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Noi, comuni natali PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Mercoledì 14 Giugno 2023 12:21

di Adriana Perrotta Rabissi

 

 

 

Noi, comuni natali*

Uno dei principali compiti della filosofia è dar forma al modo di pensare di una collettività, dar vita a costrutti mentali stabili e soggettivi che orientano la percezione del mondo e permettono di attribuire significati a quanto accade intorno a noi.

Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti di Rosella Prezzo propone una concettualizzazione diversa da quella canonica della condizione umana  e della sua finitudine -la mortalità- sostituendola con un’altra finitudine, -la nascita, la venuta al  mondo- come tratto comune del nostro essere umani, dal quale ricavare significati simbolici e materiali, sulla scorta di due filosofe da lei amate e studiate, Hannah Arendt e  Maria Zambrano, che per prime, e quasi contemporaneamente, hanno focalizzato l’attenzione su questo aspetto.

La nascita di ciascuno/a non è un semplice fatto, ma un evento, perché  comporta la “rottura della catena temporale e l’irruzione del nuovo”(p.63).

Il suggerimento è passare dalla considerazione che gli umani “sono per la morte”, la caratteristica unificante dell’umano nella nostra filosofia, al concetto che gli umani nascono.

Tutti nasciamo, siamo tutti dei natali, non solo dei mortali.

Il più conosciuto sillogismo aristotelico recita:

“Tutti gli uomini sono mortali/Socrate è un uomo/Socrate è mortale”.

Avrebbe avuto un corso diverso la storia del nostro pensiero e della nostra vita collettiva se fosse stato:

Tutti gli uomini nascono (da un corpo di donna)/Socrate è un uomo/Socrate è nato (da un corpo di donna)?

Avrebbe potuto, e lo potrebbe oggi, questa semplice attenzione all’evento fondante la condizione umana cambiare ila struttura sociale, impedendo l’appropriazione patriarcale delle donne da parte degli uomini?

Messa così la domanda non ha senso, ma la uso per richiamare alcune suggestioni del testo di Prezzo, un percorso filosofico, antropologico, religioso, artistico che pone l’accento sull’evento della nascita.

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Donne di parole parole di donne PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Martedì 28 Febbraio 2023 09:46

 

di Adriana Perrotta Rabissi


ricostruzione storica di come è stato affrontato il tema del rapporto donne parole all'interno del femminismo

 

 

Un Archivio/Memoria

Il Gruppo di studio della Casa delle Donne di Pisa ha dato vita nel 2008 a un blog intitolato Il sessismo nei linguaggi per combattere gli stereotipi linguistici contro le donne.

L’esperienza si è conclusa all’inizio del 2022, le autrici hanno deciso di mantenere generosamente visibile in rete tutto la ricca produzione raccolta nei tredici anni di vita del blog, organizzata secondo aree tematiche e tempi di pubblicazione, per costruire: un “Archivio/Memoria delle iniziative nostre e altrui riguardanti il sessismo nel linguaggio parlato/scritto e figurato…… Questo materiale costituisce una Memoria preziosa di documenti, pensieri, manifestini, immagini e altro a disposizione di chiunque, citandone la fonte, ne voglia fare uso”. 

Il blog esamina l'uso sessista nei linguaggi della comunicazione e dell'informazione in Italia e fuori, in tutti i settori dalla politica, all’arte, alla cultura, al lavoro, ai costumi sociali, alla cartellonistica stradale, al cinema, al mondo dell’intrattenimento, presentando manifesti, analisi, interventi a convegni e seminari, interviste, bibliografie aggiornate fino al 2022.

Negli ultimi anni il dibattito sui modi per contrastare l’uso sessista della lingua si è intensificato anche in Italia, numerose sono pertanto oggi le fonti disponibili per la ricerca, libri, periodici, Seminari, Convegni e Corsi.

La particolarità di questo blog consiste non solo nella miriade di riflessioni, analisi e teorie proposte, ma nella quantità di soluzioni pratiche presentate e rintracciate in Italia e in Europa, nelle sperimentazioni, più o meno condivisibili, adottate progressivamente da istituzioni, da singole donne e da collettivi, oltre agli scambi di lettere, domande e risposte, tutto quel flusso di esperienza di vita e di pensiero prezioso per una ricerca pratico-teorica su come si è sviluppato il discorso sui linguaggi all’interno del femminismo. Un patrimonio che avrebbe rischiato di perdersi se non fosse stato raccolto in un Archivio.

 

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La sinistra, la Cina, la globalizzazione PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Mercoledì 08 Maggio 2019 13:04

Riproponiamo dal numero dell’autunno 2018 di Critica marxista il saggio di Romeo Orlandi ‘La sinistra, la Cina, la globalizzazione’, con due note redazionali.

Lo scontro USA Cina dentro questa globalizzazione si fa sempre più complesso e rischioso. L’ottimismo ideologico del libero mercato si era spinto irragionevolmente, coinvolgendo anche tutte le sinistre compresa la nostra, a pensare che la globalizzazione sarebbe stata di segno occidentale e che la bandiera della democrazia sarebbe sventolata a Pechino e a Shanghai. E’ successo invece il contrario, la Cina è tutto fuorché democratica ma produce sempre di più e meglio mentre l’Italia punta ancora sul fascino antiquato del made in Italy piuttosto che sull’innovazione.

I fatti mostrano la loro proverbiale ostinazione anche quando registrano gli spostamenti dei container. Sette dei primi otto porti al mondo per tonnellaggio movimentato sono in Cina; Singapore (4°) costituisce l’eccezione. Il porto europeo più trafficato è Rotterdam, confuso al nono posto tra altre posizioni asiatiche e qualche intromissione australiana e statunitense. Alcuni decenni fa la lista era molto diversa, con un predominio delle due sponde dell’Atlantico. Spuntava ancora Genova. La classifica attuale è la fotografia più nitida della trasformazione della Cina in Fabbrica del Mondo. Si potrebbe obiettare che le merci movimentate siano destinate anche al mercato locale, così da ridurre l’impatto internazionale, come se i consumi interni assorbissero questa eclatante supremazia. In realtà, la grande maggioranza delle merci cinesi si dirige verso lidi stranieri. La Repubblica popolare è infatti dal 2009 il più grande esportatore al mondo, dopo avere insidiato e poi superato agevolmente il primato della Germania e degli Stati Uniti.

La sequenza logica che se ne ricava rasenta la banalità espositiva: i porti movimentano i container, che trasportano le merci, prodotte dalle fabbriche, generate dagli investimenti, stimolati dalle opportunità. Sembra di assistere alla famosa cantilena Alla fiera dell’Est. Infatti, la Cina è la destinazione preferita per gli investimenti produttivi provenienti dall’estero. Offre una calamita potente, un cocktail imbattibile di stabilità politica, costo contenuto dei fattori di produzione, eccellente rete infrastrutturale, promessa di un immenso mercato interno. Nessun paese è in principio così attraente come la Cina per le multinazionali. Questi due soggetti hanno dato vita al più bizzarro matrimonio di interessi della storia economica moderna. Spinti da fini diversi, ma complementari e convergenti, hanno registrato successi innegabili. La Cina, nella linearità di un’impresa titanica, ha trovato la scorciatoia per l’industrializzazione. Ha consegnato alla storia l’egualitarismo del modello maoista e ha adottato le dinamiche capitaliste. Gli aumenti del Pil, come mai nessun paese al mondo, testimoniano il successo di un’impresa epocale. Le grandi aziende – pur non sempre – hanno trovato gloria per le loro ambizioni: nuovi mercati e profitti crescenti. I numeri delle Nazioni Unite sono inequivocabili: nel 1990 la Cina contribuiva con il 3% alla produzione industriale mondiale; nel 2013 l’analogo valore risultava del 22%.

Le magnifiche sorti e progressive. Con la Cina?

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La divisione sessuale del lavoro plasma la soggettività di donne e uomini PDF Stampa E-mail
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Lunedì 22 Gennaio 2018 18:23

di Adriana Perrotta Rabissi

Sexual division of labour determines the sexuo-economical exchange between women and men, thus giving a form to their relationship  which is at the root of our civilization.
La divisione sessuale del lavoro determina lo scambio sessuo-economico tra donne e uomini, dando forma alla relazione  che è alla base della nostra civiltà.

