aumentate, dal 1990 ad oggi, di oltre il 70%, e non cessano di aumentare. A causa del riscaldamento climatico, larghe fasce di coste a livello del mare sono destinate ad essere sommerse. Entro la fine del secolo si giungerà fin quasi all’estinzione della biodiversità. Deforestazioni e cementificazione stanno crescendo annualmente, contribuendo massicciamente al riscaldamento climatico. È stato inoltre calcolato che ogni giorno vengono tagliati, nel mondo, 15 milioni di alberi; che gli alberi abbattuti ad opera dell’uomo, nell’ultimo secolo, sono stati 3.000 miliardi, circa la metà di quelli esistenti sulla terra; che al tempo stesso vengono gettato nei mari miliardi di tonnellate di rifiuti plastici ed è stata provocata l’estinzione di migliaia di specie di pesci. Sta crescendo l’impatto sull’ambiente dell’agricoltura industriale e degli allevamenti intensivi, che sono tra le principali fonti di emissione di anidride carbonica e di consumo dell’acqua potabile e stanno logorando la fertilità dei suoli, distruggendo la biodiversità e sottoponendo miliardi di animali domestici a torture spaventose. Si stanno così minando le condizioni di vita sul nostro pianeta, le cui capacità produttive consentirebbero la sopravvivenza e il benessere di tutti se solo fossero accompagnate dalla cura della natura e da un’equa distribuzione della ricchezza.

Al tempo stesso sono cresciute la ricchezza dei ricchi – i cinque miliardari più ricchi del mondo hanno raddoppiato negli ultimi 4 anni la loro ricchezza, e la raddoppieranno nei prossimi 4 anni – e la povertà dei poveri, fino alla morte per fame e per malattie curabili e non curate di milioni di persone. E poi la condizione sempre più drammatica dei migranti: in Italia sono state varate norme dirette a ostacolare con mille intralci burocratici i salvataggi dei migranti in mare; il governo insiste in quella pratica dei sequestri di persona che sono le deportazioni in Albania di migranti catturati in mare mentre stanno esercitando il loro diritto di emigrare; da ultimo il penoso affare Almarsi, sottratto con un aereo di Stato all’ordine di arresto della Corte penale internazionale, che ci ha rivelato, oltre al disprezzo per il diritto del nostro governo, la sua sostanziale complicità con le torture, gli stupri e gli assassinii che si commettono nei lager libici dove vengono illegittimamente trattenuti i migranti onde impedire loro di venire in Italia.

2. Ma quest’anno, in quest’ultimo mese si è prodotta, con gli incredibili interventi di Donald Trump, anche una crisi dell’ordine mondiale e una sorprendente involuzione autocratica della democrazia statunitense.

Ciò che ho trovato più impressionante in questi interventi di Trump è stata l’ostentazione compiaciuta sia della crudeltà, sia del disprezzo per il diritto. Sono stati impressionanti le decine di decreti esecutivi, molti dei quali in contrasto con la Costituzione americana, firmati e poi sbandierati da Trump davanti alle telecamere come segno dei suoi pieni poteri; la gogna di decine di migranti in catene mentre vengono espulsi dal paese dove vivevano da anni perfettamente integrati; il progetto cinico della cacciata di più di due milioni di palestinesi dalla loro terra devastata per far posto, a Gaza, a una lussuosa località balneare. Altrettanto ostentato è il disprezzo di Trump per il diritto, che chiaramente è per lui inesistente: dalla stigmatizzazione sprezzante come “farsa” del processo con cui è stato condannato per 34 capi d’imputazione poco prima del suo insediamento, alla grazia concessa ai suoi 1.500 seguaci che quattro anni fa dettero l’assalto a Capitol Hill; dalla cacciata di quanti su quell’assalto avevano indagato all’incredibile decreto che vieta l’ingresso negli Stati Uniti di tutto il personale della Corte penale internazionale e ne congela i beni presenti in territorio statunitense, a causa delle imputazioni sgradite, prima tra tutte quella contro il suo amico Netanyahu. È una concezione che, insieme alle pratiche crudeli da essa legittimate, gode del consenso popolare. Non è una novità. È esattamente ciò che successe con il fascismo e con il nazismo, che ottennero un consenso di massa alle loro politiche immorali e disumane fascistizzando il senso civico e così producendo, a livello di massa, il crollo della morale e del senso di umanità. Sono questo crollo del senso morale e questa diffusione dell’odio razzista contro i migranti, attestati dalla popolarità di Trump nelle destre estreme di tutto il mondo, la vera minaccia al cuore della democrazia, che risiede precisamente nel principio di uguaglianza e in quello dignità di tutti gli esseri umani.

