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Con Marx e oltre il marxismo
Il corpo e il tempo nel soggetto produttivo delle piattaforme – di Stefano Rota PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Domenica 21 Gennaio 2024 12:35

Pubblichiamo da  www.altraparola.it un articolo sui prossimi scenari delle lotte del lavoro:

Stefano Rota, ricercatore indipendente e lavoratore nomade. Gestisce il blog di “Transglobal”. Ha pubblicato recentemente con altri autori La (in)traducibilità del mondo (Ombre Corte, 2020) e ha contribuito a F. O. Dubosc (a cura di) Lessico della crisi e del possibile (SEB27, 2019). La sua ultima pubblicazione è: La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online italiane e lusofone.

 

The politics of invisibility involves not actual invisibility, but a refusal of those in power to see who or what is there.

Robert JC Young, Postcolonial remains

 

Simonetta, la driver di Amazon che ha contribuito alla stesura de “La fabbrica del soggetto. Ilva 1958 – Amazon 2021“, ha portato la sua testimonianza a due presentazioni del libro organizzate a Genova tra luglio e novembre ‘23.

Senza giri di parole, Simonetta ha detto sostanzialmente di sentirsi a suo agio in Amazon, di lavorare in un ambiente amichevole e rispettoso, dove tutti si prendono cura dei problemi dei colleghi e dove gli standard di sicurezza sul lavoro sono molto elevati.

Inutile dire che queste dichiarazioni hanno suscitato qualche perplessità tra i presenti. Almeno alcuni di loro si aspettavano una posizione incentrata sulla critica alle forme di neo-taylorismo digitale, al dominio impersonale e onnipresente dell’algoritmo nel governare il lavoro in Amazon. In altre parole, la lettura più comune che si trova nelle riviste e nelle pubblicazioni che adottano un approccio radicalmente critico all’economia delle piattaforme, che sottoscrivo.

 

Niente di tutto questo. Simonetta è soddisfatta del suo lavoro in Amazon.

Di fronte alla comprensibile difficoltà di una parte del pubblico ad accettare quel discorso, ho tentato di riflettere sulla verità che quello stesso discorso enuncia, prendendo come punto di partenza un film dell’anno scorso, Nomadland, della regista Chloé Zhao.

La disincantata donna di mezz’età interprete del film di Zhao gira da sola negli spazi immensi del Mid West con un camper, fermandosi per lavorare nei magazzini di Amazon, ma subito pronta a ripartire alla volta del successivo parcheggio dove incontra amici in perenne movimento come lei. Non traspare nessuna particolare tensione o rivendicazione: ciò che Amazon propone a Fern, la protagonista del film, è né più né meno quello di cui lei stessa ha bisogno per il tipo di vita – nomade – che ha scelto, o che si è trovata costretta a scegliere.

Dove si produce, allora, questo scarto tra la nostra lettura e le vite di milioni di persone che accettano il lavoro in Amazon o in una delle innumerevoli piattaforme così com’è, nonostante i tentativi (alcuni riusciti, molti no) di introdurre forme di organizzazione sindacale di base per contrattare un altro tipo di rapporto lavorativo? Prima di provare a dare una risposta del tutto personale a questa domanda, vorrei aggiungere un ulteriore elemento che, spero, faciliti la comprensione di cosa mi accingo, sia pur con dubbi, a sostenere.

Un amico sindacalista è stato in prima linea nel 2020 nella lotta di rivendicazione finalizzata al riconoscimento dei riders di Just Eat come lavoratori dipendenti. L’azienda, accogliendo la richiesta, ha introdotto anche in Italia il modello Scoober già applicato in altri paesi[1]. I riders hanno dal 2021 un orario di lavoro, una retribuzione fissa basata su ciò che quel modello prevede. È stato presentato come un successo, un cambio di direzione in un settore, quello della platform economy, che ha bisogno di regole chiare e giuste per i lavoratori, che ostacolino la giungla del cottimo come spinta allo sfruttamento e all’autosfruttamento.

I problemi sono sorti quando questo accordo è stato presentato ai lavoratori e lavoratrici: una larga parte non era per niente contenta del risultato ottenuto, dichiarando di preferire di gran lunga la forma lavorativa vigente prima. I più contrari erano prevalentemente i lavoratori migranti e i più giovani.

Eccoci arrivati al punto da cui vorrei partire per articolare il mio punto di vista. Amazon, ma più in generale la platform economy, sembra inviare implicitamente un messaggio a tutti i lavoratori attuali e potenziali (e non solo ai lavoratori, a dire il vero): ‘dimenticatevi i vecchi modelli, gerarchie, procedure, contratti, carriere. Qui il lavoro è smart’. Non sono importanti le esperienze lavorative pregresse (meglio se non se ne hanno, come dichiarano le agenzie di lavoro interinale), così come la provenienza o i piani per il futuro, ammesso che si sia in grado di farne. La platform economy vive di un perenne presente flessibile e competitivo, tutto viene deciso sul momento, tutto è on-demand (ILO Report).

Conta solo quello che fai, il modo in cui gestirlo lo scegli tu. Se il magazzino è lontano decine o centinaia di chilometri e raggiungibile solo in macchina e gli alloggi sono proibitivi, se piove e fare le consegne in bici diviene problematico e pericoloso, se sei in basso nel ranking e non ti arrivano lavori, organizzati, trova una soluzione, la piattaforma non è fatta per intervenire in questi ambiti. I “piccoli turchi” di benjaminiana memoria sono pagati per addestrare la piattaforma a fare altro.

Mi sembra che su questo punto si giochi una partita importante. Si definisce un nuovo regime di veridizione, sulla cui base ci riconosciamo (ci soggettivizziamo) e produciamo a nostra volta delle verità. Quali enunciati troviamo all’interno di questo sistema, oltre a quello descritto? Provo a individuarne alcuni. Il lavoro e il mondo che lo contiene è sempre più cyber, lavoro e gioco si avvicinano tanto da produrre sovrapposizioni, vengono usati gli stessi strumenti e lo stesso linguaggio (gamification del lavoro). Perdono di senso vecchi schemi centrati su relazioni di mercato a due lati (two-sided market), siamo lanciati verso la multilateralità (multi-sided economy), siamo allo stesso tempo lavoratori e consumatori, controllati e controllori, fornitori e utilizzatori di dati. Viene depersonalizzata la funzione del controllore onniveggente che distribuisce punizioni e meriti sulla base del suo insindacabile giudizio. L’algoritmo che lo sostituisce non dà giudizi, valuta asetticamente. E lo fa sulla base del principio che tutti controllano uno, e a sua volta questo uno contribuisce al controllo, alla punizione o all’encomio, di chiunque altro, tramite voti, likes, recensioni (siamo quindi nel regno dell’anopticon descritto da Umberto Eco).

Se questi enunciati definiscono, almeno parzialmente, il modo in cui l’economia delle piattaforme rende “vera”, riconoscibile, “parlabile” una modalità lavorativa, il discorso di Simonetta, così come quello dei riders di Just Eat, diviene altrettanto riconoscibile, altrettanto vero, all’interno del rapporto soggetto-vita-lavoro che li connota. Entrano in gioco, da un lato, le strutture economiche, le architetture sociali, istituzionali e culturali, le norme, i confini materiali o immateriali che suddividono gli spazi creando forme di inclusione, esclusione, inclusione tramite l’esclusione (De Genova), o inclusione differenziale (Mezzadra, Neilson). In una parola, il dispositivo. Dall’altro, i viventi e le loro esistenze, i percorsi individuali e collettivi, le priorità, le scelte, all’interno dell’organizzazione di un tempo di vita e di lavoro che si struttura senza soluzione di continuità. “Quando tutto il tempo della vita è tempo di produzione, chi misura chi?”, si chiedeva Negri, in un libro di quarant’anni fa. Le forme di soggettivazione si danno all’interno della rete che il dispositivo dispiega, non la precedono, non vi entrano già precostituite. Il soggetto è, allora, una “funzione derivata” (Deleuze), si definisce in un gioco di rapporti di forze che lo vedono come oggetto di conoscenza, come soggetto “identificato” e parlabile sulla base di rapporti di potere, come soggetto etico che si forma nella relazione con se stesso (Foucault).

È sulla base di questi rapporti che si creano le condizioni di possibilità per la formulazione di discorsi su come viene vissuto un determinato modo di lavorare, di vivere, abitare, immaginare. Sono i rapporti che delineano gli itinerari che ciascuno di noi ha seguito per arrivare dove si trova, quelli con i quali Stuart Hall ci ricorda di “venire a patti”, perché è in funzione di quelli che ci raccontiamo.

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Dall'insorgenza diffusa al mutualismo antagonista PDF Stampa E-mail
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Martedì 21 Marzo 2023 08:13

Introduzione

 

Il convegno di due giorni che si è tenuto alla GKN di Firenze l’11 e il 12 febbraio scorsi ha proposto molte iniziative e offerto molte riflessioni; in questo scritto il campo sarà ristretto al mutualismo e ai progetti di re industrializzazione virtuosa, che mi sono sembrati i momenti più innovativi. Chi vuole approfondire altri aspetti, li trova sia visitando il sito del collettivo, sia consultando il programma del Festival della letteratura Working class di fine marzo.

Le esperienze presentate di seguito e di cui si è discusso nei gruppi di lavoro  sono solo alcune perché  non ho potuto seguire tutti i gruppi, vista la contemporaneità degli orari; inoltre sono diverse, sia per peso specifico, sia per la durata e il consolidamento del loro percorso. Tuttavia, esse hanno tutte un filo che le lega insieme e che gira intorno ad alcune parole chiave: mutualismo conflittuale, autogestione, buone pratiche.

Da McDonald’s alla ristorazione di quartiere

La prima esperienza viene da Marsiglia, dove i lavoratori e le lavoratrici di un McDonald’s situato in una zona periferica si ritrovarono di punto in bianco la lettera di licenziamento. A raccontare tutta la vicenda sono stati due donne e due uomini del collettivo.

Dopo il licenziamento avviarono subito la vertenza con proteste e scioperi, ma non si sono limitati a chiedere semplicemente la solidarietà del quartiere o di altre fabbriche: il collettivo si è posto da subito il problema del luogo in cui si trovava e delle sue esigenze. Così, invece d’intraprendere il percorso standard di molte vertenze della stessa tipologia, più o meno ovunque - cassa integrazione o strumenti simili, ricerca di un nuovo proprietario ecc – i lavoratori scelsero da subito l’ipotesi di autogestione e rilevamento del sito ma anche l’idea di cambiare il tipo di offerta di ristorazione.

Un importante passaggio del loro intervento è stato proprio all’inizio, quando tutto è cominciato: invece di pensare semplicemente alla vertenza il collettivo si è chiesto:

 

“che cosa volevamo fare delle nostre vite,”

 

intendendo con questo che non avrebbero accettato ipotesi di trasferimento in altre località.

La ricerca di alleanze nel territorio è sfociata in un progetto di rapporto con le imprese agricole di prossimità per arrivare a una proposta di ristorazione più adatta alle esigenze del quartiere e anche alle tradizioni locali. Alla fine sono riusciti nel loro intento, anche grazie ad appoggi istituzionali. Naturalmente questa come altre esperienze simili dovrà reggere alla prova del tempo, ma dimostra che un altro approccio è possibile.

 

 

 

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Quattro righe e due versi per l’operaismo, una memoria di poca Storia PDF Stampa E-mail
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Venerdì 19 Novembre 2021 15:21

di Paolo Rabissi

Tra memoria e Storia il resoconto di un 'quadro intermedio' della nascita di Potere operaio, 1969-1970

…se poi mi chiedi che sorte ha avuto la mia scrittura in versi nel periodo della nostra  partecipazione a ‘La classe’ e alla nascita di ‘Potere Operaio’, la risposta è molto semplice,  quella della talpa ( decisamente contestuale al ‘ben scavato…’, assunto dagli operaisti!). E come altrimenti? Non credere che io l’abbia sotterrata subito. Vero è che Oreste[1], appena sbarcato a Milano e appena conosciuti i miei (tiepidi) tormenti letterari in prosa, mi propose di aggiustare la faccenda con un semplice “… dopo i tuoi Proust Musil Kafka Joyce ecc che romanzi si possono ancora scrivere?” Ma lui veniva dalla rivista “Quindici” dove con Balestrini la decostruzione dei linguaggi compresi quelli poetici, era sin troppo avanzata. Il mio vero tormentone era in realtà quello dei versi. Sicché in una delle occasionali riunioni a casa nostra, più o meno primavera ’69, approfittando di un momento favorevole, ho letto davanti a tutti quelli che c’erano  dei versi di cui non ricordo quasi nulla tranne di averci prospettato una sorta di molteplicità dei percorsi che ritenevo avessimo davanti a rivoluzione imminente. L’accoglienza fu tiepida, Sergio[2] col quale avevo un po’ più di confidenza, abbozzò un sorrisino. Toni invece non ebbe alcuna esitazione e mi rispose argomentando intorno alla sua decisa simpatia verso l’Uno e non verso il molteplice. Tanto bastó, dopo quell’exploit la mia scrittura in versi l’ho davvero sotterrata. So quando è riemersa. Quando mi resi conto che il progetto che mi aveva legato direttamente all’operaismo milanese per me era concluso, dopo una stagione non brevissima, alla fine del 1970.