La divisione sessuale del lavoro è la struttura portante delle relazioni tra uomini e donne su cui si fonda il patriarcato. Essa infatti determina lo scambio sessuo-economico che ha dato forma alla nostra civiltà. Nei secoli si è instaurato un ordine simbolico che costringe le donne e gli uomini a adeguarsi a modelli di genere percepiti come naturali, mentre sono  costruiti sulla base di attitudini, abilità, funzioni e compiti attribuiti alle immagini di maschile e femminile a cui dovrebbero conformarsi le donne e gli uomini in carne e ossa.

Sono ammesse modernizzazioni, limitate commistioni e combinazioni anche ardite dei due modelli,  purché non sia intaccato il principio regolatore per il quale l'area di pertinenza delle donne è la sfera del corpo, del sesso, della riproduzione in tutti i suoi aspetti biologici, affettivi, sociali, familiari, quella degli uomini l’area della vita pubblica, della politica della guerra.

I rapporti tra donne e uomini sono modulati da qualche millennio dentro  questa realtà che definisce regole di comportamento, induce aspettative, valori, paure, desideri, metafore e costruzioni simboliche, immaginari che  tutti e tutte conoscono, perché vengono educati/e a questi dalla nascita .Per questa struttura di potere è stato indispensabile mantenere la distinzione tra donne addette alla cura di persone e ambienti e ai compiti familiari, cioè le donne per bene, e altre destinate alla soddisfazione erotico-sessuale degli uomini, le donne per male.                                                  

Nella seconda metà del Novecento il patriarcato è stato smascherato dalla riflessione di donne in tutti i campi del sapere e del sociale: non si tratta di una struttura naturale e quindi immutabile ma di una costruzione storico sociale che ha gerarchizzato maschile e femminile.
Non sempre e non tutti e tutte vi si sono adeguati/e, la storia è piena di esempi in tal senso, ma chi non si adegua deve sempre pagare un prezzo di esclusione, emarginazione, stigma sociale.
Se oggi, dopo decenni di sottovalutazione irrisione e sarcasmi verso chi continua a portare avanti le analisi sul patriarcato, anche gli uomini sono costretti a prendere la parola in merito alla relazione donne uomini e costretti ad abbandonare la maschera dei difensori delle  donne deboli e vittime, vuol dire che  si è imbroccata la strada giusta. Nemmeno le donne a loro volta possono più nascondersi dietro la maschera di vittime.

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Maschio guerriero, maschio protettore. Note sul femminicidio PDF Stampa E-mail
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Mercoledì 09 Novembre 2016 13:40

di Paolo Rabissi

L’uomo deputato dalla cultura patriarcale alla protezione della propria donna (dei figli, della patria ecc.) intrappolato in un paradosso mortale, di fronte all’abbandono ne diventa troppo spesso l'omicida.

The man, deputed by the patriarchal culture, to the protection of his own woman (and of sons, homeland and so on)and being trapped in such a deadly paradox, when abandoned by her, very often becomes the killer of.

1)

Per me uomo, bianco, educato all’eterosessualità, non è poi così semplice e intuitivo l’uso della parola ‘femminicidio’. Perché il femminicidio non è il semplice omicidio di una donna, si presenta dentro una casistica articolatissima in cui a commettere violenza è ora il padre, ora il fratello, ora il conoscente anche se più frequentemente l’uccisione di una donna avviene per mano del partner abbandonato, per un altro/a ma anche no.

Non è nemmeno semplice l’uso della parola sessismo. Perché devo distinguere tra misoginia, antifemminismo e sciovinismo maschile, che, per quanto odiosi, sono componenti indiscutibili del sessismo ma meno gravi delle forme estreme di manifestazione come il femminicidio e anche la mercificazione del corpo e dell’immagine femminile che, per la sua carica razzista di fondo, del femminicidio è supporto.

Le cose cominciano ad essere più chiare quando risalendo al patriarcato, che è organizzato sulla subordinazione del femminile al maschile, ti rendi conto che il sessismo è l’insieme di idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi ecc, che perpetuano e legittimano la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi, per usare le parole di Annamaria Rivera (La bella, la Bestia e l’Umano, Ediesse, 2010).

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Gli scioperi più grandi del mondo. L’India tra lotte sindacali e movimenti di difesa della natura. PDF Stampa E-mail
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Mercoledì 10 Luglio 2013 20:09

di Aldo Marchetti

 

Il 20 e 21 febbraio del 2013 l’intero subcontinente indiano è stato paralizzato da uno sciopero generale nazionale di due giorni con una partecipazione di circa cento milioni di lavoratori.  Al centro dello scontro sociale, costato alcuni morti e decine di migliaia di fermi e arresti, c'è la denuncia delle politiche neoliberiste del governo.

On 20th and 21st febbruary last the indian subcontinent was paralized by a two day general strike. Nearly a hundred million workers joined the protest. The core of the social battle was the complaint against neo-liberal politics supported by the government. Thousends of people were arrested and some died during the riots.

Um 20 und 21 Februar, Indien war vor einem zwei Tage Streik gelähmt. Million Arberiteren und Arbeiterinnen teilnahm. Die Arbeitere protestiert gegen die neo liberalen  Politischen. Tausende Arbeitere war festgenommen und mehrere getöten waren.

 

Da due anni l’India, spesso definita come «la più grande democrazia» oppure la «democrazia più complicata» del mondo, è scossa da lotte sindacali che per estensione e  partecipazione rappresentano qualche cosa di nuovo nella sua storia recente. Già il 28 febbraio 2012 si era tenuto uno sciopero generale nazionale di 24 ore contro le politiche del governo di Mammohan Singh, esponente di spicco del National Congress Party. Lo sciopero indetto dalle tre maggiori confederazioni Intuc (Indian national tradeGruppi di donne della zona himalayana dell’Uttarkhand ponendosi a corona attorno ai fusti degli alberi, cercano di impedire il taglio dei boschi. union congress) di ascendenza gandhiana, Aituc (All indian trade union congress) di origine comunista e Bharatiya Maazdor Sangh, di matrice socialista, assieme al Sewa (sindacato composto da sole donne) e altre 600 organizzazioni minori, aveva coinvolto circa 100 milioni di lavoratori ed era stato definito da molti come il più grande sciopero della storia. Un anno dopo i sindacati indiani sono ritornati sulla scena raddoppiando la posta: il 20 e 21 febbraio del 2013 l’intero subcontinente è stato paralizzato da uno sciopero generale nazionale di due giorni con una partecipazione eguale se non superiore a quella di un anno prima. In ambedue le occasioni in tutte le città del paese, dalle megalopoli come Mumbai e Calcutta ai centri minori, sono state tenute manifestazioni con comizi, cortei, sit-in, barricate, cariche della polizia con alcuni morti e decine di migliaia di fermi e arresti.

Al centro dello scontro sociale vi è una piattaforma rivendicativa con la quale le centrali del lavoro denunciano la politiche neoliberiste del governo e chiedono la rinuncia alla privatizzazione delle imprese pubbliche e alla fusione delle banche, che comporta la chiusura in massa delle filiali dei villaggi rurali, con la conseguente impossibilità da parte dei contadini di accedere al credito;  il blocco dei contratti di lavoro atipico o comunque l’equiparazione dei loro trattamenti a quelli dei rapporti a tempo indeterminato; l’aumento del salario minimo garantito e dei sussidi alle famiglie povere; lo stop all’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità; una politica fiscale più equa; un welfare più moderno ed esteso a fasce più ampie di popolazione. Ma è l’intera politica economica del governo Singh ad essere messa sotto accusa, per la corruzione dilagante, l’inefficienza, l’inerzia, la soggezione ai voleri delle multinazionali, l’incapacità ad affrontare i problemi più gravi della miseria, malnutrizione, mortalità infantile.