Ebbene, questo disprezzo per il diritto e per la giurisdizione e, insieme, per la morale e per il senso di umanità è il prodotto di una concezione primitiva e anti-costituzionale della democrazia che si sta diffondendo in tutti i regimi populisti, in crescita costante in tutto l’Occidente. La democrazia consisterebbe unicamente nel potere della maggioranza uscita vincente dalle elezioni: un potere che si vuole accreditato come espressione della volontà popolare e che perciò non tollera né limiti, né vincoli, né controlli, a cominciare da quello giudiziario che si vuole neutralizzare. Un potere, dunque, virtualmente totalitario.

3. C’è poi un secondo aspetto allarmante di questa degenerazione della democrazia. Fino alla svolta trumpiana, negli anni del trionfo delle politiche liberiste, l’asimmetria tra il carattere globale dell’economia e della finanza e il carattere ancora prevalentemente locale della politica e del diritto aveva provocato una crescente subalternità dei pubblici poteri ai poteri privati delle grandi imprese economiche e finanziarie, in grado di trasferire i loro investimenti dove massima era la possibilità di sfruttare il lavoro, di devastare impunemente l’ambiente, di non pagare le imposte e di corrompere i governi. Veniva però mantenuta la separazione tra sfera pubblica e sfera privata. Oggi si sta compiendo un’ulteriore regressione: l’aperta volontà di questi poteri privati, a cominciare da Elon Musk e dagli altri multi-miliardari immediatamente accorsi alla corte del nuovo autocrate Donald Trump, anch’egli miliardario, di liberarsi di qualunque condizionamento giuridico e politico e la loro aspirazione a dominare direttamente il mondo. Si sta prospettando, in breve, il dominio di pochi padroni del mondo, accomunati dalla volontà di fare interamente a meno della sfera pubblica, dall’intolleranza di qualunque condizionamento giuridico o politico, dal sostegno prestato a tutte le forze reazionarie dell’Occidente e dal negazionismo dei problemi globali.

È una mutazione che rischia di contagiare l’intero mondo occidentale e che è intrinsecamente distruttiva. Nel momento in cui, più che in qualunque altro momento della storia, sarebbe necessario lo sviluppo, a livello globale, di un sistema più complesso e articolato di garanzie della pace, dell’uguaglianza e dell’ambiente naturale, il diritto sembra scomparso dall’orizzonte della politica mondiale: diritti fondamentali e principio di legalità, separazione dei poteri e controlli giudiziari sono diventati estranei al linguaggio del potere politico e di quello economico, tra loro sempre più alleati e talora confusi. Inutile dire che a questa crisi della democrazia ha contribuito potentemente, in Occidente, il crollo delle sinistre, provocato dal loro vuoto programmatico, dal loro sradicamento sociale e dalla loro sostanziale subalternità al pensiero liberista.

La manifestazione più vistosa di questa mutazione è la privatizzazione dei beni comuni e della sfera pubblica. Emblematico è il fenomeno impersonato da Elon Musk, che possiede la grande maggioranza dei satelliti che girano intorno alla Terra – 7.000, che diverranno presto 12.000 – e tramite loro gestisce, controlla e trae profitto da gran parte delle nostre comunicazioni e informazioni, in palese contrasto con il Trattato sulle attività nello spazio extra-atmosferico stipulato a Washington il 27 gennaio 1967. L’articolo 1 di questo trattato stabilisce infatti che “l’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, saranno svolte a beneficio e nell’interesse di tutti i paesi, quale che sia il grado del loro sviluppo economico o scientifico, e saranno appannaggio dell’intera umanità”. È una norma chiaramente violata dal quasi monopolio dello spazio di cui Musk si impossessato. Si tratta, ripeto, di un mutamento di regime. Fino a ieri il capitalismo neoliberista ha devastato la sfera pubblica e sottomesso la politica all’economia, mantenendo tuttavia la separazione formale tra le due sfere. Il fenomeno Musk segnala una svolta di sistema: l’appropriazione e il diretto governo privato di settori fondamentali della vita civile e della vita pubblica globale, tramite una soppressione della mediazione pubblica e perciò una regressione pre-moderna allo stato patrimoniale dell’età feudale, quando la politica non si era separata dall’economia quale sfera pubblica ad essa sopraordinata.