La riassumo qui oggi, a ottantun’anni suonati, per tanti di quei motivi che non ha senso provare ad enumerarli. Scelgo però il più vicino nel tempo. E’ stata la storia di Potere operaio dello storico, ex-militante di Potere operaio, Marco Scavino,[3] consigliatomi da Sergio, a spingermi a scrivere. Delle memorie personali, si sa, occorre avere la giusta diffidenza, il tempo sovrappone e sovrappone. Personalmente godo però di due vantaggi. Anzitutto quanto scrivo è filtrato anche dalla memoria di Adriana, mia compagna dal ’66. Inoltre ho conservato e salvato dalle vicende una delle mie agende del ’69-’70. 

La maggior parte dei protagonisti di quella vicenda, deceduti a parte, sono tuttora attivi[4]. I morti che ho nella mente e nel cuore sono Mario detto Marione e Primo[5]. Quando Mario scendeva da Torino a ragguagliarci sulla situazione delle lotte alla FIAT sembrava portarsi dietro l’intera Mirafiori, aveva così tanta aria intorno a sé e davanti alla Statale disegnava a braccia allargate la traiettoria delle lotte con la stessa calma e pazienza con cui avrebbe sopportato poi le ore di prigione. Primo è stato per me uno dei due, tre fratelli, maggiori, che la buona sorte mi ha regalato a Milano. Nella  sua libreria Calusca negli anni ottanta e novanta mi ha dato tutto lo spazio e l’ospitalità che desideravo per le mie righe e i miei versi.

Del gruppo milanese Sergio è stato il protagonista ma tutti nell’insieme esprimevano ai miei occhi autorevolezza e competenza pari alla passione politica. Questa della passione, a dirla tutta, è uno dei tormentoni che mi accompagnano da sempre. Ho imparato a distinguere la passione viscerale dei sognatori da quella fredda dei visionari. La passione fredda, la passione lenta di questi ultimi è quella che accompagna l’organizzazione di un progetto, flessibile di fronte alle contraddizioni, rigida nell’applicazione del metodo. Sentii immediatamente che in costoro la passione politica non cedeva nulla al sogno, procedeva con metodo su

vignetta di Mario Dalmaviva

un percorso non semplice e pericoloso, capace di ripiegare su se stesso ma anche di cogliere le occasioni per moltiplicare le maglie della rete. C’erano nelle fabbriche europee, dall’inizio degli anni sessanta, dopo anni di subordinazione impotente di fronte ai piani del capitalismo che, per ristrutturarsi, voleva riforme costose soprattutto per gli operai, lotte che non avevano cittadinanza perché organizzate autonomamente fuori cioè dalle mediazioni sindacali e politiche. Bisognava leggerle, studiarle, comprendere dove volevano andare, sostenerle.

Per quanto fossi alle soglie della laurea e già coinvolto nella Storia del Risorgimento al punto che il prof. Franco Della Peruta mi aveva messo nelle mani l’archivio di un  ministro delle finanze della destra storica, il liberale moderato Raffaele Busacca, la storia del movimento operaio dal dopoguerra in avanti finì con l’attrarmi potentemente proprio perché, nella lettura che gli operaisti facevano di quelle lotte a me sconosciute (non solo a me dato che una certa vulgata anche di stampo marxista dava la classe operaia del tutto integrata nel sistema), sembravano aprirsi materiali possibilità di un progetto anticapitalistico, capace di intercettare l’antiimperialismo diffuso nella società e l’antiautoritarismo gestito dai movimenti studenteschi. Quel progetto sembrava poter dare reale consistenza a quel diffuso sentimento di rivoluzione in corso che nel ’68 agitava un po’ tutti. Qualcosa doveva succedere. Per me e Adriana che già insegnavamo ribaltare metodi e contenuti nella scuola sarebbe già stata una rivoluzione.

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OPM: Uprising/sollevazione-voci dagli USA, postfazione PDF Stampa E-mail
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Martedì 16 Giugno 2020 17:24

La Postfazione di Sergio Bologna, che qui riproduciamo, conclude l’opuscolo, per ora solo on line, dell’Officina Primo Maggio intitolato Uprising/sollevazione – voci dagli USA https://www.officinaprimomaggio.eu/uprising-voci-dagli-usa/ . Pubblicato a tempo di record dal team di Officina Primo Maggio a ridosso della sollevazione delle città statunitensi, in occasione del brutale omicidio di George Floyd a Minneapolis, comprende in apertura la testimonianza della scrittrice Rachel Kushner cui seguono i saggi di Bruno Cartosio, Mattia Diletti, Alessandro Portelli, Ferdinando Fasce, Ferruccio Gambino, e l'intervista a Rick Perlstein (C.Antonicelli).

 

Scrivevamo nel nostro Manifesto pubblicato un mese e mezzo fa:

Officina Primo Maggio è un progetto politico-culturale di parte, consapevolmente volto a esplorare le condizioni che rendono praticabile il conflitto, inteso come capacità di attivarsi da parte dei soggetti direttamente coinvolti nei processi produttivi, distributivi, insediativi ecc. Pur consapevoli che molte delle modalità in cui si è espressa la conflittualità sociale nel fordismo sono divenute obsolete, restiamo convinti che sul terreno del lavoro molto resti ancora da fare e da sperimentare, se teniamo conto non solo del conflitto dispiegato ma anche di quello tacito, intrinseco, latente e delle sue possibilità di espressione nell’universo digitale.

Oggi chi ci legge può legittimamente chiedere: avete evocato la parola “conflitto” che era un po’ passata di moda e sostituita da altre (per esempio “diseguaglianze”) e ora vi trovate dinanzi a una forma di conflitto che rasenta la guerra civile. Come vi ponete di fronte a questi avvenimenti? Rientrano nella vostra idea di conflitto?

Certo che rientrano, ma per capirci meglio sarà necessario fare una precisazione.

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La soggettività nell'epoca dell'alienazione totale PDF Stampa E-mail
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Giovedì 06 Febbraio 2020 14:50

di Franco Romanò

The second part of a study about the intersections between patriarchy and capitalism. As for the first, this essay has been deeply discussed by the editing staff.

La seconda parte di una riflessione sugli intrecci fra patriarcato e capitalismo. Come nella prima parte il saggio è stato lungamente discusso dalla redazione

Introduzione

Riprendiamo il discorso iniziato con il saggio L’intreccio patriarcato-capitalismo libero dai marxismi, affrontando il problema della  soggettività nelle condizioni in cui si pone oggi. Soggettività e soggetto, infatti, non sono sinonimi, come non lo erano e non lo sono classe e coscienza di classe. Qualunque soggetto o più soggetti che si muovono sul terreno della lotta sociale, non possono fare della loro condizione e collocazione oggettiva (o supposta tale) nella dinamica dei rapporti sociali di produzione, il solo strumento teorico d’analisi e orientamento delle proprie scelte, dal momento che, essendo il capitalismo un sistema conflittuale e anomico per natura, non può che produrre conflitti; ma un conflitto che sia la semplice forma pavloviana reattiva rispetto a un sistema intrinsecamente conflittuale, non è di per sé una risposta politica. In altre parole, soggetti, soggettività e soggettivazione sono un processo unico in divenire.

Disincanto del mondo e femminilizzazione del lavoro

Paola Rudan, nella parte iniziale di una recensione alla raccolta di scritti di Silvia Federici a cura di Anna Curcio per Ombre corte e intitolato Reincantare il mondo fa un’affermazione che ci sembra un ottimo  punto di partenza: non ci occuperemo invece, per il momento, della riflessione critica di Curcio sull’opera di Federici in generale:

C’è un rapporto tra il weberiano «disincantamento del mondo» e la violenza contro le donne. L’intensificazione di questa violenza può essere considerata la leva di un processo di riorganizzazione del capitalismo su scala globale, la pratica che fa strada al dominio della tecnica e della razionalizzazione del lavoro che il sociologo tedesco riconosceva come cifra del capitalismo e della sua organizzazione politica nello Stato.

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Ecologia del tempo. Un nuovo sentiero di ricerca PDF Stampa E-mail
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Giovedì 23 Maggio 2019 13:16

di Piero Bevilacqua


Riproduciamo, con le note redazionali di Adriana Perrotta Rabissi e Franco Romanò, gli ultimi due capitoli del saggio di Piero Bevilacqua 'Ecologia del tempo. Un nuovo sentiero i ricerca'. L'intero saggio compare su 'Altronovecento, ambiente, tecnica, società. Rivista on line promossa dalla Fondazione Luigi Micheletti'. Dei due capitoli iniziali – Il tempo della fabbrica e Un secolare apprendistato sociale – riportiamo l’ultimo capoverso del secondo che ci sembra riassumere efficacemente la lunga digressione storica.

Il saggio di Bevilacqua ricostruisce il lungo processo storico che ha piegato gli individui e la natura stessa alla logica della produzione capitalistica. Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ha introdotto una drammatica asimmetria fra il tempo della natura e quello del consumo di cui solo recentemente si stanno tutte le implicazioni, così come la percezione del lavoro occulto necessario alla riproduzione sociale, in larga parte delegato alle donne.

The essay written outlines the long historical process which has folded human beings an nature to the logic on capitalistic production.The intensive exploitation of natural resources has created a dramatic asimmetry between time of nature and time of consumption, which only recently we are perceiving all implicaitons on: the same happens for what concerns for the occulto work necessary to social reproduction, mainly delegated to women.
*

"Dunque, il sistema industriale di fabbrica organizzato dal capitalismo per produrre merci su una scala incomparabilmente più vasta rispetto al passato ha inaugurato un mutamento epocale: un’appropriazione totalitaria del tempo di vita degli uomini ( e, come vedremo, una dimensione e velocità di sfruttamento della natura destinata a crescere indefinitamente.) Finora gli storici hanno sottolineato, di questo grande mutamento, soprattutto le conquiste della tecnologia, la crescita senza precedenti della produzione della ricchezza, lo sfruttamento dei lavoratori. Assai meno l’inizio una nuova storia della vita biologica e psichica degli esseri umani: quello della perdita del controllo personale del tempo della propria vita e il loro assoggettamento a una potenza astratta e totalitaria che li avrebbe rinchiusi entro ferree delimitazioni e ritmi imposti. Gli uomini sottomessi al tempo della società industriale diventavano gli utensili di una nuova epoca di asservimento. E oggi suona paradossale rammentare che, nell’epoca in cui Immanuel Kant indicava come supremo principio etico del nascente illuminismo quello di considerare « l’uomo sempre come fine e mai come mezzo», gli uomini in carne ed ossa stavano per essere trasformati, nella loro grande maggioranza, in mezzi della società industriale capitalistica."

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La violenza strutturale della società capitalistico-patriarcale PDF Stampa E-mail
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Sabato 17 Novembre 2018 14:03

di Adriana Perrotta Rabissi

La violenza strutturale della società è alla base di tutti gli episodi individuali e collettivi di violenza degli uomini sulle donne

Sono anni, almeno dalla fine del secolo scorso conclusosi sotto l'egida della Conferenza Mondiale di Pechino nel 1995, che si moltiplicano gli inviti alla valorizzazione delle donne oltre che nella sfera del privato familiare anche in quella del pubblico, nel mondo del lavoro e nei settori  della finanza e del management, come risorsa per riequilibrare il progressivo sconvolgimento del sistema neocapitalistico, mettendo a frutto le qualità naturali che oggi definiremmo attitudine alla cura di persone e cose, alla collaborazione e alla mediazione piuttosto che alla lotta, all'empatia verso colleghe e colleghi, al conforto di chi soffre, oltre a una buona dose di senso pratico nel risolvere problemi.