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Lo sciopero nella logistica e i Ciompi PDF Stampa E-mail
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Giovedì 28 Marzo 2013 09:33

di Paolo Rabissi

La lotta dei salariati nella Logistica si sta dispiegando in maniera sempre più decisa e determinata, grazie anche alla Rete l'organizzazione di base riesce a mobilitarsi con qualche successo. Naturalmente a parlarne sono pochissimi. Si tratta di una mano d'opera composta perlopiù da migranti spesso senza permesso di soggiorno e pertanto ricattabili con condizioni di lavoro simili alla schiavitù. Veri e propri fantasmi anche perché non hanno diritto al voto senza il quale difficilmente le lotte potranno avere esiti duraturi.

Persino I Ciompi a Firenze nel 1378 riuscirono a vedere riconosciuti, almeno per qualche anno, i loro diritti di cittadini: i salariati più bassi della lavorazione della lana infatti, addetti alla ‘ciompatura’, alla battitura della lana, rimasta a bagno nella loro propria urina, erano inimage_41definitiva cittadini di Firenze (a parte ‘una brigata fiamminga’!), anche se molti di loro erano immigrati in città dal contado, immiserito dalla peste e dalle guerre.  Gli ‘addetti  alla logistica’ del nostro tempo, facchini perlopiù, sono invece in gran parte migranti africani. Risiedono sì in Italia ma è come se non ci fossero. Lavorano dieci, dodici ore al giorno ma sono invisibili, veri e propri fantasmi, non sempre hanno un salario, spesso è dilazionato, non maturano alcun diritto di anzianità perché ad ogni licenziamento devono sempre ricominciare da capo, molti non hanno permesso di soggiorno, chi ce l’ha ha lo stesso trattamento.

I Ciompi occuparono Palazzo Vecchio, allora dei Priori, e con una inattesa rivolta, maturata però negli anni, imposero la propria presenza nella vita politica, i facchini della logistica per ora occupano le strade, per fermare i TIR si sdraiano sotto le ruote. I Ciompi maturarono nel giro della loro stagione di lotta, che durò un quinquennio, la sorprendente consapevolezza rivoluzionaria (a giudicare dalle rivendicazioni divenute leggi per breve tempo) di non poter ottenere la tutela effettiva dei propri interessi senza modificare a proprio favore i rapporti di potere vigenti. Questo difficilmente potrà succedere per le lotte nella logistica, soprattutto perché hanno poche possibilità di aggregare qualche altra categoria , non sono una classe, sono paria della lotta di classe,  anche se di essa riescono ad assumere forme di lotta abbastanza simili. Sono dei «sans-droits», «sans-parole», «sans-plume».  Parlano in pochi un italiano stentato e lo affidano a gruppi di giovani studenti che generosamente seguono le loro lotte, anche se in moltissimi casi sono studenti loro stessi. Ci sono anche italiani, ma sempre più spesso vengono licenziati, gli africani senza permesso di soggiorno sono preferiti.

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Come uscire dalla crisi: crescita e intervento pubblico PDF Stampa E-mail
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Venerdì 13 Luglio 2012 00:00
SEL, 13 febbraio 2012
Crisi Economica: Come Uscirne ?
Giorgio Lunghini
Come uscire dalla crisi: Crescita e intervento pubblico
0. È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non
abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbebastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi sitenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella dellaissez faire.
1. Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspettifinanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzionifinanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementireali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di
produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un
sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se esoltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale -per dirla con Marx -danon generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzionerelativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta,
banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e
riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisidi tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se ladomanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per ilmotivo speculativo fossero tali -by accident or design -da assicurare un
equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia
automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politicaeconomica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di
autoregolarsi.
2. Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella
distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si èdeterminata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione
crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In
condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chiperde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziariaalla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno
partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie allaglobalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie
nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionaledel lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale.
Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisiciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttivedella Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.
3. Il “senato virtuale”, secondo una definizione che N. Chomsky mutua da B.
Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali checontinuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating,
le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche perché
contrarie ai loro interessi -votano contro di esse con fughe di capitali,
attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varieforme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: iloro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa unacrisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto
economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento
europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non
sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente -poiché la seconda volta le
tragedie si presentano come farsa -in forme di populismo autoritario, con Tolkien
al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie. In un mondo fatto diLumpenproletariat e di piccolo-borghesi.
4. Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono iconnaturati difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazionepiena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per
rimediare a questi difetti, nell’ultimo capitolo della Teoria generale Keynespropone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale(imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia delrentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell’economia. È un vero
peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nelcontempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che lakeynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurrenon sia mai stata presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieridella City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa lemisure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal ‘Bolscevismo’; e che ilpiano Keynes di Bretton Woods sia stato prima temperato poi smantellato.
Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva ben chari in mente in tutti e due isensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a un problema di crescita, equae rispettosa dei vincoli di bilancio.
5. La ricetta keynesiana è di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricettaper l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicatadall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento dellapropensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva.
L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalistadi sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti ancheinvestimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, qualinormalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Per quanto riguardal’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, “l’azionepiù importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono
già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degliindividui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo Stato.
La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno di già, efarlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa deltutto”. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre,
purtroppo tradita.
6. Tutti riconoscono che il problema principale dell’economia italiana è un
problema di crescita; e che però i vincoli finanziari sono stringenti. Come
intervenire, sotto questo vincolo? Qui, a integrazione di quanto ho detto sinora,
voglio riprendere un ragionamento di Pierluigi Ciocca che a me pare di grandeimportanza e attualità; anche perché contiene una implicita critica alla politica deidue tempi, una politica per definizione fallimentare. Ricordo che Pierluigi Cioccaè stato il primo a parlare di un “problema di crescita dell’economia italiana”, nellariunione scientifica del 2003 della Società Italiana degli Economisti; e che direcente ha suggerito Tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della
ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore equità e crescita. È
culturalmente e politicamente preoccupante che un così ragionevole e semplicesuggerimento, che qui sotto riprendo, non sia stato preso in nessuna
considerazione.
7. L’economia italiana è minata da scadimento della produttività, vuoto didomanda effettiva, credito internazionale precario. La politica economica
dovrebbe agire simultaneamente sui tre fronti, tra loro strettamente connessi:
7.1 Promuovere la produttività. La produttività risente di incapacità
intrinseche alle aziende italiane. Sono limiti -non solo dimensionali -di cui
l’impresa porta intera la responsabilità e sulle quali la politica economica non può
molto. Ma la produttività trova altresì impedimenti esterni. In primo luogo, lacarenza delle infrastrutture materiali e la pressione tributaria. Manutenzione,
ampliamento e modernizzazione delle infrastrutture fisiche postulano investimentipubblici cospicui. La produttività incontra un ulteriore ostacolo esterno nellainadeguatezza del diritto dell’economia. Si richiede una organica riforma deldiritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tuteladella concorrenza e del diritto amministrativo. Dai primi anni Novanta paradossalmente,
da quando esiste un’autorità antitrust -si è inoltre affievolito
l’insieme delle pressioni, di mercato e no, che costringono le imprese a ricercare ilprofitto attraverso l’efficienza, il progresso tecnico, l’innovazione. Il grado medio
di concorrenza è diminuito, il cambio è stato a lungo cedevole, la spesa pubblicalarga, i salari reali stagnanti. Per più vie, a cominciare da una vera azione
antitrust, la politica pubblica è chiamata a favorire le sollecitazioni
produttivistiche nel sistema, confidando che l’impresa privata -quella pubblica
essendo stata ridotta dal disfacimento dell’Iri a utilities e a alcuni servizi -riscopra
una adeguata attitudine imprenditoriale, risponda alle sollecitazioni, sappia
cogliere le opportunità.
7.2 Sostenere la domanda. Per superare una depressione che altrimentisi protrarrebbe ancora per anni e dovendosi ridurre il disavanzo, è necessario agiresulla composizione•corsivo aggiunto•del bilancio pubblico. Unitamente a minoriimposte, non va ridimensionato -come sinora si è fatto -ma va accresciuto il peso
delle voci di spesa più idonee a alimentare la domanda. Al tempo stesso, è il peso
delle uscite che in minor misura influenzano la domanda a doversi ridurre, nellamisura necessaria a raggiungere il pareggio e a fare spazio nel bilancio alle speseda espandere e alla pressione tributaria da limare. Con una simile, articolatamanovra di finanza pubblica, la domanda globale, anziché contrarsi, riceverebbe
sostegno. Dal miglioramento delle aspettative e dai minori tassi d´interesse
deriverebbero maggiori investimenti e consumi da parte dei privati.
7.3 Ridurre il debito pubblico. Solo il rilancio della crescita di lungo
periodo, unito alla riduzione e ristrutturazione della spesa e a una pressionetributaria perequata, ancorché attenuata, può risanare i conti pubblici. Al di làdell’emergenza e dei provvedimenti salvifici, va posto in atto un programma chenel quinquennio 2012-2016 abbassi la spesa corrente in rapporto al Pil di circa 6
punti. Di questi, 2 o 3 punti concorrerebbero all’azzeramento del disavanzo eassicurerebbero in seguito l’equilibrio del bilancio. Tre punti verrebbero devolutia maggiori investimenti in infrastrutture e alla riduzione del carico fiscale. Per
ragioni di equità e per sostenere i consumi la tassazione va redistribuita in senso
progressivo, in primo luogo attraverso un contrasto all’evasione che sia senzaquartiere e che sul reddito celato incida anche rilevando livello e variazioni delpatrimonio. L’azzeramento del disavanzo si concentrerebbe su tre voci di spesa:
trasferimenti alle imprese, acquisti di beni e servizi, costo del personale. Nellamedia del periodo le tre voci dovrebbero scendere, rispetto a un Pil nominale ereale dapprima in ripresa poi in crescita, grosso modo nelle seguenti proporzioni:
i) i trasferimenti alle imprese (da ridurre prontamente anche in valore assoluto,
perché fonte di inefficienza, se non di illegalità) di almeno di 2 punti percentuali;
ii) gli acquisti di beni e servizi dal 9 al 6%, attraverso severe economie esoprattutto una dura ricontrattazione degli esosi prezzi lucrati dai fornitori; iii) laspesa per il personale -con un parziale turnover, salvaguardando i salari unitari dall’
11 al 10%. Su queste basi l’abbattimento dello stock del debito pubblico
potrebbe essere accelerato cartolarizzando immobili delle P. A. non funzionalialla loro operatività. Il peggioramento delle prestazioni offerte ai cittadini dalsistema pensionistico e dal sistema sanitario -conquiste e collanti della società
italiana -rappresenta invece una fonte di economie a cui solo eventualmente esolo residualmente far ricorso.
8. Nell’insieme le tre voci di spesa corrente indicate sopra rappresentano
circa un quarto del Pil. In un quinquennio la crescita del Pil potrebbe mediamenterisalire al 4,5% l’anno: 2,5% in termini reali, 2% per un’inflazione entro i limitieuropei. Se solo venissero bloccate in termini nominali, globalmente le tre voci dispesa scenderebbero alla fine del periodo del 10% in termini reali e quasi del 5%
rispetto al prodotto interno lordo. Assumendo, per semplicità, moltiplicatoridell’ordine di 0,5 per le spese che perdono di peso (6 punti) e di 1,5 per i maggioriinvestimenti e la minore imposizione (3 punti) l’impatto netto del mutamento dicomposizione del bilancio sulla domanda globale risulterebbe espansivo nellamisura dell’1,5 per cento. L’effetto andrebbe distribuito nell’arco del quinquennio
alla luce del profilo ciclico dell’economia e nel rispetto dell’equilibrio di bilancio
in ciascun esercizio. Il premio al rischio sul debito scenderebbe, perché un piano
siffatto è quanto gli investitori, interni e internazionali, chiedono da anni all’Italia.
* Scriveva Keynes, nel 1937: «La fase di espansione, non quella di recessione, è ilmomento giusto per l’austerità di bilancio».