Di qui un ultimo aspetto della crisi in atto delle democrazie. Un corollario di questa personalizzazione e privatizzazione della politica è la logica schmittiana del nemico, sviluppatasi sia nelle politiche estere che nelle politiche interne.

Anzitutto nelle politiche estere. Gli Stati Uniti, rimasti orfani del nemico dopo il crollo dell’URSS, hanno immediatamente trovato il loro nuovo nemico nel terrorismo e poi di nuovo nella Russia, nella Cina e, tendenzialmente, in tutto il non-occidente. Le due guerre in atto sono entrambe conflitti identitari, anche se tra russi e ucraini e tra ebrei e islamici non esiste nessuna ragione razionale di ostilità: l’Ucraina ha fatto a lungo parte della Russia e gli ebrei, dopo la loro cacciata nel 1492 dalla cattolica Spagna trovarono rifugio a Salonicco e in Turchia e convissero pacificamente a lungo nell’impero ottomano che certamente non ha mai conosciuto l’antisemitismo sviluppatosi invece nell’Europa cristiana.

In secondo luogo nelle politiche interne, dove la logica del nemico è diventata la logica della politica, secondo un altro perverso insegnamento di Carl Schmitt. L’odio identitario è il grande dramma della politica odierna, che sta minando le nostre democrazie e promuovendo fondamentalismi, razzismi e fascio-liberismi. Il linguaggio della politica è diventato un linguaggio perentorio, aggressivo, urlato, mai problematico, mai aperto al dubbio, mai interessato alle ragioni e ai punti di vista diversi. I partiti, soprattutto i partiti populisti, colmano il loro vuoto culturale e programmatico inventando nemici: i precedenti governi, le forze di opposizione, la libera stampa, i magistrati, i migranti, i tossicodipendenti, i piccoli devianti. Questa logica del nemico ha contagiato la società, nella quale i conflitti e gli odi sono diventati tanto più aggressivi e violenti quanto maggiori sono le condizioni di miseria e di abbandono nelle quali vivono le persone. Se non vogliamo precipitare nel baratro delle guerre e degli odi, questa logica deve essere abbandonata, nella politica interna e più ancora nella politica estera, e sostituita dalla logica opposta della non violenza, del dialogo, del confronto razionale, del compromesso, della solidarietà, della tolleranza reciproca e del reciproco rispetto.

4. Ebbene, tutto questo rende più attuale e necessario che mai il nostro progetto di una Costituzione della Terra. Contro questa degenerazione della politica e della democrazia non basta richiamarsi ai sacri principi: all’uguaglianza e alla dignità di tutti gli esseri umani, ai loro diritti, alla separazione dei poteri, al valore della legalità e simili. In assenza di garanzie, questi principi sono solo parole, ignorate o peggio sbeffeggiate dai nuovi padroni del mondo. Ciò che occorre – la sola possibilità di salvare le nostre democrazie e con esse la pace, la sicurezza del genere umano e la nostra stessa dignità – è l’allargamento, a livello dei nuovi poteri selvaggi, del paradigma costituzionale e garantista. Solo portando il costituzionalismo, le garanzie dei diritti e dei beni vitali all’altezza degli attuali poteri globali e delle loro aggressioni, è possibile civilizzare questi poteri e funzionalizzarli all’attuazione di quei sacri principi, oggi ridotti a vuota retorica e sicuramente scomparsi dall’orizzonte della politica e dell’economia.