Arriva in soccorso di queste considerazioni la trappola della compassione, la felice definizione che una sociologa statunitense ha dato della funzione patriarcale attribuita alle donne nella divisione sessuale del lavoro, vale a dire il compito di porsi in mezzo agli uomini per moderarne la naturale barbarie, ingentilire i costumi, riparare ambienti, cose e persone ferite fisicamente e psichicamente, mediare nei conflitti nel privato familiare e/o nel pubblico/sociale, grazie alle doti naturali femminili.

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L’infamia originaria PDF Stampa E-mail
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Mercoledì 09 Novembre 2016 12:50

di Lea Melandri

Il corpo della donna, nel modo in cui compare sulla scena sociale è già altro da sé. È essenzialmente forza lavoro produttrice di figli, di lavoro domestico e di piacere per l’uomo. Questo costituisce l'originaria violenza sessista patriarcale.
The woman's body, in the way how it appears on the social stage, is from the beginning somethin else: it is essentially labour force producing children, housework and pleasure for the man. All that constitutes the original, sexsist, patriarchal violence.

Riportiamo un capitolo di un testo fondamentale di Melandri, pubblicato in prima edizione nel 1977, perché riteniamo che l'analisi della originaria violenza sessista nei confronti della donne in epoca patriarcale, sia un elemento da tenere in considerazione, soprattutto oggi, in presenza  di una certa confusione e una inedita alleanza tra istanze neo-liberali e istanze fondamentaliste all'interno dei femminismi italiani.

Dal capitolo Lo scarto irriducibile, pagg. 32-35 (Lea Melandri, L'infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica, Roma, Manifesto libri 1997)


L’economicismo e l’idealismo sono vizi che la sinistra marxista ha ereditato dalla borghesia, ma sono anche evidentemente il prolungamento di un più antico privilegio patriarcale. La confusione tra economia/economicismo, bisogni individuali/individualismo, sessualità/intimismo, nasce, in una forma di cui solo oggi riusciamo a vedere la contraddittorietà, nelle analisi di Marx e Engels.

Prendiamo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato.

Engels ricostruisce la storia della famiglia,  del rapporto uomo-donna, servendosi delle stesse categorie interpretative che Marx aveva usato per l’analisi dello sfruttamento economico.

Quando si dà per sottinteso che non esiste una differenza specifica uomo-donna, relativa alla sessualità, e che la sessualità femminile coincide col desiderio dell’uomo, l’equivalenza donna=proletario diventa fin troppo facile. Il corpo della donna, nel modo in cui compare sulla scena sociale è già altro da sé. È essenzialmente forza lavoro produttrice di figli, di lavoro domestico e di piacere per l’uomo.

Il predominio maschile non nasce dunque con la proprietà privata e con la famiglia monogamica, come dice Engels, ma si situa all’origine del rapporto tra i due sessi in un atto di espropriazione che solo ora comincia ad affiorare alla coscienza.

Con il predominio della sessualità maschile si instaura anche il primato, materiale e ideologico, delle relazioni economiche su tutti gli altri rapporti sociali.

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L'inchiesta di ricercatori e studenti cinesi sulla Foxconn la più grande azienda del mondo nel settore dell'elettronica PDF Stampa E-mail
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Giovedì 28 Gennaio 2016 14:03

di Paolo Rabissi

La coraggiosa inchiesta di un gruppo di ricercatori cinesi rivela il regime di sfruttamento della più grande azienda elettronica del mondo, le forme di rifiuto, i suicidi e la resistenza opposta dalle maestranze in un paese privato di tutti i diritti per noi fondamentali.

The fearless survey written by a groups of chinese reserchers reveals the regime of exploitation of workers in the biggest electonmic farm in thje world and the different forms of rejection, the suicides, and the resistence opposed by the workers, in a country lacking of rights that we consider as fundamental.

Nella fabbrica globale, vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, ombre corte / culture, 2014, è il risultato di una ricerca svolta sul campo da ricercatori studenti cinesi dentro e intorno alla Foxconn, la più grande azienda terzista del mondo nel settore dell’elettronica (per i principali marchi come Apple, Ibm, Hewlett & Packard, Nokia, Samsung) con 1,3 milioni di occupate/i, di cui un milione in Cina e gli altri sparsi sul pianeta, perlopiù giovanissime/i che abbandonano la fabbrica appena possono. Non a caso l’inchiesta ha preso le mosse dalla catena di suicidi del 2010 (tra il gennaio 2010 e la fine del 2011 si sono buttati dai piani alti dei dormitori ventiquattro operai di cui sette donne). Il volume rivela le condizioni di lavoro nelle numerose fabbriche dell’impresa e dunque anzitutto documenta e informa ma si fa da subito anche discorso critico: parte dalla Foxconn e dai suoi specifici modelli di produzione (taylorismo, fordismo e toyotismo messi insieme) nonché dalla resistenza opposta per sottrarsi alle sue forme più opprimenti ma coinvolge nella denuncia l’intero sistema capitalistico mondiale di produzione delle merci. Il regime di produzione altamente dispotico, il sistema di lavoro dei dormitori, lo sfruttamento della manodopera studentesca, i trucchi per evitare il riconoscimento delle malattie professionali e degli incidenti sul lavoro,  le forme di resistenza e le lotte senza sindacato sono i temi della ricerca. Il sottotitolo del libro ci avvisa: in esso si parla anzitutto di ‘vite al lavoro’, un’espressione che è molto chiara anche a noi in Occidente. Qui nella fabbrica cinese però la vita delle relazioni, degli affetti e degli interessi non legati alla produzione viene in pratica svelta dal corpo e dalle menti in maniera più rozza, diretta e efficace e basti qui l’esempio che ci sembra particolarmente significativo dell’organizzazione dei dormitori attigui alle fabbriche. Per questo riportiamo dal libro qualche pagina tratta dal capitolo secondo - “Il regime di produzione della Foxconn” - nel quale gli autori descrivono la vita interna alla macchina Foxconn, le condizioni di lavoro, il sistema di norme, controlli, disciplina, punizione e umiliazione che vuole garantirsi obbedienza e sottomissione.

I luccicanti dispositivi che i nostri nipotini maneggiano con gioia e disinvoltura da una parte e la grande quantità di merci che arriva in Occidente a basso costo sottendono un mondo di sfruttamento ai limiti del sostenibile che spiega la crescita impressionante della potenza industriale, e non solo, della Cina. Sui caratteri di questo sviluppo dentro l’evoluzione storica del comunismo cinese si sofferma la prefazione al libro di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, di essa pubblichiamo in coda un amplio stralcio.

La coraggiosa denuncia dei giovani ricercatori fa luce su un mondo concentrazionario ai limiti della schiavitù (li/le chiama iSlaves Ralf Ruckus, curatore dell’edizione tedesca del libro, gli operai e le operaie dell'azienda) inimmaginabile nemmeno nell’Europa della prima rivoluzione industriale. Qui la vita è senza respiro, operai e operaie maturano alla svelta la coscienza dello scarto tra le promesse tanto magnificate quanto bugiarde e la realtà e fuggono via appena riescono a superare le difficoltà incredibili che le autorità interne alla fabbrica oppongono. Del resto il turn over è garantito all’azienda da una disponibilità pressoché illimitata dei milioni di migranti dalle campagne (Gambino-Sacchetto nelle pagine della prefazione qui riportate  stimano 250 milioni negli ultimi venticinque anni) nelle quali peraltro difficilmente è possibile una ricollocazione tanto la vita è stata qui altrimenti desertificata.  Gambino-Sacchetto medesimi peraltro hanno curato nel 2015 per Jaca Book il libro Morire per un iPhone, una ricerca di Pun Ngai, Jenny Chan, Mark Selden in cui viene messo a fuoco il legame tra la committente Apple, uno dei più grandi marchi dell'elettronica e la Foxconn, nonché le lotte e le vite dei/le giovani operai/e. Se ne può òeggere una recensione sul Manifesto a questo link http://ilmanifesto.info/latelier-infernale-degli-smartphone/

CAPITOLO SECONDO

Il regime di produzione della Foxconn

di Deng Yunxue, Jin Schuheng e Pun Ngai

Il dormitorio come prolungamento della catena di montaggio .

Il sistema di lavoro dei dormitori si distingue principalmente dal fatto che i dormitori e le officine vengono diretti in modo simile. I dormitori sono il prolungamento delle catene di montaggio. In realtà per gli operai i dormitori dovrebbero essere uno spazio per vivere ma sono insopportabili come dei campi di prigionia. La severa gestione comincia con il check-in nel dormitorio mediante tessera magnetica. Se si dimentica la tessera o se si prova con una tessera altrui, non si entra. Un’operaia di una fabbrica a Tientsin ha riferito: “Una volta un’amica del mio villaggio aveva dimenticato la tessera aziendale e usava nel dormitorio quella di un altro. Gli addetti alla sicurezza se ne sono accorti e le hanno dato una lezione”. Se non si effettua il check-in con la tessera si può perdere il diritto di accesso al dormitorio. Un operaio a Langfang afferma:

Se vuoi entrare nel dormitorio, devi sempre fare il check-in con la tessera aziendale. Se non fai il check-in per tre giorni di fila, si parte dal presupposto che tu per tre notti non abbia dormito lì. Di conseguenza rischi di perdere il tuo letto nel dormitorio e non puoi più abitare lì. Allora devi prendere in affitto una stanza fuori.

Il rigido sistema di controllo degli accessi impedisce il contatto tra operai di diversi dormitori. Se si vuole raggiungere un altro dormitorio bisogna farsi registrare con la propria tessera aziendale. Ma già solo la registrazione può comportare delle noie. Un’operaia del complesso di fabbriche a Taiyuan racconta:

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Monete locali come ipotesi di uscita dalla moneta capitalistica? PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 27 Febbraio 2015 08:27

di Paolo Rabissi

Ci sono attualmente in circolazione circa 5000 monete locali nel mondo, anche in regioni europee, Germania e Italia comprese. Per qualche esperto si tratta di esperimenti di possibile successo anche in senso antagonista grazie a certi loro aspetti alternativi al mercato e alla crescita a tutti i costi. Ma i dubbi sono molti.

In der ganze Welt, gibt es 5000 örtlischen Münzen: auch in Deutschland und Italien. Mehrere Fachmänner glauben, dass sie positven Experimente sein können. In der Tat, haben sie einige Merkmale, die alternative gegen Markt Õkonomie und die Welthanschaung des Wachstum dürfen sein. Jedoch, dieUnsicherheiten sind viele.

Nowadays, there are nearly 5.000 local currencies in the world, also in some parts of Europe, even in Italy and Germany. According to some experts in economics, they may be successful as experiments thanks to some features which are alternative to the market economy and to the ideology of the growth at all costs. Anyway, doubts are many.

C’è nella proliferazione delle monete complementari e/o alternative, sia pure di livello locale (o magari proprio per questo), qualcosa per cui le si possa avvicinare alle iniziative caratterizzate dal ‘prendersi cura’? E’ una domanda che volentieri vorremmo porre (non mancherà l’occasione) alla stessa Silvia Federici e alla quale tuttavia verrebbe a un primo esame da rispondere affermativamente. Le cose in realtà sono più complicate, come vedremo.

Breve parentesi: complicazioni o meno facciamo nostro l’invito di Federici a dare fiducia ai progetti sperimentali anche se non sono immediatamente di marca antagonista, ci interroghiamo, al di là della loro capacità di collegarsi con le molteplici realtà di movimento, se si muovono in un’ottica che riesca a far proprie anche istanze concrete provenienti dal mondo del lavoro cosiddetto di cura o riproduzione. Per non agitare solo problemi teorici richiamo ad esempio qui, anch’io come Romanò, l’esperienza della Ri-Maflow, la fabbrica milanese occupata e trasformata in un punto d’eccellenza del riciclo elettronico, che dunque pratica una logica rigenerativa delle risorse e che contemporaneamente in spazi liberati della fabbrica organizza un mercato permanente dell’usato, un laboratorio per il riuso di apparecchi elettrici ed elettronici, un Gas e un’attività di autoproduzione con prodotti del Parco agricolo Sud Milano e di SOS Rosarno (a cui fornisce una logistica alternativa alla grande distribuzione), una palestra, una sala musica, corsi, eventi culturali e spettacoli, un ostello per migranti e senza casa (più notizie qui ). Insomma un momento, non più solo teorico, di ricerca dei modi per gettare il ponte per noi necessario tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. Una risposta solo di resistenza o è possibile intravederci dentro qualcosa di più? Questa e simili esperienze si sottraggono a pratiche di semplice solidarismo e mutuo soccorso prefordisti? E si sottraggono tanto più a semplici pratiche che fanno del ‘dono’ il loro orizzonte? Si muovono in altre parole dentro un orizzonte politico antagonista postfordista?