di Giorgio Lunghini

Intervento tenuto presso SEL nel febbraio 2012.

Il saggio riprende alcune idee di Keynes per formulare proposte di uscita dalla crisi nel senso di una maggiore equità.

The essay refers to some ideas by J.M.Keynes, to formulate proposals of way out from the economical crisis, based on a deeper social justice.

0. È un fatto intellettualmente curioso che la teoria economica dominante non abbia nessuna spiegazione convincente del fenomeno delle crisi, il che dovrebbe bastare per farla abbandonare; ma è politicamente preoccupante che delle crisi sitenti di medicare le conseguenze ispirandosi alla sua filosofia, che è quella del laissez faire.

1. Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, sono le colpevoli condizioni della finanza pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza. Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale -per dirla con Marx -da non generare crisi di realizzazione, di ‘sovrapproduzione’ (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali -by accident or design -da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica  economica. In breve: il sistema capitalistico – il ‘mercato’ – non è capace di autoregolarsi.

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Di corpi e di parol.e. Una riflessione sul rapporto donne lingua ai tempi del patriarcato PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Martedì 07 Febbraio 2012 16:53

di Adriana Perrotta Rabissi

I corpi sono quelli delle donne, che negli ultimi tempi si affacciano sempre più numerose, anche in Italia, sulla scena della politica, della cultura e dell'economia. Le parole sono quelle impiegate dai principali mezzi di comunicazione per parlare di loro.

Leggendo articoli sui quotidiani nazionali, ascoltando radio e televisioni, si osserva una generale nominazione maschile degli incarichi pubblici, istituzionali e professionali pur esercitati da donne, con un corredo di veri e propri errori grammaticali e torsioni espressive che sfiorano il ridicolo; c'è anche qualche tentativo coraggioso, e un po' incerto, di declinare al femminile cariche e titoli riferiti a donne, secondo le regole della morfologia.

Tentativi che riscuotono spesso critiche e/o commenti spesso ironici, quando non sarcastici, accompagnati da fantasiose e deboli argomentazioni, che reggono poco sia sul piano grammaticale sia su quello logico, ma che segnalano un profondo fastidio nei confronti di modificazioni della lingua in uso.

Tanto che viene da chiedersi il perché di tali resistenze di fronte a fenomeni di evoluzione linguistica, accettata senza problemi in altri campi, basti pensare ai termini provenienti da altre lingue nazionali, gerghi, codici, sottocodici, che dopo qualche tempo entrano nell'uso comune, sia che piacciano, sia che dispiacciano.

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La fertilità del disagio. Essere maschi tra potere e libertà. PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Mercoledì 26 Gennaio 2011 00:00

di Paolo Rabissi

Assumo per questo mio breve intervento come titolo quello stesso del libro di Stefano Ciccone (Essere maschi tra potere e libertà, Rosenberg e Sellier, 2009) perché il desiderio di affrontare le questioni, qui di seguito succintamente esposte, trova in questo lavoro la migliore trattazione per chi, come il sottoscritto, ha attraversato a titolo diverso le culture del Novecento, analisi e 'pratiche' dei femminismi comprese. Questo lavoro dunque vuole sostanzialmente proporre all'attenzione alcuni degli interrogativi che il lavoro ormai decennale dell'autore del libro ci pone.

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Una storia al femminile. Michela Zucca, Storia delle donne da Eva a domani Edizioni Simone, Napoli 2010 PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Mercoledì 26 Gennaio 2011 00:00

di Laura Cantelmo

La ricerca dell’antropologa Michela Zucca è sempre stata focalizzata sulla vita delle donne, in particolare su quello che la società, nel suo lavoro  di esclusione di genere, ha  con crescente enfasi inteso nascondere, ignorare, condannare. La storiografia ufficiale ci ha sufficientemente informati sull’esistenza di donne aristocratiche, colte, mogli di uomini illustri, o con ruoli di rilievo nella società del tempo, come le badesse, ad esempio, mentre ben poco si è indagato su quegli strati della società che stavano al di  fuori dei “centri di comando”, fuori dai castelli o dai monasteri, nelle campagne e sui monti.