È questo il tratto specifico e originale del nostro progetto di una Costituzione della Terra, che lo differenzia da tutte le carte internazionali dei diritti: l’introduzione delle garanzie, cioè dei divieti e degli obblighi senza i quali la pace e l’uguaglianza sono mere enunciazioni di principio, pura retorica, promesse non mantenute ma sistematicamente violate. È la centralità delle garanzie e delle istituzioni di garanzia che rende attuabile il nostro federalismo garantista: la messa al bando delle armi tramite la previsione della loro produzione e del loro commercio come gravi crimini contro l’umanità, giacché senza armi le guerre sarebbero impossibili; l’istituzione di un demanio planetario dei beni comuni vitali, come l’acqua potabile, l’aria, le grandi foreste e i grandi ghiacciai, dalla cui tutela dipende la continuazione della vita sul nostro pianeta; l’istituzione di una sanità e di un’istruzione pubbliche – di ospedali e di scuole – in tutto il mondo a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione; un fisco globale progressivo in grado di finanziare le istituzioni globali di garanzia, ma anche di impedire le gigantesche accumulazioni di ricchezze, inevitabilmente destinate ad impieghi illeciti.

È solo con l’introduzione di queste garanzie e perciò con l’espansione del paradigma costituzionale oltre lo Stato nazionale, che possiamo non solo fronteggiare le catastrofi che incombono sul nostro futuro, ma anche rifondare le nostre democrazie nazionali e promuovere lo sviluppo di una democrazia cosmopolita. È questo il progetto di una Costituzione della Terra, a sostegno del quale la nostra associazione “Costituente Terra” ha promosso un movimento d’opinione internazionale. È la sola alternativa a un futuro di disastri e poi alla fine del nostro stesso futuro. Di fronte alla gravità di questa minaccia e poi alla prospettiva del venir meno del nostro stesso futuro, c’è una sola risposta realistica e razionale: rifondare la democrazia, onde assicurare un futuro all’umanità; ripensare la geografia democratica dei poteri, identificandome e stabilendone i limiti e le separazioni, garantire le forme della partecipazione popolare e della rappresentanza politica e costruire un sistema efficiente di funzioni e di istituzioni globali di garanzia della pace, dei diritti e dei beni fondamentali.

Naturalmente non possiamo essere ottimisti. La direzione nella quale stiamo andando è addirittura il tramonto dell’idea stessa di democrazia, che rischia di trasformatasi nell’illusione di una breve stagione del passato. E tuttavia, come spesso ripetiamo, non dobbiamo confondere ciò che è improbabile da ciò che è impossibile. Non dobbiamo identificare ciò che i poteri economici e politici non vogliono fare con ciò che è impossibile fare. Né dobbiamo confondere, se non vogliamo nascondere le responsabilità della politica e i potenti interessi che la condizionano, tra conservazione e reali­smo, squali­ficando come irreali­stico o utopistico ciò che sempli­cemente contrasta con gli interessi e con la volontà dei più forti. Contro questa fallacia pseudo-realistica, che offre una legittimazione teorica allo stato di cose esistenti, dobbiamo mostrare che la vera mancanza di realismo consiste nell’idea che l’umanità possa continuare nella sua corsa incontrollata e spensierata verso lo sviluppo insostenibile, la crescita delle disuguaglianze e la produzione di armi sempre più micidiali, senza andare incontro al disastro. L’assenza di realismo consiste nel non vedere la realtà dell’odierno caos globale e nell’ignorare le politiche – o l’assenza di politiche – che la determinano. Di questa realtà facciamo tutti parte, e contribuiamo a consolidarla o a modificarla con le nostre scelte, con le nostre teorie, con le nostre politiche e soprattutto con la nostra inerzia. E tutti ne portiamo, per come essa è e per come sarà, la responsabilità.