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I predicatori della virtù: Marco Bascetta legge L'uomo indebitato di Maurizio Lazzarato PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Lunedì 03 Marzo 2014 00:00

di Marco Bascetta

Ci sembra utile riproporre la lettura di Marco Bascetta del libro di Maurizio Lazzarato, L’uomo indebitato, perché sintetizza con lucidità la situazione della guerra di classe condotta da una classe sola che l’autore del libro descrive. Dominio sempre più autoritario e ricattatorio dei governi della finanza contro cui Lazzarato propone non solo ‘mobilitazione’ ma anche ‘sottrazione’, intesa quest’ultima come un momento di «smobilitazione», di inoperosità o sottrazione, di rifiuto dei ruoli e delle identità. La recensione di Bascetta è stata pubblicata sul quotidiano Il manifesto con il titolo di cui sopra il giorno 11-12-2013.

È dall'inizio della crisi e poi con sempre crescente insistenza che in Europa si sente parlare di «virtù». Ne parlano i governi, ne parlano gli organismi dell'Unione, ne scrivono quotidianamente gli editorialisti della grande stampa. Di espressioni come «paesi virtuosi», «politiche virtuose», «bilanci virtuosi», «comportamenti virtuosi» siamo letteralmente subissati.

Il ritorno alla virtù è la promessa che i governi «responsabili» rivolgono ai mercati , alla Bce, alle agenzie di rating, a Berlino e a Bruxelles e, paradossalmente, anche alle proprie cittadinanze per le quali la vita virtuosa si traduce perlopiù in una vita grama fatta di bassi salari e disoccupazione, di smantellamento dello stato sociale e consumi declinanti, di un divario sempre più abissale tra i primi e gli ultimi, di una desolante mancanza di prospettive.

Del resto, il connubio tra povertà e virtù è un tema classico della predicazione d'ogni tempo. C'è davvero da rimpiangere, nel dilagare di queste retoriche del sacrificio virtuoso, quella narrazione delle origini (suggestivamente riassunta ne La favola delle api di Bernard de Mandeville,1704) che faceva onestamente discendere il rigoglio dell'industria e dei mercati dai vizi e dall'avidità che mettevano - e tutt'ora mettono - in movimento la macchina economica.

La parola d'ordine della virtù potrebbe fungere da leitmotiv del Governo dell'uomo indebitato, come recita il titolo che Maurizio Lazzarato ha scelto per il suo secondo lavoro dedicato alla centralità del rapporto creditore/debitore nel mondo contemporaneo (Deriveapprodi, pp.214, euro 13). Il debito non è, infatti, un puro e semplice rapporto economico, nemmeno una obbligazione giuridica, ma una vera e propria forma di governo che combina la coercizione esogena con l'interiorizzazione di una colpa, di una dipendenza, di uno stato di assoggettamento, determinando la condizione presente e ipotecando quella futura. E che segna un passaggio decisivo nell'appropriazione capitalistica dalla centralità del profitto, che ha dominato i due decenni della ricostruzione postbellica e del boom, a quella della rendita e dell'imposizione fiscale.

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Piero Sraffa, la sfinge marxiana PDF Stampa E-mail
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Martedì 18 Gennaio 2022 14:17

Di Franco Romanò

Perché tornare a occuparsi di un uomo enigmatico e di un economista per lungo tempo dimenticato? Tanto più che la teoria economica appare ostica ai più. Cercherò di dirne le ragioni, evitando il più possibile argomenti troppo specifici.

Nel mondo rovesciato in cui ci capita di vivere, sono sempre più numerosi gli articoli e i saggi critici sull’andamento dell’economia e sulla teoria economica medesima, scritti da uomini di potere. Uno in particolare mi ha colpito perché al centro del suo discorso compare una metafora poco usuale in un uomo e mi piace pensare che senza il femminismo di mezzo, non gli sarebbe venuta in mente. Tanto più che Giandomenico Scarpelli, un dirigente della Banca d’Italia che si occupa di collocazione dei titoli di stato, è ritornato a occuparsi di teoria economica per aiutare la figlia a sostenere gli esami universitari. Al centro del suo discorso c’è una mirabolante cucina: il forno è acceso e va a mille, i fuochi pure, le pentole sono già pronte e così tutti gli accorgimenti tecnici più sofisticati; solo che non c’è più nulla da cucinare e infatti nel titolo del suo saggio l’economia odierna diventa una Ricetta senza ingredienti. Ecco, una prima risposta al quesito che ho proposto posto all’inizio potrebbe essere questa: perché l’economia di Sraffa, parte dagli ingredienti per arrivare alla cucina.

In economia esiste prima di tutto una sostanza fisica: il grano, per esempio, oppure la tela, le stoffe e tutto ciò che serve per riprodurre la vita di ogni giorno, che richiede cura e attenzione, oggi come migliaia di anni fa. Tale sostanza fisica si estende poi alle costruzioni, alle case e a quello che nel gergo economico si definisce infrastruttura: le strade, i ponti, le ferrovie, i beni che permettono di vivere. Questa è l’economia, ma è forse di ciò che si parla quando nella nostra contemporaneità si usa tale termine? Di questo si occupa la teoria economica? No: oppure, come accaduto in Italia dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, si nomina la sostanza fisica dei beni soltanto per registrare i danni, gli argini dei fiumi che collassano, i comportamenti anomali del clima, le morti sul lavoro. La pandemia da Covid 19 viene drammaticamente a confermare tutto questo a livello planetario. I beni sono naturalmente anche delle quantità e non solo qualità, cioè valori d’uso, su questo non c’è alcun dubbio; dunque la necessità di quantificarli e misurarli fa parte della natura fisica dell’economia, ma tale misurazione dovrebbe essere la conseguenza di una modalità di gestione delle risorse. Nelle scuole medie italiane s’insegnava un tempo l’economia
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Di pandemia, di riflessioni, di conflittualità possibili PDF Stampa E-mail
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Sabato 26 Settembre 2020 10:53

di Paolo Rabissi

Non sono in molti, né in molte, coloro che sul comportamento di massa durante la fase più critica della diffusione del virus, gettano uno sguardo meno pessimista e fuori dagli schemi. Ci prova a mio parere anche Raffaele Sciortino nell’articolo comparso su Sinistrainrete (https://www.sinistrainrete.info/globalizzazione/18721-raffaele-sciortino-crisi-pandemica-e-passaggi-di-fase.html) il 21 settembre 2020.

Non mi soffermo sulla complessità delle sue analisi (interessanti i commenti dei lettori) che sono peraltro un’articolazione approfondita dei temi svolti nei suoi due libri precedenti[1], mi basta qui prendere in considerazione le sue riflessioni conclusive quando analizza appunto il comportamento medio della massa durante la diffusione del virus.Il trionfo della morte, Pieter Bruegel il vecchio

La prima: “…una parte della classe sfruttata e oppressa, minoritaria ma sostenuta da un senso comune assai più ampio, non è scesa in campo per interessi particolari ma ha in un certo senso lottato contro se stessa come elemento del capitale, ha contrapposto, pur inconsapevolmente, la riproduzione sociale a quella sistemica, ha cozzato, senza volerlo, con i limiti della propria condizione proletaria particolare, interna al capitale, come limiti alla riproduzione della comunità umana.”

Quel ‘pur inconsapevolmente’ e quel ‘senza volerlo’ sono intanto una spia linguistica che merita a mio parere un approfondimento per quello che sottende.

La seconda riflessione: “In secondo luogo, [la massa] ha dimostrato di saper concretamente disconnettere, sia pure per una breve parentesi, la riproduzione della vita dalla riproduzione del capitale.”

Questa è un’affermazione davvero singolare a prima vista. La sua apparente semplicità rimanda invero a una temperie culturale del nostro tempo che a mio parere chiama in causa la presenza del femminismo e delle sue lotte. Perché si può anche far finta che l’espressione sia quello che è, l’affermazione cioè che vivere bene senza malanni è la prima necessità, il primo desiderio dell’umanità. Pensa alla salute! sembra dire… il lavoro è importante certo ma la salute viene prima perciò fermati e vedi di fermare anche gli altri che ti stanno vicino.

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Manifesto della nuova rivista Officina Primo Maggio PDF Stampa E-mail
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Giovedì 30 Aprile 2020 00:59

Pubblichiamo il Manifesto della redazione della nuova rivista 'Officina Primo Maggio' in occasione dell'uscita del primo numero. Come viene detto nel Sommario: "...una rivista ma anche e soprattutto un luogo di confronto e di dialogo, un’operazione politico-culturale, una “officina” di esperienze concrete di azione sociale e di ricerca militante, nata dal desiderio di ripensare collettivamente che cosa ha lasciato l’esperienza della rivista Primo Maggio, che cessava le sue pubblicazioni nel 1989." La rivista, che avrà anche una versione cartacea, è in rete a questo link https://www.officinaprimomaggio.eu

Manifesto – Officina Primo Maggio 

Tutto era pronto, il primo numero impacchettato, il manifesto rivisto e limato. Stavamo per andare in stampa e ci siamo ritrovati – come tutta Italia, come mezzo mondo – nel bel mezzo dell’emergenza da Covid-19, con tutte le sue conseguenze sanitarie, economiche, sociali e culturali. Per il primo numero sono stati necessari piccoli ritocchi e qualche aggiustamento. Gli obiettivi e i metodi del progetto, invece, ci sono sembrati ancora più necessari.

Il lavoro capitalistico, il lavoro per conto terzi nelle sue molte forme è ancora il rapporto sociale fondamentale, la base delle disuguaglianze. Non si può parlare di società oggi senza tenere in considerazione lo squilibrio tra chi vende la propria forza lavoro e chi la acquista, senza cogliere le mille forme di sfruttamento, autosfruttamento, diseguaglianza negli interstizi della produzione e della riproduzione sociale. Da qui la necessità di superare questo squilibrio ricorrendo alle forme praticabili di conflitto con molteplici tipologie di coalizione.

Officina Primo Maggio è un progetto politico-culturale di parte, consapevolmente volto a esplorare le condizioni che rendono praticabile il conflitto, inteso come capacità di attivarsi da parte dei soggetti direttamente coinvolti nei processi produttivi, distributivi, insediativi ecc. Pur consapevoli che alcune delle modalità in cui si è espressa la conflittualità sociale nel fordismo sono divenute obsolete, restiamo convinti/e che sul terreno del lavoro molto resti ancora da fare e da sperimentare, se teniamo conto non solo del conflitto dispiegato ma anche di quello tacito, intrinseco, latente, e delle sue possibilità di espressione nell’universo digitale. La domanda a cui tenteremo di volta in volta di rispondere è: come e dove produrre conflitto oggi, in particolare nei rapporti di lavoro e nelle prestazioni di natura tecnico-intellettuale.

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L'ecomarxismo di James O'Connor PDF Stampa E-mail
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Venerdì 04 Ottobre 2019 09:55

di Riccardo Bellofiore

Rilanciamo qui in Overleft, dal sito Palermograd, il commento che Riccardo Bellofiore dedica a James O’ Connors studioso marxista ed ecologista, oggi dimenticato, ma che fu assai in auge nei primi anni ’80, quando l’ecologia cominciava a entrare nell’orizzonte del pensiero di sinistra anche a seguito della rotture epistemologiche del ’68. Questioni come la non neutralità della scienza, l’opera in Italia di studiosi e studiose come Laura Conti, Giulio Maccaccaro, Angelo Baracca ed Ercole Ferrario, segnarono quegli anni. Anche O’ Connors fa parte di quel momento particolare e il saggio di Bellofiore, che problematizza la formazione del valore spingendosi a considerare anche il lavoro riproduttivo della cura, si inserisce bene nel nostro ragionare sui marxismi del ‘900: per questo ci sembra utile riproporlo.

Riccardo  Bellofiore è professore ordinario di scienze economiche all'Università degli studi di Bergamo.

Quasi 30 anni fa usciva sulla benemerita (e ormai quasi introvabile) 'rivista internazionale di dibattito teorico' MARX 101 questo testo, adesso recuperato dall'autore (profetico nell'assenza di trionfalismo "sulla conciliabilità tra lotte operaie e lotte in difesa della natura ") che gentilmente ci permette di ripubblicarlo. L'ultimo libro di James O'Connor (L'ecomarxismo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma 1989, trad. dall'inglese di Giovanna Ricoveri, pp. 56, Lit. 10.000), autore largamente e tempestivamente tradotto in italiano, ha certamente almeno un merito: quello di proporre, controcorrente, una "conciliazione" tra marxismo e ambientalismo, due corpi teorici e due esperienze politiche che molti vedono invece fieramente contrapposti.