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Sulla centralità del lavoro e il necessario conflitto che l'accompagna PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Venerdì 24 Aprile 2020 16:49

di Sandro Moiso

Rilanciamo con piacere questa lucida e completa analisi su lavoro capitalismo e coronavirus da www.carmillaonline.com

Sandro Moiso è studioso e autore di testi sulla musica, la cultura e la storia americane, ma anche polemologo e docente di Storia. Ha scritto per “L’Indice dei libri del mese” e fa parte del collettivo redazionale di “Carmilla”. Quest’anno ha festeggiato il cinquantesimo anniversario di una militanza radicale iniziata all’età di quindici anni, un po’ per scelta e un po’ per caso.

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.

Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.

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La sinistra, la Cina, la globalizzazione PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Mercoledì 08 Maggio 2019 13:04

Riproponiamo dal numero dell’autunno 2018 di Critica marxista il saggio di Romeo Orlandi ‘La sinistra, la Cina, la globalizzazione’.

Economista e sinologo, Romeo Orlandi è Vice Presidente dell’Associazione Italia-Asean. Insegna Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari. Ha diretto il think tank Osservatorio Asia. Ha vissuto e lavorato a Los Angeles, Singapore, Shanghai e Pechino. Collabora a quotidiani e riviste specializzate. È autore di numerose pubblicazioni su Cina, India, Vietnam, Indonesia, Singapore e Asean. Per l’editore Derive Approdi ha pubblicato il romanzo “Il Sorriso dei Khmer Rouge”.

Lo scontro USA Cina dentro questa globalizzazione si fa sempre più complesso e rischioso. L’ottimismo ideologico del libero mercato si era spinto irragionevolmente, coinvolgendo anche tutte le sinistre compresa la nostra, a pensare che la globalizzazione sarebbe stata di segno occidentale e che la bandiera della democrazia sarebbe sventolata a Pechino e a Shanghai. E’ successo invece il contrario, la Cina è tutto fuorché democratica ma produce sempre di più e meglio mentre l’Italia punta ancora sul fascino antiquato del made in Italy piuttosto che sull’innovazione.

I fatti mostrano la loro proverbiale ostinazione anche quando registrano gli spostamenti dei container. Sette dei primi otto porti al mondo per tonnellaggio movimentato sono in Cina; Singapore (4°) costituisce l’eccezione. Il porto europeo piu? trafficato e? Rotterdam, confuso al nono posto tra altre posizioni asiatiche e qualche intromissione australiana e statunitense. Alcuni decenni fa la lista era molto diversa, con un predominio delle due sponde dell’Atlantico. Spuntava ancora Genova. La classifica attuale e? la fotografia piu? nitida della trasformazione del- la Cina in Fabbrica del Mondo. Si potrebbe obiettare che le merci movimentate siano destinate anche al mercato locale, cosi? da ridurre l’impatto internazionale, come se i consumi interni assorbissero questa eclatante supremazia. In realta?, la grande maggioranza delle merci cinesi si dirige verso lidi stranieri. La Repubblica popolare e? infatti dal 2009 il piu? grande esportatore al mondo, dopo avere insidiato e poi superato agevolmente il primato della Germania e degli Stati Uniti.

La sequenza logica che se ne ricava rasenta la banalita? espositiva: i porti movimentano i container, che trasportano le merci, prodotte dalle fabbriche, generate dagli investimenti, stimolati dalle opportunita?. Sembra di assistere alla famosa cantilena Alla fiera dell’Est. Infatti, la Cina e? la destinazione preferita per gli investimenti produttivi provenienti dall’estero. Offre una calamita potente, un cocktail imbattibile di stabilita? politica, costo contenuto dei fattori di produzione, eccellente rete infrastrutturale, promessa di un immenso mercato interno. Nessun paese e? in principio cosi? attraente come la Cina per le multinazionali. Questi due soggetti hanno dato vita al piu? bizzarro matrimonio di interessi della storia economica moderna. Spinti da fini diversi, ma complementari e convergenti, hanno registrato successi innegabili. La Cina, nella linearita? di un’impresa titanica, ha trovato la scorciatoia per l’industrializzazione. Ha consegnato alla storia l’egualitarismo del modello maoista e ha adottato le dinamiche capitaliste. Gli aumenti del Pil, come mai nessun paese al mondo, testimoniano il successo di un’impresa epocale. Le grandi aziende – pur non sempre – hanno trovato gloria per le loro ambizioni: nuovi mercati e profitti crescenti. I numeri delle Nazioni Unite sono inequivocabili: nel 1990 la Cina contribuiva con il 3% alla produzione industriale mondiale; nel 2013 l’analogo valore risultava del 22%.

Le magnifiche sorti
e progressive. Con la Cina?
I governi occidentali, anche quelli di centro sinistra o dell’Ulivo mondiale, hanno sostanzialmente assecondato questo passaggio. Non si sono cimentati a modulare una tendenza che sembrava vittoriosa ovunque: dalla sconfitta del Muro di Berlino al liberismo trionfante, dal destino di benessere per tutti alla improbabile fine della storia. Dominava la convinzione che togliere gli ostacoli alla libera circolazione dei fattori di produzione avrebbe assicurato prosperita? e democrazia ovunque. Negli stessi anni la produzione industriale in Europa scendeva dal 39 al 27% del totale. Nessun allarme suonava, il percorso era marcato: i settori maturi delocalizzati nei paesi emergenti, gli addetti dell’industria convertiti in tecnici informatici, assicuratori, progettisti, artisti. Brainware, not labour intensive. Il cervello avrebbe prevalso sulle braccia, la creativita? sconfitto il sudore. Il destino di abbigliamento e calzature era segnato, nei casi piu? fortunati diretto nei capannoni in Asia. Ingentilito da comparti merceologici piu? sofisticati, il rapporto capitalelavoro non avrebbe sofferto di antagonismo.

Quando il campanello ci ha destato nel 2007, il sonno aveva generato l’ingovernabile. E? saltata la prima e piu? forte convinzione, il ruolo autoregolatore del mercato. Le contraddizioni e i lutti della crisi sono ancora evidenti. Eppure, con facilita? si era rinunciato alla politica industriale, riducendo l’intervento dello Stato nell’economia e adottando le privatizzazioni nella convinzione – fideistica prima ancora che ragionata – di una loro maggiore efficienza. L’Italia ha subi?to una fortissima, quasi invincibile concorrenza dalla Cina e dai paesi asiatici. Ne hanno pagato le conseguenze i settori maturi che basavano le loro vendite su fattori di prezzo. Tra le grandi nazioni, l’Italia ha sofferto maggiormente l’emersione di nuovi soggetti perche? la sua struttura produttiva – con piccole e medie aziende, conduzione familiare e inclinazione verso i beni di consumo – era il primo bersaglio delle merci cinesi, troppo a lungo identificate nel solito mantra: ridotta qualita?, scarso valore aggiunto, basso costo unitario. Roba cinese, insomma, che tuttavia colpiva la nostra industria e peggiorava la bilancia commerciale con Pechino.

La speranza dell’ingresso della Cina nel Wto, nel dicembre 2001, era di assimilarla velocemente alle regole internazionali. In realta?, la riduzione delle misure tariffarie ha favorito le multinazionali e le esportazioni di Pechino. Fragile si e? rivelata la difesa dell’industria nazionale, perche? se ne e? sopravvalutata la qualita? strutturale. Il made in Italy sembrava inattaccabile, prestigioso e inimitabile. E? risultato invece ammantato di retorica, sparsa copiosamente come se lo scheletro industriale del paese fosse composto da raffinati beni di consumo ai quali anelavano le sterminate masse di cittadini asiatici. Anche la meccanica strumentale – il vero cuore produttivo del paese – sembrava annegare di fronte alle immagini patinate che connotavano l’Italia. La litania era costante, come in un disco rotto: venderemo al piu? grande mercato del mondo, 400 milioni di nuovi ricchi, se ogni cinese indossasse una cravatta italiana.