 

 
USA, note sullo stato delle cose PDF Stampa E-mail
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Mercoledì 05 Agosto 2020 14:57

di Franco Romanò

C'è chi sostiene che il capitalismo è proprio morto.1 Più modestamente noi ci domandiamo: fino a quando gli Usa saranno in grado di continuare a scaricare i costi della loro egemonia imperiale? Partiamo dalle sommosse seguite all’assassinio di George Floyd per andare indietro nel tempo e anche per confrontare questo movimento con quelli precedenti, ma di questi ultimi vent’anni. La differenza è grande, perché il contesto è radicalmente cambiato e perché è diverso anche il movimento. Il numero di chi ha perso il lavoro e non sa se e quando potrà riaverlo ammonta a una metà degli occupati stabilmente. In secondo luogo, ci sono contemporaneamente la pandemia e un crollo verticale della domanda interna, in terzo luogo è cresciuta la radicalità del movimento mentre Occupy wall street, per esempio, era la coda annacquata delle prime esplosioni No global, nato in un momento in cui l’egemonia liberal era ancora forte, mentre il movimento era in crisi dopo i fatti di Genova. Tanto annacquata da avere in Hilary Clinton addirittura un simbolo femminista: fu facile per i democratici convogliare quel movimento nei comitati elettorali pro Obama e poi mandarlo a casa una volta eletto il presidente. Non sarà per niente facile farlo questa volta e basta osservare gli slogan che si sono visti un po’ dappertutto e alcune interviste. Partiamo da Seattle, guarda caso proprio lì. Una parte della città è stata occupata e dichiarata città libera dalla polizia e autogestita; ma ancora più stupefacente nel servizio andato in onda persino alla tv italiana è che la polizia locale partecipa al movimento perché durante la pandemia ha collaborato con le reti solidali per la consegna di cibo e medicinali; questo però significa che le barriere si erano già incrinate prima dell’assassinio di Floyd!

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Un articolo e un film sulle contraddizioni delle ONG PDF Stampa E-mail
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Lunedì 08 Febbraio 2016 14:50

della redazione

A partire da un articolo di Arundhati Roy e Jamal Juma, che qui proponiamo e dal film di Fermando Leòn de Aranoa Perfect day, una riflessione della redazione di Ol su ruolo e contraddizioni delle ONG.

Starting from an article written by  Arundhati Roy e Jamal Juma, here enclosed, and from the film A perfect day by Lèon de Aranoa, what follows is the debate inside OL staff about role and nowadays contradictions of NGOs. 

 

A cosa servono certe ONG di Arundhati Roy e Jamal Juma (1)

…Come il FMI ha imposto l’Aggiustamento Strutturale, e ha sottoposto a torsioni i governi, costringendoli a tagli della spesa pubblica per sanità, istruzione, assistenza all’infanzia, sviluppo, le ONG sono entrate in azione.

La Privatizzazione del Tutto ha comportato anche l’ONGanizzazione del Tutto.

Alla scomparsa dei posti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, le ONG sono diventate una fonte importante di occupazione, anche per coloro che sono consapevoli di ciò che in realtà rappresentano. E certamente, non tutte le ONG sono cattive.

Fra i milioni di ONG, alcune conducono un lavoro notevole, radicale e sarebbe un travisamento addossare a tutte le ONG gli stessi difetti.

Tuttavia, le ONG finanziate dalle imprese o dalle Fondazioni costituiscono il mezzo con cui la finanza mondiale coopta i movimenti di resistenza, letteralmente come gli azionisti acquisiscono quote delle compagnie, per cercare di assumerne il controllo dall’interno. Si innestano come nodi sul sistema nervoso centrale, i percorsi lungo i quali scorre la finanza globale.Le ONG funzionano come trasmettitori, ricevitori, ammortizzatori, mettono sull’avviso ad ogni impulso sociale, attente a non infastidire i governi dei paesi che le ospitano. (La Fondazione Ford richiede alle organizzazioni che finanzia di firmare un impegno in tal senso). Inavvertitamente (e talvolta avvertitamene, di proposito), servono da postazioni di ascolto, con le loro relazioni e i loro convegni e con le altre attività missionarie, che alimentano di informazioni un sistema sempre più aggressivo di sorveglianza di Stati sempre più repressivi. Più agitata è una zona, maggiore è il numero di ONG in essa presenti.regia di Fernando Léon de Aranoa

Maliziosamente, quando il governo o settori della Stampa delle Corporation desiderano condurre una campagna diffamatoria contro un autentico movimento popolare, come il Narmada Bachao Andolan (movimento che resiste alla costruzione della diga di Narmada e che inoltre lavora per l’ambiente e i diritti umani, N.d.T.), o contro il movimento di protesta contro il reattore nucleare di Koodankulam, questi movimenti vengono accusati di essere ONG che ricevono finanziamenti dall’esterno.