L'obiettivo del saggio è, mi pare, conseguentemente duplice. Ai marxisti, che spesso snobbano con sufficienza la "parzialità" della questione della natura o criticano il troppo tiepido anticapitalismo degli ecologisti, O'Connor vuole mostrare che la difesa della natura è parte integrante dell'apparato categoriale marxiano, e non qualcosa che le è estraneo. Ai "verdi", O'Connor vuole mostrare come un ecologismo coerente non possa che investire globalmente i processi economici e politici su scala planetaria, segnati irrimediabilmente dal dominio del capitale.

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La sinistra, la Cina, la globalizzazione PDF Stampa E-mail
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Mercoledì 08 Maggio 2019 13:04

Riproponiamo dal numero dell’autunno 2018 di Critica marxista il saggio di Romeo Orlandi ‘La sinistra, la Cina, la globalizzazione’.


Economista e sinologo, Romeo Orlandi è Vice Presidente dell’Associazione Italia-Asean. Insegna Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari. Ha diretto il think tank Osservatorio Asia. Ha vissuto e lavorato a Los Angeles, Singapore, Shanghai e Pechino. Collabora a quotidiani e riviste specializzate. È autore di numerose pubblicazioni su Cina, India, Vietnam, Indonesia, Singapore e Asean. Per l’editore Derive Approdi ha pubblicato il romanzo “Il Sorriso dei Khmer Rouge”.

Lo scontro USA Cina dentro questa globalizzazione si fa sempre più complesso e rischioso. L’ottimismo ideologico del libero mercato si era spinto irragionevolmente, coinvolgendo anche tutte le sinistre compresa la nostra, a pensare che la globalizzazione sarebbe stata di segno occidentale e che la bandiera della democrazia sarebbe sventolata a Pechino e a Shanghai. E’ successo invece il contrario, la Cina è tutto fuorché democratica ma produce sempre di più e meglio mentre l’Italia punta ancora sul fascino antiquato del made in Italy piuttosto che sull’innovazione.

I fatti mostrano la loro proverbiale ostinazione anche quando registrano gli spostamenti dei container. Sette dei primi otto porti al mondo per tonnellaggio movimentato sono in Cina; Singapore (4°) costituisce l’eccezione. Il porto europeo piu? trafficato e? Rotterdam, confuso al nono posto tra altre posizioni asiatiche e qualche intromissione australiana e statunitense. Alcuni decenni fa la lista era molto diversa, con un predominio delle due sponde dell’Atlantico. Spuntava ancora Genova. La classifica attuale e? la fotografia piu? nitida della trasformazione del- la Cina in Fabbrica del Mondo. Si potrebbe obiettare che le merci movimentate siano destinate anche al mercato locale, cosi? da ridurre l’impatto internazionale, come se i consumi interni assorbissero questa eclatante supremazia. In realta?, la grande maggioranza delle merci cinesi si dirige verso lidi stranieri. La Repubblica popolare e? infatti dal 2009 il piu? grande esportatore al mondo, dopo avere insidiato e poi superato agevolmente il primato della Germania e degli Stati Uniti.

La sequenza logica che se ne ricava rasenta la banalita? espositiva: i porti movimentano i container, che trasportano le merci, prodotte dalle fabbriche, generate dagli investimenti, stimolati dalle opportunita?. Sembra di assistere alla famosa cantilena Alla fiera dell’Est. Infatti, la Cina e? la destinazione preferita per gli investimenti produttivi provenienti dall’estero. Offre una calamita potente, un cocktail imbattibile di stabilita? politica, costo contenuto dei fattori di produzione, eccellente rete infrastrutturale, promessa di un immenso mercato interno. Nessun paese e? in principio cosi? attraente come la Cina per le multinazionali. Questi due soggetti hanno dato vita al piu? bizzarro matrimonio di interessi della storia economica moderna. Spinti da fini diversi, ma complementari e convergenti, hanno registrato successi innegabili. La Cina, nella linearita? di un’impresa titanica, ha trovato la scorciatoia per l’industrializzazione. Ha consegnato alla storia l’egualitarismo del modello maoista e ha adottato le dinamiche capitaliste. Gli aumenti del Pil, come mai nessun paese al mondo, testimoniano il successo di un’impresa epocale. Le grandi aziende – pur non sempre – hanno trovato gloria per le loro ambizioni: nuovi mercati e profitti crescenti. I numeri delle Nazioni Unite sono inequivocabili: nel 1990 la Cina contribuiva con il 3% alla produzione industriale mondiale; nel 2013 l’analogo valore risultava del 22%.

Le magnifiche sorti
e progressive. Con la Cina?
I governi occidentali, anche quelli di centro sinistra o dell’Ulivo mondiale, hanno sostanzialmente assecondato questo passaggio. Non si sono cimentati a modulare una tendenza che sembrava vittoriosa ovunque: dalla sconfitta del Muro di Berlino al liberismo trionfante, dal destino di benessere per tutti alla improbabile fine della storia. Dominava la convinzione che togliere gli ostacoli alla libera circolazione dei fattori di produzione avrebbe assicurato prosperita? e democrazia ovunque. Negli stessi anni la produzione industriale in Europa scendeva dal 39 al 27% del totale. Nessun allarme suonava, il percorso era marcato: i settori maturi delocalizzati nei paesi emergenti, gli addetti dell’industria convertiti in tecnici informatici, assicuratori, progettisti, artisti. Brainware, not labour intensive. Il cervello avrebbe prevalso sulle braccia, la creativita? sconfitto il sudore. Il destino di abbigliamento e calzature era segnato, nei casi piu? fortunati diretto nei capannoni in Asia. Ingentilito da comparti merceologici piu? sofisticati, il rapporto capitalelavoro non avrebbe sofferto di antagonismo.

Quando il campanello ci ha destato nel 2007, il sonno aveva generato l’ingovernabile. E? saltata la prima e piu? forte convinzione, il ruolo autoregolatore del mercato. Le contraddizioni e i lutti della crisi sono ancora evidenti. Eppure, con facilita? si era rinunciato alla politica industriale, riducendo l’intervento dello Stato nell’economia e adottando le privatizzazioni nella convinzione – fideistica prima ancora che ragionata – di una loro maggiore efficienza. L’Italia ha subi?to una fortissima, quasi invincibile concorrenza dalla Cina e dai paesi asiatici. Ne hanno pagato le conseguenze i settori maturi che basavano le loro vendite su fattori di prezzo. Tra le grandi nazioni, l’Italia ha sofferto maggiormente l’emersione di nuovi soggetti perche? la sua struttura produttiva – con piccole e medie aziende, conduzione familiare e inclinazione verso i beni di consumo – era il primo bersaglio delle merci cinesi, troppo a lungo identificate nel solito mantra: ridotta qualita?, scarso valore aggiunto, basso costo unitario. Roba cinese, insomma, che tuttavia colpiva la nostra industria e peggiorava la bilancia commerciale con Pechino.

La speranza dell’ingresso della Cina nel Wto, nel dicembre 2001, era di assimilarla velocemente alle regole internazionali. In realta?, la riduzione delle misure tariffarie ha favorito le multinazionali e le esportazioni di Pechino. Fragile si e? rivelata la difesa dell’industria nazionale, perche? se ne e? sopravvalutata la qualita? strutturale. Il made in Italy sembrava inattaccabile, prestigioso e inimitabile. E? risultato invece ammantato di retorica, sparsa copiosamente come se lo scheletro industriale del paese fosse composto da raffinati beni di consumo ai quali anelavano le sterminate masse di cittadini asiatici. Anche la meccanica strumentale – il vero cuore produttivo del paese – sembrava annegare di fronte alle immagini patinate che connotavano l’Italia. La litania era costante, come in un disco rotto: venderemo al piu? grande mercato del mondo, 400 milioni di nuovi ricchi, se ogni cinese indossasse una cravatta italiana.

La storia, e? noto, ha preso strade diverse. La Cina si e? rivelata difficile da conquistare, i suoi acquisti si sono concentrati su beni strumentali e materie prime – necessari alla Fabbrica del Mondo – e solo recentemente si e? aperta ai consumi di lusso. Contemporaneamente, dai suoi porti partivano infinite distese di container indirizzati verso i mercati internazionali. Nei paesi industrializzati pochi se ne lamentavano. Il made in China non interferiva con le specializzazioni locali; offriva anzi beni di qualita? crescente a prezzi ridotti, per la gioia della distribuzione e dei consumatori. L’antagonismo verso le lanterne rosse dei negozi era contenuto; in Italia invece – secondo un’indagine della Pew di Washington – era il piu? alto al mondo. Effettivamente i prodotti cinesi, sempre piu? presenti, possono far chiudere le fabbriche. Il flusso inverso langue; pur con l’ottimo risultato del 2017 le esportazioni crescono pigramente; l’Italia in vent’anni ha quasi dimezzato la propria quota sull’import cinese (nel 2017 l’1,1% del totale, un quinto del valore tedesco). La bilancia commerciale della Germania e? in- vece in attivo nei confronti della Cina. Il Dragone – sempre dipinto come aggressivo e invasore – man- tiene fumanti le ciminiere tedesche e genera dunque reddito e occupazione, come avviene non a sufficienza per le aziende italiane. Sarebbe stato sufficiente studiare le diversita? tra i due paesi europei per evitare il disincanto. L’illusione della Cina come mercato di conquista ha provocato la disillusione successiva. Ancora fino al 2012 la somma delle esportazioni italiane verso le piu? importanti destinazioni asiatiche (Cina, Giappone, Hong Kong, Corea del Sud) non raggiungeva in valore quelle destinate alla Svizzera (6% del totale).

Migliori ricompense hanno registrato gli investimenti internazionali, cioe? la lungimiranza di trasferire impianti oltre la Grande Muraglia. Tuttavia le aziende italiane – troppo piccole ed eurocentriche – ne hanno tratto vantaggio marginalmente. In un caso di scuola – ora sempre piu? numeroso – la Volkswagen produce piu? auto in Cina che a Wolfsburg. Le multinazionali hanno intercettato con pro- fitto la volonta? di riscatto cinese e le loro dimensioni hanno consentito investimenti sostanziosi, plu- riennali, negoziati. Bastava esaminare le loro esperienze, invece di ripetere all’infinito che Small is beautiful. Quando intervengono le trattative, l’accesso ai capitali, le economie di scala, le dimensioni contano, size matters. Mal difesa dalla sinistra, l’industria nazionale e? stata lasciata a patetici tentativi identitari, tesi a penalizzare i prodotti di Pechino. La Cina e? oramai nel Wto e le eventuali misure restrittive si decidono a Bruxelles, dove i margini italiani sono istituzionalmente ridotti.

Il feticismo dell’origine della merce

Qual e? peraltro il significato stringente dell’origine della merce? Cosa significa salvaguardare la produzione nazionale? La creazione del valore e? ormai globalizzata o almeno tende a esserlo sempre di piu?. La libera circolazione di merci, talenti, materiali, capitali, indirizza il loro reperimento ovunque sia disponibile al meglio. L’assemblaggio ha luogo nei posti piu? convenienti. La vicinanza alle materie prime per creare un’industria e? ormai un concetto che volge al tramonto. Un iPhone prodotto a Shenzhen e spedito negli Stati Uniti incide per 275 dollari nell’attivo commerciale cinese. Eppure il valore aggiunto nella Rpc e? di soli 10 dollari. Il resto appartiene ad altri luoghi, compresa la California per il progetto della Apple. Eppure ogni iPhone viene conteggiato come made in China. E? ancora opportuno affidare alle statistiche il monopolio delle informazioni commerciali? Non sarebbe piu? opportuno studiare i passaggi della creazione di valore, piuttosto che insistere sulla provenienza delle merci? No Cina, e? il cartello appeso nelle bancarelle, all’ingresso dei negozi di casalinghi e giocattoli. Ben altre contese avrebbe meritato il made in Italy, se da bandiera stinta si fosse trasformato in programma redditizio.