La storia, e? noto, ha preso strade diverse. La Cina si e? rivelata difficile da conquistare, i suoi acquisti si sono concentrati su beni strumentali e materie prime – necessari alla Fabbrica del Mondo – e solo recentemente si e? aperta ai consumi di lusso. Contemporaneamente, dai suoi porti partivano infinite distese di container indirizzati verso i mercati internazionali. Nei paesi industrializzati pochi se ne lamentavano. Il made in China non interferiva con le specializzazioni locali; offriva anzi beni di qualita? crescente a prezzi ridotti, per la gioia della distribuzione e dei consumatori. L’antagonismo verso le lanterne rosse dei negozi era contenuto; in Italia invece – secondo un’indagine della Pew di Washington – era il piu? alto al mondo. Effettivamente i prodotti cinesi, sempre piu? presenti, possono far chiudere le fabbriche. Il flusso inverso langue; pur con l’ottimo risultato del 2017 le esportazioni crescono pigramente; l’Italia in vent’anni ha quasi dimezzato la propria quota sull’import cinese (nel 2017 l’1,1% del totale, un quinto del valore tedesco). La bilancia commerciale della Germania e? in- vece in attivo nei confronti della Cina. Il Dragone – sempre dipinto come aggressivo e invasore – man- tiene fumanti le ciminiere tedesche e genera dunque reddito e occupazione, come avviene non a sufficienza per le aziende italiane. Sarebbe stato sufficiente studiare le diversita? tra i due paesi europei per evitare il disincanto. L’illusione della Cina come mercato di conquista ha provocato la disillusione successiva. Ancora fino al 2012 la somma delle esportazioni italiane verso le piu? importanti destinazioni asiatiche (Cina, Giappone, Hong Kong, Corea del Sud) non raggiungeva in valore quelle destinate alla Svizzera (6% del totale).

Migliori ricompense hanno registrato gli investimenti internazionali, cioe? la lungimiranza di trasferire impianti oltre la Grande Muraglia. Tuttavia le aziende italiane – troppo piccole ed eurocentriche – ne hanno tratto vantaggio marginalmente. In un caso di scuola – ora sempre piu? numeroso – la Volkswagen produce piu? auto in Cina che a Wolfsburg. Le multinazionali hanno intercettato con pro- fitto la volonta? di riscatto cinese e le loro dimensioni hanno consentito investimenti sostanziosi, plu- riennali, negoziati. Bastava esaminare le loro esperienze, invece di ripetere all’infinito che Small is beautiful. Quando intervengono le trattative, l’accesso ai capitali, le economie di scala, le dimensioni contano, size matters. Mal difesa dalla sinistra, l’industria nazionale e? stata lasciata a patetici tentativi identitari, tesi a penalizzare i prodotti di Pechino. La Cina e? oramai nel Wto e le eventuali misure restrittive si decidono a Bruxelles, dove i margini italiani sono istituzionalmente ridotti.

Il feticismo dell’origine della merce

Qual e? peraltro il significato stringente dell’origine della merce? Cosa significa salvaguardare la produzione nazionale? La creazione del valore e? ormai globalizzata o almeno tende a esserlo sempre di piu?. La libera circolazione di merci, talenti, materiali, capitali, indirizza il loro reperimento ovunque sia disponibile al meglio. L’assemblaggio ha luogo nei posti piu? convenienti. La vicinanza alle materie prime per creare un’industria e? ormai un concetto che volge al tramonto. Un iPhone prodotto a Shenzhen e spedito negli Stati Uniti incide per 275 dollari nell’attivo commerciale cinese. Eppure il valore aggiunto nella Rpc e? di soli 10 dollari. Il resto appartiene ad altri luoghi, compresa la California per il progetto della Apple. Eppure ogni iPhone viene conteggiato come made in China. E? ancora opportuno affidare alle statistiche il monopolio delle informazioni commerciali? Non sarebbe piu? opportuno studiare i passaggi della creazione di valore, piuttosto che insistere sulla provenienza delle merci? No Cina, e? il cartello appeso nelle bancarelle, all’ingresso dei negozi di casalinghi e giocattoli. Ben altre contese avrebbe meritato il made in Italy, se da bandiera stinta si fosse trasformato in programma redditizio.

Un’altra statistica, drammaticamente ostinata, ci conduce al nocciolo della dinamica globale: la meta? delle merci esportate dalla Cina deriva da investimenti di multinazionali. La percentuale assolve in partenza le accuse di invasione commerciale rivolte al Dragone. La replica e? infatti semplice: Pechino sta facendo cio? che le e? stato chiesto, cioe? produrre. Ovviamente questo passaggio epocale ha dato forma alla globalizzazione. Il suo carattere economico e? stato largamente prevalente. La Cina – araldo dei paesi emergenti – vi ha trovato la soluzione per sconfiggere l’arretratezza e riproporre il suo peso politico. Il capitalismo occidentale ha scovato uno stimolo gigantesco, contemporaneamente scelta e necessita?, per i nuovi assetti. Senza contrasti ideologici, senza l’Unione Sovietica, il mondo era effettivamente sembrato piu? omogeneo, incline al benessere, pronto alla democrazia, inevitabilmente proteso verso la liberta?. The world is flat, senza ostacoli, ci ricordava il pensiero dominante. La tecnologia era disponibile, trasferibile, senza limiti; i gusti tendevano a uniformarsi, la storia sembrava al capolinea. Immaginare una globalizzazione dei diritti e delle opportunita? sembrava un ingombro fastidioso o un’illusione giovanile.

L’Asia orientale e? stata uno dei bastioni del nuovo sistema. Il trasferimento di attivita? produttive, ingigantito dalla Cina, aveva gia? interessato le quattro tigri (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapo- re), poi l’intero Sud-Est asiatico, infine il sub-continente indiano. Il suo destino era la creazione materiale di valore, potendo contare su una massa sterminata di forza lavoro disciplinata e partecipe. Ilcompito di estrarre valore spettava all’Occidente, nella sede emblematica di Wall Street. I redditi generati dalla finanza sostenevano i consumi, acquistando le sovrapproduzioni asiatiche. Il sistema aveva bisogno della compressione dei salari e dei consumi in Asia. Li?, la stabilita? permaneva la stella polare di tutti i governi. I mercati ricchi erano la destinazione immediata delle merci, con attivi commerciali reinvestiti copiosamente. Il consumo della Cina rappresenta ancora oggi il 38,6% del suo Pil; quello statunitense ha un valore notoriamente piu? alto (68,1%). Sembrava la negazione della logica economica; eppure gli assetti strategici hanno imposto questo equilibrio precario. Quando la Lehman Bros e? fallita nel settembre 2008, e? diventato evidente che i risparmi dei lavoratori cinesi non potevano continuare a finanziare i consumi della middle class americana. Per registrare le conseguenze sull’occupazione di questo eccezionale trasferimento di risorse – tra chi creava valore e chi ne godeva – e? stato invece necessario attendere i risultati elettorali piu? recenti.

Sinistra vs globalizzazione?

L’atteggiamento della sinistra verso la globalizzazione e? stato incerto, innervato da sfumature e interpretazioni. In un estremo concettuale permaneva la classica opposizione al capitalismo, del quale la globalizzazione rappresenta la versione piu? sofisticata. Se ne combatteva la spietatezza, lo scarso rispetto per i piu? deboli, l’esposizione al mercato e dunque la riduzione delle proprieta? pubbliche. Effettivamente il declino degli Stati nazionali, soprattutto in Europa, e? innegabile. Stanno sbiadendo le loro prerogative: il controllo delle frontiere, la stampa delle banconote, il monopolio della forza, l’omogeneita? culturale. Chi ha assunto questi poteri? Le organizzazioni internazionali, le banche multilaterali, le missioni militari della Nato, le multinazionali, l’egemonia statunitense. L’opposizione immediata e? stata dunque ideologica; quella seguente e? piu? concreta: i vincoli di bilancio sono spietati, non si puo? piu? svalutare e finanziare in deficit. Il primo bersaglio della globalizzazione e? il welfare. Per mantenerlo sarebbero necessarie alcune condizioni: un’eccellenza tecnologica diffusa, una specializzazione finanziaria e dei servizi e la sottomissione dei paesi emergenti. In Italia, la prima sta flettendo, la seconda non ha mai avuto luogo, la terza non e? piu? praticabile. Il riscatto dell’Asia ha intaccato i paesi deboli dell’Europa. L’opposizione della sinistra tradizionale alla globalizzazione si comprende, ma rimane una semplice testimonianza. Le risorse per reddito e occupazione – in assenza di prospettive di radicale cambiamento politico – non sono piu? disponibili. La protezione garantita durante la Guerra fredda, la possibilita? di finanziare il consenso attraverso il debito pubblico sono ormai inimmaginabili. La sicurezza dell’occupazione, la centralita? del lavoro, gli investimenti pubblici sono dei rimpianti. L’inflazione, la svalutazione, le assunzioni clientelari dovrebbero essere i rimorsi.