Il governo e la stampa sanno molto bene che il mandato della maggior parte delle ONG, in particolare di quelle ben finanziate, è quello di promuovere il progetto della globalizzazione delle multinazionali, non quello di contrastarlo.

Armate con i loro miliardi, queste ONG hanno esondato nel mondo, trasformando rivoluzionari potenziali in attivisti stipendiati, in artisti, intellettuali e registi foraggiati di soldi, gradualmente attirandoli lontano dal confronto radicale, avviandoli nella direzione del multi-culturalismo, dello sviluppo sociale e di genere – della narrazione retorica espressa nel linguaggio delle politiche identitarie e dei diritti umani.

La trasformazione dell’idea di giustizia nell’industria dei diritti umani è stato un “golpe” concettuale in cui le ONG e le Fondazioni hanno svolto un ruolo cruciale. Il focus attentivo sui diritti umani consente un’analisi tutta concentrata sulle atrocità, in cui viene impedita la visione di un panorama più vasto e le considerazioni su tutte le parti in conflitto, per esempio, sui Maoisti e il governo indiano, o sull’esercito israeliano e Hamas, ed entrambi i contendenti possono essere stigmatizzati come Violatori dei Diritti Umani.

Gli espropri di terre da parte delle società minerarie, o la storia dell’annessione della terra dei Palestinesi da parte dello Stato di Israele, diventano allora solo note a piè di pagina con ben poca evidenza nella narrazione in merito.

Questo non vuol dire che i diritti umani non abbiano importanza. Sono importanti, ma non sono un prisma abbastanza idoneo attraverso il quale visualizzare o lontanamente capire le grandi ingiustizie del mondo in cui viviamo

…E una delle ragioni per cui la società civile è così debole, e fino a pochi anni fa invece era il contrario, i palestinesi erano l’avanguardia degli attivisti arabi, è che sono arrivate le nostre ONG a rafforzarla.

I primi internazionali sono stati una svolta. Erano quasi tutti specialisti di diritti umani, e hanno tradotto in termini giuridici l’occupazione, impostando il ricorso all’Onu, al tribunale dell’Aja. Le convenzioni di Ginevra sono diventate la nostra nuova arma. Una delle più efficaci, dice Jamal Juma, il coordinatore delle iniziative contro il Muro. Ma poi sono arrivate Ong di altro tipo: quelle di aiuto allo sviluppo. E un po’ alla volta, si sono trasformate in una forma di welfare dice. Oggi le Ong, qui, sono centinaia. Nessuno sa più neppure il numero preciso. E la maggioranza si dedica a progetti inutili, il cui solo obiettivo è offrire uno stipendio ai palestinesi. E tenerli buoni. Anche perché i direttori di progetto sono stranieri: i palestinesi sono chiamati semplicemente ad attuare progetti pensati altrove. Il risultato è stato lo sfibramento della società civile. E soprattutto, il passaggio dalla politica alla tecnica. Quando l’esercito confisca una strada, si ha subito una Ong pronta a costruirne una alternativa. Ma l’obiettivo, dice Jamal Juma, dovrebbe essere combattere l’occupazione, non aiutarci a conviverci…

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Rigenerare il futuro. Oltre la crescita, oltre il patriarcato. Seminario tenuto all’Università di Parma il 5, 6 Novembre 2015. PDF Stampa E-mail
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Martedì 10 Novembre 2015 13:15

Milano, Autunno 2015, Giardini Pubblici Indro Montanelli (er)Seguito al recente seminario di Parma del 5,6 novembre intitolato Rigenerare il futuro, il dibattito redazionale si è concentrato su due temi in particolare: la necessaria e non occasionale assunzione nella propria mentalità della cura da parte degli uomini (Picchio) e lo specismo come modello di dominazione su tutti gli animali umani e non.