Un’altra statistica, drammaticamente ostinata, ci conduce al nocciolo della dinamica globale: la meta? delle merci esportate dalla Cina deriva da investimenti di multinazionali. La percentuale assolve in partenza le accuse di invasione commerciale rivolte al Dragone. La replica e? infatti semplice: Pechino sta facendo cio? che le e? stato chiesto, cioe? produrre. Ovviamente questo passaggio epocale ha dato forma alla globalizzazione. Il suo carattere economico e? stato largamente prevalente. La Cina – araldo dei paesi emergenti – vi ha trovato la soluzione per sconfiggere l’arretratezza e riproporre il suo peso politico. Il capitalismo occidentale ha scovato uno stimolo gigantesco, contemporaneamente scelta e necessita?, per i nuovi assetti. Senza contrasti ideologici, senza l’Unione Sovietica, il mondo era effettivamente sembrato piu? omogeneo, incline al benessere, pronto alla democrazia, inevitabilmente proteso verso la liberta?. The world is flat, senza ostacoli, ci ricordava il pensiero dominante. La tecnologia era disponibile, trasferibile, senza limiti; i gusti tendevano a uniformarsi, la storia sembrava al capolinea. Immaginare una globalizzazione dei diritti e delle opportunita? sembrava un ingombro fastidioso o un’illusione giovanile.

L’Asia orientale e? stata uno dei bastioni del nuovo sistema. Il trasferimento di attivita? produttive, ingigantito dalla Cina, aveva gia? interessato le quattro tigri (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapo- re), poi l’intero Sud-Est asiatico, infine il sub-continente indiano. Il suo destino era la creazione materiale di valore, potendo contare su una massa sterminata di forza lavoro disciplinata e partecipe. Ilcompito di estrarre valore spettava all’Occidente, nella sede emblematica di Wall Street. I redditi generati dalla finanza sostenevano i consumi, acquistando le sovrapproduzioni asiatiche. Il sistema aveva bisogno della compressione dei salari e dei consumi in Asia. Li?, la stabilita? permaneva la stella polare di tutti i governi. I mercati ricchi erano la destinazione immediata delle merci, con attivi commerciali reinvestiti copiosamente. Il consumo della Cina rappresenta ancora oggi il 38,6% del suo Pil; quello statunitense ha un valore notoriamente piu? alto (68,1%). Sembrava la negazione della logica economica; eppure gli assetti strategici hanno imposto questo equilibrio precario. Quando la Lehman Bros e? fallita nel settembre 2008, e? diventato evidente che i risparmi dei lavoratori cinesi non potevano continuare a finanziare i consumi della middle class americana. Per registrare le conseguenze sull’occupazione di questo eccezionale trasferimento di risorse – tra chi creava valore e chi ne godeva – e? stato invece necessario attendere i risultati elettorali piu? recenti.

Sinistra vs globalizzazione?

L’atteggiamento della sinistra verso la globalizzazione e? stato incerto, innervato da sfumature e interpretazioni. In un estremo concettuale permaneva la classica opposizione al capitalismo, del quale la globalizzazione rappresenta la versione piu? sofisticata. Se ne combatteva la spietatezza, lo scarso rispetto per i piu? deboli, l’esposizione al mercato e dunque la riduzione delle proprieta? pubbliche. Effettivamente il declino degli Stati nazionali, soprattutto in Europa, e? innegabile. Stanno sbiadendo le loro prerogative: il controllo delle frontiere, la stampa delle banconote, il monopolio della forza, l’omogeneita? culturale. Chi ha assunto questi poteri? Le organizzazioni internazionali, le banche multilaterali, le missioni militari della Nato, le multinazionali, l’egemonia statunitense. L’opposizione immediata e? stata dunque ideologica; quella seguente e? piu? concreta: i vincoli di bilancio sono spietati, non si puo? piu? svalutare e finanziare in deficit. Il primo bersaglio della globalizzazione e? il welfare. Per mantenerlo sarebbero necessarie alcune condizioni: un’eccellenza tecnologica diffusa, una specializzazione finanziaria e dei servizi e la sottomissione dei paesi emergenti. In Italia, la prima sta flettendo, la seconda non ha mai avuto luogo, la terza non e? piu? praticabile. Il riscatto dell’Asia ha intaccato i paesi deboli dell’Europa. L’opposizione della sinistra tradizionale alla globalizzazione si comprende, ma rimane una semplice testimonianza. Le risorse per reddito e occupazione – in assenza di prospettive di radicale cambiamento politico – non sono piu? disponibili. La protezione garantita durante la Guerra fredda, la possibilita? di finanziare il consenso attraverso il debito pubblico sono ormai inimmaginabili. La sicurezza dell’occupazione, la centralita? del lavoro, gli investimenti pubblici sono dei rimpianti. L’inflazione, la svalutazione, le assunzioni clientelari dovrebbero essere i rimorsi.

La Cina in trent’anni ha spostato 300 milioni di contadini nelle citta? trasformandoli in operai. Per la prima volta nella sua storia millenaria i centri urbani sono piu? popolosi delle campagne. Le fabbriche si trasferiscono con una disinvoltura inquietante. I governi occidentali sembrano impotenti. In questa cornice, e? stato opportuno irrigidirsi sulla battaglia, poi persa, dell’articolo 18? Non c’era una soluzione migliore della lenta agonia della cassa integrazione? E? stato saggio privilegiare le relazioni industriali esistenti, trascurando le forme contrattuali che si stavano affermando? Mentre si consolidavano nuovi mestieri – dai ciclofattorini alle partite Iva, nei call center e nei centri di distribuzione – nessuna spia si e? accesa quando i pensionati sono diventati la componente piu? numero- sa dei sindacati?

La sinistra di governo e? stata al contrario favorevole alla globalizzazione. Sciolta da legami ideologici, ha sposato le teorie liberiste. Ha tentato di rinnovare la vecchia tradizione socialdemocratica del deficit spending, convinta che la diluizione dello Stato avrebbe generato dinamismo e individualismo. La globalizzazione era cosi? identificata con la crescita della societa? civile, l’aumento della ricchezza, la sconfitta del sottosviluppo, la contaminazione culturale, l’affermazione di diritti universali. Inaugurata da Clinton e Blair – con evidenti affinita? con la destra moderata – ha oggettivamente raggiunto i risultati che auspicava, approfittando essenzialmente dell’assenza di antagonisti internazionali. Questa globalizzazione ha gestito con acume il disequilibrio sul quale poggiava. Il suo architrave era la certezza del progresso: il commercio e? uno strumento di pace, il panorama postideologico avrebbe omologato il mondo intero. Le praterie gratuite di Internet erano pronte a consolidarla. Il modello cinese – un concentrato indigesto di dittatura e bassi salari – era con fastidio considerato inapplicabile. Quando raggiunta dalla prosperita?, la classe media avrebbe reclamato nuove rappresentanze, dando vita al parlamentarismo. La bandiera della democrazia sembrava destinata a sventolare a Pechino e a Shanghai. La crisi ha fatto giustizia di queste convinzioni. Si e? affannato presto il respiro del benessere universale, un wishful thinking.

La Cina ha spento questi sogni, confinandoli alla loro ingenuita?. Ha confermato la sua irriducibilita? a logiche estranee, l’impermeabilita? a fattori di rischio, la serieta? del suo impegno, la diversita? nel tragitto di sviluppo. Soprattutto, ha reso la democrazia uno strumento, non un postulato. Si puo? produrre ricchezza – come mai nessun paese nella storia economica – anche senza la circolazione di idee e il disagio delle elezioni, con la guida del partito unico. Questa inoppugnabile verita? ha dapprima disorientato e poi colpito l’ottimismo delle societa? occidentali. Per un’ironica inversione dei fini, la globalizzazione non ha prodotto la democrazia in Cina, ma ha condotto a una precarizzazione nei paesi piu? deboli. Qui, la fabbrica fordista, lo Statuto dei lavoratori, la concertazione sindacale sono apparsi impraticabili, se esposti a una concorrenza spietata. Salpata con l’ideale della democrazia in Cina, la corazzata della globalizzazione e? approdata in porti mediterranei, affollati di disoccupazione e lavoro nero. Il numero degli addetti si e? tragicamente ridotto in Italia che, in aggiunta, ora e? prima in Europa per i Neet, amaro acronimo di Not in employment, education, or training. Si trova in questa situazione il 26% dei cittadini tra 18 e 24 anni. Piu? di un quarto dei giovani e? ufficialmente nullafacente. Nella stessa cornice, tornano specularmente gli stessi interrogativi: perche? la scorsa legislatura ha espunto l’articolo 18? Qual era il messaggio di tanta determinazione? Inoltre: ha portato effetti tangibili, op- pure soltanto la propaganda di decimali di punto per occupazioni sempre piu? precarie? Soprattutto: qual era l’opportunita? di dividere il paese e il partito di governo sul lavoro e su tante altre questioni? Non sarebbe stato piu? saggio trarre vantaggio dalla migliorata congiuntura internazionale per raggiungere qualche risultato, per offrire tregua e speranza? Solo ora la sinistra italiana sostiene di non aver capito la globalizzazione. Lo fa con lo stesso candore con il quale perde le elezioni, come se si sia trattato di un piccolo incidente di percorso e non di un errore epocale.

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Dopo la crisi. Destra vs globalizzazione!

Nell’ultimo decennio i disequilibri mondiali sono variati, ma i suoi nodi non sciolti. A parita? di potere d’acquisto il Pil cinese ha superato nel 2014 quello statunitense; le economie dei paesi emergenti sono nel complesso cresciute nove volte piu? velocemente di quelle industrializzate; decine di milioni di persone scavalcano ogni anno la soglia di poverta?; nel 2018 il reddito pro capite spagnolo ha sorpassato quello italiano. La globalizzazione ha accentuato il suo versante economico. Sono aumentati gli stati autoritari, le disuguaglianze, la dissipazione delle risorse. Il dominio dei gestori dei big data – aiutato da disinvolte misure antitrust – e? completo e inquietante. I partiti progressisti non hanno saputo arginare questa deriva, quando non ne sono stati artefici diretti. La novita? politica emersa e? singolare e inquietante: l’opposizione alla globalizzazione e? ormai patrimonio della destra; non quella classica e liberale, ma la sua declinazione nazionalista. Venata da fascismo, immagina un ruolo piu? incisivo dello Stato, sigilla le frontiere, difende le tradizioni, rimpiange il passato, evita il contagio, si affida al suo popolo, diffida dell’inglese, privilegia la cucina italiana. I suoi concetti chiave sono comunita? e identita?. Siamo dunque agli antipodi della globalizzazione, almeno dei suoi aspetti piu? inclusivi e progressisti. Non averne intercettato la novita? dirompente, affidandone l’opposizione alla destra e al populismo, e? stato un errore imperdonabile. Bloccata dall’infertilita? concettuale, ma soprattutto dall’imitazione di logiche subite, la sinistra italiana e? stata prigioniera dell’incapacita? di gestire un fenomeno complesso.

Inoltre, la supremazia della destra e? stata conquistata elettoralmente, facendo leva su rancori, in- soddisfazione, protesta, mancanza di sicurezza sociale e occupazionale. Donald Trump, con una magistrale campagna elettorale, ha dato forza a questi sentimenti e ha trovato epigoni anche nella vecchia Europa. La Casa Bianca ha ora rimesso in gioco il delicato equilibrio emerso tra enormi contraddizioni dopo la Guerra fredda. Le domande di Trump, al netto delle risposte, sono tutt’altro che banali. E? sostenibile il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina, pari a 376 miliardi di dollari nel 2017 (senza contare quelli con Messico, Germania e Giappone)? Si puo? negligere il risentimento degli operai del Midwest per la perdita del lavoro trasferito in Asia? Non si smarrisce l’identita? nazionale se aumentano i 55 milioni di cittadini di lingua spagnola gia? negli Stati Uniti? Perche? le spese della Nato devono ancora essere cosi? sostenute per Washington? Le precedenti amministrazioni avevano navigato tra un equilibrio complicato. Trump e? meno incline alle sofisticazioni, ma oggettivamente i nodi si sono ingigantiti. Riuscira? a scioglierli con minacce, muri, dazi, tweet e nuovi assetti che ne deriveranno?