La Cina in trent’anni ha spostato 300 milioni di contadini nelle citta? trasformandoli in operai. Per la prima volta nella sua storia millenaria i centri urbani sono piu? popolosi delle campagne. Le fabbriche si trasferiscono con una disinvoltura inquietante. I governi occidentali sembrano impotenti. In questa cornice, e? stato opportuno irrigidirsi sulla battaglia, poi persa, dell’articolo 18? Non c’era una soluzione migliore della lenta agonia della cassa integrazione? E? stato saggio privilegiare le relazioni industriali esistenti, trascurando le forme contrattuali che si stavano affermando? Mentre si consolidavano nuovi mestieri – dai ciclofattorini alle partite Iva, nei call center e nei centri di distribuzione – nessuna spia si e? accesa quando i pensionati sono diventati la componente piu? numero- sa dei sindacati?

La sinistra di governo e? stata al contrario favorevole alla globalizzazione. Sciolta da legami ideologici, ha sposato le teorie liberiste. Ha tentato di rinnovare la vecchia tradizione socialdemocratica del deficit spending, convinta che la diluizione dello Stato avrebbe generato dinamismo e individualismo. La globalizzazione era cosi? identificata con la crescita della societa? civile, l’aumento della ricchezza, la sconfitta del sottosviluppo, la contaminazione culturale, l’affermazione di diritti universali. Inaugurata da Clinton e Blair – con evidenti affinita? con la destra moderata – ha oggettivamente raggiunto i risultati che auspicava, approfittando essenzialmente dell’assenza di antagonisti internazionali. Questa globalizzazione ha gestito con acume il disequilibrio sul quale poggiava. Il suo architrave era la certezza del progresso: il commercio e? uno strumento di pace, il panorama postideologico avrebbe omologato il mondo intero. Le praterie gratuite di Internet erano pronte a consolidarla. Il modello cinese – un concentrato indigesto di dittatura e bassi salari – era con fastidio considerato inapplicabile. Quando raggiunta dalla prosperita?, la classe media avrebbe reclamato nuove rappresentanze, dando vita al parlamentarismo. La bandiera della democrazia sembrava destinata a sventolare a Pechino e a Shanghai. La crisi ha fatto giustizia di queste convinzioni. Si e? affannato presto il respiro del benessere universale, un wishful thinking.

La Cina ha spento questi sogni, confinandoli alla loro ingenuita?. Ha confermato la sua irriducibilita? a logiche estranee, l’impermeabilita? a fattori di rischio, la serieta? del suo impegno, la diversita? nel tragitto di sviluppo. Soprattutto, ha reso la democrazia uno strumento, non un postulato. Si puo? produrre ricchezza – come mai nessun paese nella storia economica – anche senza la circolazione di idee e il disagio delle elezioni, con la guida del partito unico. Questa inoppugnabile verita? ha dapprima disorientato e poi colpito l’ottimismo delle societa? occidentali. Per un’ironica inversione dei fini, la globalizzazione non ha prodotto la democrazia in Cina, ma ha condotto a una precarizzazione nei paesi piu? deboli. Qui, la fabbrica fordista, lo Statuto dei lavoratori, la concertazione sindacale sono apparsi impraticabili, se esposti a una concorrenza spietata. Salpata con l’ideale della democrazia in Cina, la corazzata della globalizzazione e? approdata in porti mediterranei, affollati di disoccupazione e lavoro nero. Il numero degli addetti si e? tragicamente ridotto in Italia che, in aggiunta, ora e? prima in Europa per i Neet, amaro acronimo di Not in employment, education, or training. Si trova in questa situazione il 26% dei cittadini tra 18 e 24 anni. Piu? di un quarto dei giovani e? ufficialmente nullafacente. Nella stessa cornice, tornano specularmente gli stessi interrogativi: perche? la scorsa legislatura ha espunto l’articolo 18? Qual era il messaggio di tanta determinazione? Inoltre: ha portato effetti tangibili, op- pure soltanto la propaganda di decimali di punto per occupazioni sempre piu? precarie? Soprattutto: qual era l’opportunita? di dividere il paese e il partito di governo sul lavoro e su tante altre questioni? Non sarebbe stato piu? saggio trarre vantaggio dalla migliorata congiuntura internazionale per raggiungere qualche risultato, per offrire tregua e speranza? Solo ora la sinistra italiana sostiene di non aver capito la globalizzazione. Lo fa con lo stesso candore con il quale perde le elezioni, come se si sia trattato di un piccolo incidente di percorso e non di un errore epocale.

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Dopo la crisi. Destra vs globalizzazione!

Nell’ultimo decennio i disequilibri mondiali sono variati, ma i suoi nodi non sciolti. A parita? di potere d’acquisto il Pil cinese ha superato nel 2014 quello statunitense; le economie dei paesi emergenti sono nel complesso cresciute nove volte piu? velocemente di quelle industrializzate; decine di milioni di persone scavalcano ogni anno la soglia di poverta?; nel 2018 il reddito pro capite spagnolo ha sorpassato quello italiano. La globalizzazione ha accentuato il suo versante economico. Sono aumentati gli stati autoritari, le disuguaglianze, la dissipazione delle risorse. Il dominio dei gestori dei big data – aiutato da disinvolte misure antitrust – e? completo e inquietante. I partiti progressisti non hanno saputo arginare questa deriva, quando non ne sono stati artefici diretti. La novita? politica emersa e? singolare e inquietante: l’opposizione alla globalizzazione e? ormai patrimonio della destra; non quella classica e liberale, ma la sua declinazione nazionalista. Venata da fascismo, immagina un ruolo piu? incisivo dello Stato, sigilla le frontiere, difende le tradizioni, rimpiange il passato, evita il contagio, si affida al suo popolo, diffida dell’inglese, privilegia la cucina italiana. I suoi concetti chiave sono comunita? e identita?. Siamo dunque agli antipodi della globalizzazione, almeno dei suoi aspetti piu? inclusivi e progressisti. Non averne intercettato la novita? dirompente, affidandone l’opposizione alla destra e al populismo, e? stato un errore imperdonabile. Bloccata dall’infertilita? concettuale, ma soprattutto dall’imitazione di logiche subite, la sinistra italiana e? stata prigioniera dell’incapacita? di gestire un fenomeno complesso.

Inoltre, la supremazia della destra e? stata conquistata elettoralmente, facendo leva su rancori, in- soddisfazione, protesta, mancanza di sicurezza sociale e occupazionale. Donald Trump, con una magistrale campagna elettorale, ha dato forza a questi sentimenti e ha trovato epigoni anche nella vecchia Europa. La Casa Bianca ha ora rimesso in gioco il delicato equilibrio emerso tra enormi contraddizioni dopo la Guerra fredda. Le domande di Trump, al netto delle risposte, sono tutt’altro che banali. E? sostenibile il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina, pari a 376 miliardi di dollari nel 2017 (senza contare quelli con Messico, Germania e Giappone)? Si puo? negligere il risentimento degli operai del Midwest per la perdita del lavoro trasferito in Asia? Non si smarrisce l’identita? nazionale se aumentano i 55 milioni di cittadini di lingua spagnola gia? negli Stati Uniti? Perche? le spese della Nato devono ancora essere cosi? sostenute per Washington? Le precedenti amministrazioni avevano navigato tra un equilibrio complicato. Trump e? meno incline alle sofisticazioni, ma oggettivamente i nodi si sono ingigantiti. Riuscira? a scioglierli con minacce, muri, dazi, tweet e nuovi assetti che ne deriveranno?