After the recent seminary held in Parma on the 5th and 6th November last, and entitled To Regenerate future, the debate inside the editorial staff has focused two themes in particular: the necessary and not occasional engagement on care work by men (Picchio) and speciesism as a model of domination on all animals, human and not (Rivera).

Overleft Vervassung teilnahmt an einer Zusammenkunft in Parma: wieder erzeugen den Zukunft. Unsere Debatte zwei Punkten eingestellt hat: die notwending Veranwortlichkeit des Männer für die Pflege Arbeit und Menschen Gattung als ein Modell alles Tiere (menschlich und nicht) zu herrschen.

Franco:

Prima di sentir parlare qui Latouche pensavo che decrescita fosse una parola sbagliata o per lo meno inadeguata per nominare una cosa giusta: dopo quello che ho sentito penso che il problema non sia sulla parola, ma sulla cosa, nel senso  che tutto il discorso è fondato su un richiamo alla coscienza individuale, una forma di soggettivizzazione che è legata fortemente al solo individuo. Per questo, passato il primo momento, non mi stupisco più che si sia parlato poco di pratiche  e ancora meno di conflitto, perché se il tipo di coscientizzazione si richiama a pratiche personali, al massimo può dare vita a una morale ma non a un'etica. Prendo questa distinzione dal greco, dove la morale è solo personale, mentre l'etica è comunitaria, ha a che fare con il metron, la regola sociale, la legge condivisa. Certe affermazioni di Latouche mi hanno ricordato l'intervista reciproca fra Luis Sepulveda e Carlin Petrini, un libro molto bello, piacevole da leggere sul piano della letteratura, con il suo elogio della convivialità, il richiamo a una vita sobria. Certo che è tutto condivisibile, ma una semplice sommatoria di pratiche personali virtuose non può risolvere i problemi.

Alla fine ho l'impressione che dietro questi discorsi ci sia in realtà una sorta di rinuncia pregiudiziale alla politica, sostituita da una predicazione di tipo laico. Vorrei però a questo punto abbandonare il termine e riprendere invece il discorso aperto da Paolo sui modi di  rallentare la distruzione e sul come lavorare dentro la devastazione e la distruzione. Infine, mi piacerebbe di più capire anche la connessione con il femminismo perché la parola decrescita è stata criticata anche in alcuni interventi come quello della Di Dio, per esempio. In  sintesi, se a partire dalla proprie pratiche non si introduce un discorso di secondo livello che è la capacità di saltare dalla propria pratica a cui nessuno chiede di rinunciare a un livello di confronto vero con altre, non si esce dal circolo vizioso e ripetitivo e infatti non so bene come si continuerà dopo questo convegno anche se penso che dovremmo fare uno sforzo per sollevare questo problema.

Adriana:

Penso che il termine decrescita risulti troppo connotato di pauperismo e quindi provocatorio verso la maggioranza delle persone, già affaticata da allarmi mediatici e assillanti su tutto, prospettando una vita individuale misera e stentata, con il risultato di oscurare il vero fuoco del problema: l’esigenza di un cambiamento radicale del sistema di produzione e consumo, e di relazioni tra persone, animali non umani e risorse. Concordo con chi, nella giornata del Convegno alla quale abbiamo partecipato, ha sottolineato  l’importanza della presa di coscienza, anche individuale, delle  tematiche affrontate dal termine, al quale preferirei sostituire l’espressione conversione ecologica, o qualcosa del genere. L’obiezione che fai tu Franco sulla dimensione troppo soggettiva e impolitica mi fa venire in mente i discorsi sul femminismo dell’autocoscienza agli inizi degli anni ’70, quando si riteneva che una pratica così individuale e soggettiva difficilmente potesse approdare a una dimensione politica. Il fatto è che secondo me il momento culturale è già una dimensione politica. Ho notato però che al Convegno si è parlato poco di iniziative collettive, quanto soprattutto di pratiche personali, neppure si è parlato di conflitto, che suppongo si determini con chi si trova a proprio agio nel sistema attuale.

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