Se la previsione si basasse sull’interferenza delle molte variabili, la risposta sarebbe negativa. Il mondo e? oggi cosi? interconnesso che soluzioni unilaterali appaiono improbabili. Soprattutto a livello economico, strappi clamorosi sembrano difficili da sopportare. La Cina interviene nei twin deficits statunitensi, sia commerciale che federale. Accumula risorse vendendo merci ai consumatori americani. Inoltre riceve i capitali degli investimenti produttivi. Ha accumulato la piu? alta concentrazione di riserve valutarie al mondo, che alcuni anni fa aveva superato l’astronomica cifra di 4.000 miliardi di dollari e ora – dopo il sostegno alla domanda in- terna – e? quantificabile in 3.200 mi- liardi. Le cifre esatte sono segrete, ma e? altamente verosimile che piu? della meta? sia costituita da treasury bond emessi da Washington per finanziare il deficit federale. Gli stessi dollari che comprano merci, poi da altre mani acquistano il debito. La Cina e? il piu? grande detentore di titoli di Stato Usa. Ha nei suoi forzieri una massa ingente di denaro che le da? ampi margini di manovra sui mercati. Diventa proprietaria di porzioni di Stati Uniti. Cosa succederebbe se vendesse o smettesse di comprare titoli, oppure se esigesse i suoi crediti? Quali scenari si aprirebbero se gli Stati Uniti decidessero di non onorare i loro debiti? Gli analisti che hanno descritto questa possibilita? come nuclear option non sono lontani dalla realta?. In questi casi la prudenza – non solo alla Casa Bianca – non e? solamente saggia ma obbligatoria.

Le cronache riportano le guerre commerciali tra gli Stati Uniti e i loro principali paesi fornitori. L’impostazione di Trump e? classica: aumentare i dazi all’importazione per favorire il consumo di prodotti interni che trainerebbe le assunzioni. Buy American, hire American. La tenzone a suon di nuove tariffe e? in atto. Probabilmente Trump riuscira? a strappare qualche concessione e a trasformarla in una narrazione conveniente. In via di principio ha certamente ragioni da vendere. Eppure le domande da porsi sono altre: e? praticabile questa via? Riuscira? il presidente a riportare l’occupazione industriale nel paese? Le sue azioni nel lungo periodo saranno redditizie? Le risposte piu? plausibili sono tutte intrise di dubbi. I dazi sono bivalenti. Se si importano componenti da assemblare, il costo finale del prodotto – pur se diventato made in Usa – potrebbe diventare proibitivo. Inoltre, la distribuzione lamenterebbe di non poter piu? «importare a costi cinesi e vendere a prezzi americani». Quando l’amministrazione Trump ha imposto i dazi su alluminio e acciaio cinesi, tre Associazioni nazionali di produttori lo hanno applaudito. Ben 46 grandi associazioni di utilizzatori dei due metalli – comprese le multinazionali piu? potenti – hanno espresso il loro disaccordo. Lo hanno fatto anche gli esportatori, timorosi dell’imposizione per reciprocita? di misure protettive nei paesi colpiti dall’iniziativa statunitense. Alcune aziende infine hanno scelto l’opzione opposta, come la Harley Davidson che ha deciso di delocalizzare per evitare proprio i dazi sulle sue moto. L’effetto combinato di questi eventi sarebbe probabilmente insostenibile nel lungo periodo.

In aggiunta, rinnovare una vocazione industriale dopo decenni di trasferimento di attivita? mature non sara? certamente agevole. Difficilmente i telai della Virginia riprenderanno l’attivita? tessile, le acciaierie di Pittsburgh a inquinare, i terreni di San Jose? a ispirare i racconti di Steinbeck sui lavoratori agricoli messicani. Ora, su quello stesso suolo, sorgono le aziende pulite della Silicon Valley. I loro algoritmi spingono verso un mondo globalizzato, senza frontiere o distinzioni, dove l’inglese e? al servizio del consumatore universale. Anche l’industria automobilistica – che ha dato comunque segnali di grande vitalita? – ha ceduto la supremazia produttiva alla Cina e compete con le industrie europee e asiatiche per le nuove frontiere tecnologiche. Ci vorra? un mandato presidenziale ampio, che comprenda produttori e consumatori, per continuare la guerra commerciale. Nel frattempo, in Bangladesh gli operai tessili continueranno a guadagnare 50 dollari al mese. Esistera? sempre un paese di riserva dove trasferire le produzioni; non si possono imporre dazi a tutto il mondo.

Se dunque e? verosimile un aggiustamento funzionale degli assetti, almeno tre considerazioni minacciano tuttavia la stabilita? internazionale. La prima e? lineare: Trump ha scosso il sistema, ha aperto molti fronti, confuso la distinzione tra amici e nemici. E? determinato, sbrigativo, popolare, fortunato. E? per lui motivo d’orgoglio evitare le complicazioni, i lunghi dossier; ai luoghi della politica preferisce la velocita? del business. Ha disvelato molte contraddizioni, spesso acuendole. Se non riuscira? a risolverle, la tentazione di usare maniere drastiche potrebbe serpeggiare. In politica estera ha mani pressoche? libere, senza i check and balance che la Costituzione gli impone all’interno. Paradossalmente, sono i generali e la Cia a consigliare moderazione.

In secondo luogo, gli oppositori degli Stati Uniti – pur con diverso tasso di antagonismo – sono sempre meno intimiditi. Piu? che nel passato, nel multipolarismo le alleanze si compongono sul pragmatismo. Il Medio e l’Estremo Oriente ne sono un esempio lampante. Le pressioni statunitensi si arenano di fronte ai nuovi assetti politici che l’emersione della Cina ha trainato. Oggi Pechino indossa abiti piu? ambiziosi. Ha sconfitto il sottosviluppo, rivendica territori da altri paesi asiatici e minaccia la Pax Americana nel Pacifico. La Cina remissiva del dopo Mao e? ora potente e orgogliosa. Il suo percorso e? pressoche? completo: l’economia ha assolto il suo compito, la politica puo? ritirare la delega e tornare al comando. L’espansione verso il Mar cinese meridionale e la Nuova via della seta sono articolazioni della stessa ambizione. Le rotte potrebbero collidere con la 7a Flotta della Us Navy.

Da ultimo, il nazionalismo di Pe- chino non confligge soltanto con Washington. Si somma a quello dei vicini asiatici: la Russia di Putin, l’India di Modi, il Giappone di Abe. Gli attriti politici in Asia sono tutt’altro che risolti. La penisola coreana e la ferita aperta di Taiwan lo ricordano costantemente. Se le tensioni economiche possono essere negoziate, quando diventano politiche e militari rimandano a scenari molto piu? tesi. «The world is a complicated matter», ammoniva Barack Obama; ecco perche? le scorciatoie sono infide e le trattative doverose.

Meglio il capitalismo, per ora

In questa scena internazionale il ruolo dell’Italia e? in ultima fila se non dietro il palcoscenico. Alla retorica nazionale si oppongono i numeri, le classifiche, le tendenze, le perdite di posizione. Sono noti i limiti strutturali e le responsabilita? politiche. Il nostro paese e? stato colpito dalla globalizzazione; certamente i prezzi pagati sono stati superiori ai vantaggi. Un tessuto debole, poco esposto alla concorrenza, strategicamente protetto, quando e? stato messo di fronte a nuovi attori globali – potenti, spregiudicati e alleati del- le multinazionali – ha mostrato dei cedimenti. Soprattutto, i suoi limiti – le competenze, la rettitudine, il senso delle istituzioni – non sono stati indenni allo scrutinio della magistratura e dell’opinione pubblica internazionale. Oggi, il nostro paese viene percepito come un pericolo – dunque da non lasciare a se stesso – piu? che un sostegno alla crescita. La costanza degli errori, le fragilita? di base, i vincoli di bilancio, i controlli europei rendono molto difficile qualsiasi ipotesi espansiva.

Probabilmente l’Italia dovra? limitare il suo intervento a negoziare il declino che la sta colpendo.

Rimane il rammarico perche? la sinistra – nella sua accezione piu? ampia – ha avuto la possibilita? di in- cidere. Non ha piu? la giustificazione di essere stata all’opposizione. Sarebbe riduttivo addebitare la sua sconfitta alla plateale incompetenza dei suoi dirigenti. Il loro spessore culturale e politico e? certamente piu? sottile di quanto richiesto. Comprendere e gestire il cambiamento – anche con rotture dolorose con il passato – era il suo compito. E? rimasto largamente disatteso, anche per motivi non soltanto politici. Le novita? sulla scena mondiale, le incrostazioni su quella interna non hanno condotto a diverse visioni sociali, a differenti distribuzioni della ricchezza, al superamento della crisi. Hanno solo prodotto controverse, traumatiche e incompiute riforme. Lo scarto tra i cittadini e le istituzioni e? approdato agli esiti conosciuti.

Ora il paese e? in preda a un forte sentimento anti globalizzazione. Il mainstream e? affollato di concetti chiarissimi: frontiere, muri, statalizzazioni, respingimenti, Prima gli italiani. Dopo averne fallito la comprensione, la sinistra ha lasciato alla destra l’opposizione alla globalizzazione. La conclusione e? amara e singolare: l’Italia e? l’unico luogo dove il capitalismo rappresenta l’offerta politica di sinistra. Sono certamente piu? progressisti i suoi aspetti migliori – il dinamismo, la mobilita? sociale, la meritocrazia, la liberta? – che la palude all’orizzonte. E? necessario dunque molto ottimismo della volonta? per immaginare un prossimo riscatto della sinistra. Non sara? sufficiente una nuova classe dirigente e una piu? solida impalcatura teorica. Nel breve periodo si puo? fare affidamento sulla volatilita? dell’elettorato, sulle incertezze del governo pentaleghista, sul fallimento del sovranismo. Si tratta di ipotesi possibili ma aleatorie e non sufficienti. In prospettiva, la maturazione di una sinistra democratica e di governo appare lunga e difficoltosa. Per lanciare un seme, per non abbandonare la speranza, vanno rispolverati utensili eterni: studio, serieta?, integrita?, partecipazione, attenzione ai piu? deboli. La vera novita? sara? il coraggio di gestire situazioni inedite e complesse, con l’inattaccabilita? della propria preparazione.


 
Tracce di resistenza e opposizione nel lavoro contemporaneo PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Lunedì 21 Maggio 2018 15:33

di Paolo Rabissi

Otto saggi di un gruppo di ricercatori/trici che interrogano con il metodo dell'inchiesta sul campo le nuove soggettività del lavoro

Eight essays by a group or researchers who question, by the method of the enquiry, the new subjectivity of labour.

Presentamos ochos ensayos escritos por un grupo de investigadores/doras que se preguntan sobre las nuevas subjetividades del trabajo, el método de investigación utilizado es la técnica de la encuesta.


"Figure del lavoro contemporaneo: un’inchiesta sui nuovi regimi della produzione
Introduzione e cura di Carlotta Benvegnù e Francesco E. Iannuzzi
Postfazione di Devi Sacchetto
(Ombre corte, 2018)"


Che ne è della classe operaia? Che ne è di quel soggetto economico-politico che negli anni sessanta e settanta sembrava in grado di inceppare indefinitamente i meccanismi di riproduzione del capitale con forme organizzative, quasi interamente autonome da partiti e sindacati, di comando sul lavoro? In altre parole come si configura oggi il lavoro?

Il libro in analisi è una buona occasione per fare il punto. Raccoglie infatti un nutrito numero di esperienze diverse che compongono un quadro utile per orientarsi. A patto ovviamente di dare per scontate certe specificità comuni alle varie situazioni: prima di tutto il processo di frammentazione e dispersione di lavoratori e lavoratrici in luoghi di produzione sparsi sul pianeta e poi la implacabile flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro. A ciò si possono anche legare la dissoluzione della contrattazione collettiva, uno dei momenti di forza nell’epoca fordista sopra rammentata, e il declino dei sindacati con il loro fallimento nel tentativo di gestire una precarizzazione limitata alle fasce marginali del mercato del lavoro col fine di salvaguardare gli occupati stabili.

Presupposto di metodo di tutti i saggi del libro sta l’inchiesta sul campo, che è di matrice operaista (dai Quaderni Rossi in avanti fino a Primo Maggio).

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Contropiano dalle cucine. Quarant'anni per (non) pensarci. Seconda parte PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Domenica 07 Febbraio 2016 10:36

di Deborah Ardilli

La seconda parte del saggio che qui proponiamo dà conto di quanto le attuali tematiche  della cura e della teoria del gender siano debitrici alle analisi e alla teorizzazione dei Gruppi di Lotta Femminista degli anni Settanta.

The second part of the essay here published, shows how much the present themes of “Care” and “Gender Theory” are debtors to the analyses and to the theories elaborated by the Groups of Lotta Femminista during the '70s, in the past century.

In riferimento alla rivendicazione salariale, viene ribadita la crucialità di un punto connesso alla necessità di denunciare l’assegnazione femminile al lavoro domestico, anziché di intestarsela come principio di autovalorizzazione da premiare con una gratifica alla produttività:

'Salario al lavoro domesticoì' significa che il capitale dovrà pagare per l’enorme quantità di servizi sociali che attualmente ricadono sulle nostre spalle. Ma la cosa 'più importante' è che chiedere salario per il lavoro domestico significa rifiutare di accettare questo lavoro come destino biologico. E questa è una condizione indispensabile per la nostra lotta. Niente, infatti, è stato tanto efficace nell’istituzionalizzare il nostro lavoro gratuito, la famiglia, e la nostra dipendenza dagli uomini, quanto il fatto che il nostro lavoro è sempre stato pagato non con un salario ma con l’ 'amore' [Federici 1975: 58]. 

Qui sta il nodo: la precedenza del politico sull’economico, il primato dell’agire sul beneficiare di risultati concepiti indipendentemente dai movimenti che potrebbero produrli. In altri termini: se l’aspetto più importante della richiesta di salario consiste nel prendersi a forza il tempo per la battaglia finalizzata a garantirselo; se ad essere decisivo è il gesto collettivo che interrompe il ciclo, mandando in frantumi la parvenza di naturalezza che impone di misconoscere la prestazione domestica come lavoro subordinato per riaffermarla come disposizione interiore preesistente alla norma sociale che la istituisce; se tutto questo è vero, ne discende che i rilievi avanzati a partire dal punto di vista della paga versata per continuare a svolgere i compiti di sempre mancano clamorosamente il bersaglio. Lo mancano, perché muovono dal presupposto che sia possibile strappare quei soldi allo Stato senza mettere in crisi i rapporti familiari e sessuali che istituzionalizzano, disciplinano e naturalizzano l’erogazione di lavoro gratuito. E lo mancano perché, tramite il riferimento a una battaglia ideologica di cui non colgono appieno il versante materiale, finiscono -nonostante i migliori propositi dichiarati- per abbracciare il paradosso di una politica femminista orientata a governare i propri effetti in modo che nulla di essenziale nella vita e nel modo di organizzarla cambi. È invece a quest’altezza, secondo le femministe del salario, che va individuato e aggredito quel nesso profondamente normante tra lavoro non retribuito, istituzionalizzazione del ruolo e sopravvivenza simbolica che una battaglia tutta centrata sul piano delle coscienze rischia invece di smarrire. Come sciogliere quel nodo, senza creare contestualmente le condizioni per una dimostrazione vivente della possibilità di sovvertire la norma?

Ma perché milioni di casalinghe non riescono a rifiutare o non vogliono rifiutare il lavoro domestico? Nostro compito è cercare di capire il perché di questo comportamento tenendo ben presente che 'le donne hanno sempre fatto bene i conti' per la loro sopravvivenza. A questo proposito è opportuno demistificare un’opinione corrente presso alcune donne del Movimento: cioè che le donne in generale si sposano, fanno il lavoro domestico, fanno i figli, perché non hanno ancora preso coscienza del ruolo che è stato loro imposto, del loro sfruttamento e della loro oppressione. Queste donne del Movimento ne deducono che compito del Movimento è dare battaglia su questa ideologia e far prendere coscienza anche alle altre donne del loro ruolo. Da qui a costruire un contro-ruolo, e poi cercare di imporlo alle altre donne, il passo è breve. Solo che questa sarebbe 'un’ennesima violenza' contro le donne stesse. Ma il problema, dal nostro punto di vista, non è quello di combattere un’ideologia e costruirne un’altra. Il problema è quello di costruire un’'alternativa materiale' in base alla quale le donne possano 'fare altri conti'. […] Non esiste lavoro più istituzionalizzato di quello domestico e conseguentemente non esiste ruolo più istituzionalizzato di quello femminile. Proprio perché  il lavoro domestico non è mai stato scambiato con un salario, le lotte su tutte le condizioni del lavoro domestico, private della base materiale indispensabile, la lotta sulla retribuzione, sono state più deboli. Conseguentemente noi donne siamo state 'straordinariamente congelate', istituzionalizzate, nella condizione di lavoratrici domestiche. Quante volte abbiamo detto, noi come tutte le femministe, che l’ideologia corrente vorrebbe far passare la donna non come una persona, ma solo come un ruolo, come un’istituzione? E quante volte però abbiamo ribadito che i padroni, per costruire questa ideologia, hanno dovuto negare anzitutto il lavoro domestico come lavoro contrabbandandolo come missione o espressione d’amore? [Collettivo Internazionale Femminista 1975: 25-27].

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Di cosa parliamo quando parliamo di cura PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Venerdì 27 Febbraio 2015 17:03

di Adriana Perrotta Rabissi

La 'cura', concetto al quale la riflessione femminista degli ultimi decenni ha dato nuova valenza, può funzionare da elemento fondante di un nuovo paradigma di convivenza, nella prospettiva di eliminazione della divisione sessuale del lavoro su cui si regge il patriarcato, in tutte le sue specifiche forme.

'Care' is a conception which, feminism has been giving a new value sine the last decades. According to these studies, care can be the founding element of a new paradigm of living together between men and women. The perspective is of eleiminating the sexual division of work on which patriarchate, in all of its forms, is based. is based.

Gemäß der 'Fürsorge', der Feminismus hat dieser Worte einen neuen Wert gegeben. Wirkclich, kannt sie als Fundament legen für eine neue Paradigma der Mitarbeit. Die neue Perspektive ist die Entfernung der sexuelle Arbeits Teilung, über die ist Patriarchat gestützt.

I gruppi dirigenti dei paesi occidentali stanno distruggendo, direi senza rendersene troppo conto, le basi stesse della convivenza civile. Si tratta di un processo che finirà per travolgere, alla fine, anche il loro potere. Purtroppo, prima di questo, travolgerà le nostre società, le nostre famiglie, le nostre vite”. (1)

La parola 'cura'. Una storia recente

Nel 1991 fu pubblicato dal Centro di studi storici sul movimento di Liberazione della donna in Italia, che operò a Milano dal 1979 fino al 1994, Linguaggiodonna. Primo thesaurus di genere in lingua italiana (2), uno strumento per l'indicizzazione del patrimonio documentario relativo al femminismo degli anni Settanta, raccolto dal Centro e in fase di catalogazione e classificazione.

Fu necessario trovare uno strumento adeguato all’indicizzazione dei libri e dei documenti dell’archivio e della biblioteca perché il sessismo che caratterizzava i linguaggi documentari allora in uso, peraltro ritenuti neutri rispetto ai generi, si erano rivelati nella pratica inutilizzabili per descrivere i contenuti prodotti dalle analisi, dalle pratiche esperite e dalle teorizzazioni femministe. La costruzione del thesaurus fu accompagnata da numerosi incontri, Seminari e Convegni (3) nazionali e internazionali, con documentaliste delle realtà italiane e europee, tutte alle prese con lo stesso problema di messa a punto di strumenti efficaci e efficienti per la rappresentazione semantica dei documenti dei rispettivi archivi e biblioteche.

In Linguaggiodonna abbiamo adoperato il descrittore Lavoro di cura, collocandolo contemporaneamente nei due microthesauri lavoro e riproduzione corredandolo della seguente nota: “Da intendersi in senso lato come lavoro di accudimento a soggetti inabili, anziani e minori sia all’interno che all'esterno della famiglia". Lavoro di cura è recentemente entrato a far parte del Thesaurus del Nuovo Soggettario della Biblioteca Nazionale di Firenze, che indica come fonte del termine proprio Linguaggiodonna. Il descrittore mi sembra riassuma bene quell’esigenza che emergeva dalla nuova coscienza delle donne, quasi mezzo secolo fa, di mettere sotto critica la separazione e contrapposizione di genere tra produzione e riproduzione, alla base della divisione sessuale del lavoro sulla quale si è costruita la nostra civiltà.

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Sulla cura PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Mercoledì 18 Febbraio 2015 10:18

di Franco Romanò

La dimensione antropologica e sociale è l'alveo in cui l'individuo viene al mondo. Porre la cura come paradigma al centro della riflessione politica ed economica, significa rovesciare le priorità e i falsi valori della società patriacale e capitalistica in tutte le sue forme.

Human beings are born in an anthropological and social environment. To consider the care as a paradigm to be put at the basis of political and economical analysis, means to overcome the priorities and the false values of the patriarchal and capitalist society in all of its historical settings.About care.

Die Menschen in einem  gesellschaftigen Milieu goboren werden. In diesem Werk,  Die Fürsorge eine Grundlage der politischer und oekonomischer Analyse erwogen wirdst, weil sie die Prioritäte der kapitalistischer und patriarchalischer Gemeinschaft stürzt.Um die Fürsorge.

 

La cura, per le autrici del manifesto Cosa accade se l'Europa si prende cura,[1] riguarda ogni aspetto della vita, perché la dinamica intrinseca del turbo capitalismo distrugge il tessuto sociale. In termini di teoria marxiana, la resistenza di classe dei capitalisti (come scrive Paolo Rabissi) alla caduta tendenziale del saggio di profitto si manifesta scaricando all'esterno del processo produttivo tutti i costi, togliendo al tempo medesimo allo stato gli

strumenti per gli ammortizzatori sociali. La cura diventa quindi una forma di resistenza, a valle dei processi di distruzione del sociale, sui quali, almeno per il momento, non si riesce a intervenire a monte, perché questo  implica una capacità e una volontà di prendere decisioni di carattere macropolitico ed economico, lontani dai parametri neoliberisti. Tale prospettiva non sembra all'orizzonte immediato, sebbene qualcosa cominci a muoversi. Tuttavia, tale contingenza può essere l'occasione per ripensare i modi in cui si riconoscono e si aggregano i soggetti colpiti, costituendo reti solidali che siano momenti di lotta ma anche di ricostruzione delle relazioni; solo facendo questo si potrà di nuovo intervenire nei processi a monte della desertificazione sociale in un modo diverso da quello che la tradizione ci offre.

Questo aspetto comunitario e solidaristico è documentato in particolare da Silvia Federici, che offre nei suoi libri e in una recente intervista una panoramica planetaria di queste lotte e forme di resistenza che combinano in modi diversi conflitto e ricostruzione di socialità positive.[2]

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Sergio Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container, Derive e Approdi, 2013 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Con Marx e oltre il marxismo
Lunedì 03 Marzo 2014 00:00

Riportiamo integralmente la prefazione al libro, di mano dello stesso autore. In essa egli richiama ancora una volta, non senza polemica, all’unica modalità realmente euristica di leggere Marx : stare dentro le lotte operaie e comunque non perdere di vista l’estrazione di plusvalore che continua ad avvenire dentro le forme della globalizzazione. Per una disamina del lavoro pratico-teorico condotto da Sergio Bologna nel corso della sua militanza operaista rimandiamo alla recensione di Christian Marazzi leggibile a questo link.

Sergio Bologna fondatore di 'Primo Maggio' insieme a Piergiorgio Belloccchio e Grazia Cherchi fondatori dei  'Quaderni Piacentini'Quando Marx inizia la collaborazione con la «New York Daily Tribune» è alle prese con la prima stesura di quel nucleo d’idee che sarà sviluppato nei tre libri de Il Capitale. È un magma incandescente che prende forma pian piano, alimentato più che dalle conoscenze e dalle riflessioni sedimentate negli anni precedenti, dalla realtà di tutti i giorni dell’innovazione capitalistica[1]. Non sappiamo come definire questa coincidenza. Un caso o in realtà non si tratta di coincidenza ma di genesi? Marx si è costruito propri schemi di lettura ma la realtà superava la sua immaginazione e lo aiutava a perfezionare i suoi schemi, a renderli più sofisticati, più calzanti. Mi è sembrato utile, quando scrissi questo saggio qui ripubblicato, capire meglio cosa stava accadendo in quel momento nel mondo, alla metà dell’Ottocento, piuttosto di scavare nell’intimità del processo di pensiero di Marx. Era cominciata la seconda rivoluzione industriale, non era una cosa da nulla, si stava facendo il passo decisivo verso la creazione di un mercato mondiale. Si agiva su due piani: sul piano immateriale, con la moneta, con la finanza, e sul piano fisico, con le infrastrutture, con i mezzi di trasporto. La forma «società per azioni», le banche d’affari, nascono per realizzare queste infrastrutture fisiche, il Canale di Suez, le reti ferroviarie, i porti. Uno dei principali partner finanziari dei fratelli Péreire, grandi protagonisti degli articoli di Marx per la «Tribune», è quel De Ferrari a cui si deve il lascito che ha permesso di costruire il porto moderno di Genova. Uno dei principali partner finanziari di Lesseps, non a caso da lui nominato Vicepresidente della Compagnia del Canale di Suez, è quel barone Revoltella al quale si deve la prima impostazione «logistica» del porto di Trieste.

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