Se la previsione si basasse sull’interferenza delle molte variabili, la risposta sarebbe negativa. Il mondo e? oggi cosi? interconnesso che soluzioni unilaterali appaiono improbabili. Soprattutto a livello economico, strappi clamorosi sembrano difficili da sopportare. La Cina interviene nei twin deficits statunitensi, sia commerciale che federale. Accumula risorse vendendo merci ai consumatori americani. Inoltre riceve i capitali degli investimenti produttivi. Ha accumulato la piu? alta concentrazione di riserve valutarie al mondo, che alcuni anni fa aveva superato l’astronomica cifra di 4.000 miliardi di dollari e ora – dopo il sostegno alla domanda in- terna – e? quantificabile in 3.200 mi- liardi. Le cifre esatte sono segrete, ma e? altamente verosimile che piu? della meta? sia costituita da treasury bond emessi da Washington per finanziare il deficit federale. Gli stessi dollari che comprano merci, poi da altre mani acquistano il debito. La Cina e? il piu? grande detentore di titoli di Stato Usa. Ha nei suoi forzieri una massa ingente di denaro che le da? ampi margini di manovra sui mercati. Diventa proprietaria di porzioni di Stati Uniti. Cosa succederebbe se vendesse o smettesse di comprare titoli, oppure se esigesse i suoi crediti? Quali scenari si aprirebbero se gli Stati Uniti decidessero di non onorare i loro debiti? Gli analisti che hanno descritto questa possibilita? come nuclear option non sono lontani dalla realta?. In questi casi la prudenza – non solo alla Casa Bianca – non e? solamente saggia ma obbligatoria.

Le cronache riportano le guerre commerciali tra gli Stati Uniti e i loro principali paesi fornitori. L’impostazione di Trump e? classica: aumentare i dazi all’importazione per favorire il consumo di prodotti interni che trainerebbe le assunzioni. Buy American, hire American. La tenzone a suon di nuove tariffe e? in atto. Probabilmente Trump riuscira? a strappare qualche concessione e a trasformarla in una narrazione conveniente. In via di principio ha certamente ragioni da vendere. Eppure le domande da porsi sono altre: e? praticabile questa via? Riuscira? il presidente a riportare l’occupazione industriale nel paese? Le sue azioni nel lungo periodo saranno redditizie? Le risposte piu? plausibili sono tutte intrise di dubbi. I dazi sono bivalenti. Se si importano componenti da assemblare, il costo finale del prodotto – pur se diventato made in Usa – potrebbe diventare proibitivo. Inoltre, la distribuzione lamenterebbe di non poter piu? «importare a costi cinesi e vendere a prezzi americani». Quando l’amministrazione Trump ha imposto i dazi su alluminio e acciaio cinesi, tre Associazioni nazionali di produttori lo hanno applaudito. Ben 46 grandi associazioni di utilizzatori dei due metalli – comprese le multinazionali piu? potenti – hanno espresso il loro disaccordo. Lo hanno fatto anche gli esportatori, timorosi dell’imposizione per reciprocita? di misure protettive nei paesi colpiti dall’iniziativa statunitense. Alcune aziende infine hanno scelto l’opzione opposta, come la Harley Davidson che ha deciso di delocalizzare per evitare proprio i dazi sulle sue moto. L’effetto combinato di questi eventi sarebbe probabilmente insostenibile nel lungo periodo.

In aggiunta, rinnovare una vocazione industriale dopo decenni di trasferimento di attivita? mature non sara? certamente agevole. Difficilmente i telai della Virginia riprenderanno l’attivita? tessile, le acciaierie di Pittsburgh a inquinare, i terreni di San Jose? a ispirare i racconti di Steinbeck sui lavoratori agricoli messicani. Ora, su quello stesso suolo, sorgono le aziende pulite della Silicon Valley. I loro algoritmi spingono verso un mondo globalizzato, senza frontiere o distinzioni, dove l’inglese e? al servizio del consumatore universale. Anche l’industria automobilistica – che ha dato comunque segnali di grande vitalita? – ha ceduto la supremazia produttiva alla Cina e compete con le industrie europee e asiatiche per le nuove frontiere tecnologiche. Ci vorra? un mandato presidenziale ampio, che comprenda produttori e consumatori, per continuare la guerra commerciale. Nel frattempo, in Bangladesh gli operai tessili continueranno a guadagnare 50 dollari al mese. Esistera? sempre un paese di riserva dove trasferire le produzioni; non si possono imporre dazi a tutto il mondo.

Se dunque e? verosimile un aggiustamento funzionale degli assetti, almeno tre considerazioni minacciano tuttavia la stabilita? internazionale. La prima e? lineare: Trump ha scosso il sistema, ha aperto molti fronti, confuso la distinzione tra amici e nemici. E? determinato, sbrigativo, popolare, fortunato. E? per lui motivo d’orgoglio evitare le complicazioni, i lunghi dossier; ai luoghi della politica preferisce la velocita? del business. Ha disvelato molte contraddizioni, spesso acuendole. Se non riuscira? a risolverle, la tentazione di usare maniere drastiche potrebbe serpeggiare. In politica estera ha mani pressoche? libere, senza i check and balance che la Costituzione gli impone all’interno. Paradossalmente, sono i generali e la Cia a consigliare moderazione.

In secondo luogo, gli oppositori degli Stati Uniti – pur con diverso tasso di antagonismo – sono sempre meno intimiditi. Piu? che nel passato, nel multipolarismo le alleanze si compongono sul pragmatismo. Il Medio e l’Estremo Oriente ne sono un esempio lampante. Le pressioni statunitensi si arenano di fronte ai nuovi assetti politici che l’emersione della Cina ha trainato. Oggi Pechino indossa abiti piu? ambiziosi. Ha sconfitto il sottosviluppo, rivendica territori da altri paesi asiatici e minaccia la Pax Americana nel Pacifico. La Cina remissiva del dopo Mao e? ora potente e orgogliosa. Il suo percorso e? pressoche? completo: l’economia ha assolto il suo compito, la politica puo? ritirare la delega e tornare al comando. L’espansione verso il Mar cinese meridionale e la Nuova via della seta sono articolazioni della stessa ambizione. Le rotte potrebbero collidere con la 7a Flotta della Us Navy.

Da ultimo, il nazionalismo di Pe- chino non confligge soltanto con Washington. Si somma a quello dei vicini asiatici: la Russia di Putin, l’India di Modi, il Giappone di Abe. Gli attriti politici in Asia sono tutt’altro che risolti. La penisola coreana e la ferita aperta di Taiwan lo ricordano costantemente. Se le tensioni economiche possono essere negoziate, quando diventano politiche e militari rimandano a scenari molto piu? tesi. «The world is a complicated matter», ammoniva Barack Obama; ecco perche? le scorciatoie sono infide e le trattative doverose.

Meglio il capitalismo, per ora

In questa scena internazionale il ruolo dell’Italia e? in ultima fila se non dietro il palcoscenico. Alla retorica nazionale si oppongono i numeri, le classifiche, le tendenze, le perdite di posizione. Sono noti i limiti strutturali e le responsabilita? politiche. Il nostro paese e? stato colpito dalla globalizzazione; certamente i prezzi pagati sono stati superiori ai vantaggi. Un tessuto debole, poco esposto alla concorrenza, strategicamente protetto, quando e? stato messo di fronte a nuovi attori globali – potenti, spregiudicati e alleati del- le multinazionali – ha mostrato dei cedimenti. Soprattutto, i suoi limiti – le competenze, la rettitudine, il senso delle istituzioni – non sono stati indenni allo scrutinio della magistratura e dell’opinione pubblica internazionale. Oggi, il nostro paese viene percepito come un pericolo – dunque da non lasciare a se stesso – piu? che un sostegno alla crescita. La costanza degli errori, le fragilita? di base, i vincoli di bilancio, i controlli europei rendono molto difficile qualsiasi ipotesi espansiva.

Probabilmente l’Italia dovra? limitare il suo intervento a negoziare il declino che la sta colpendo.

Rimane il rammarico perche? la sinistra – nella sua accezione piu? ampia – ha avuto la possibilita? di in- cidere. Non ha piu? la giustificazione di essere stata all’opposizione. Sarebbe riduttivo addebitare la sua sconfitta alla plateale incompetenza dei suoi dirigenti. Il loro spessore culturale e politico e? certamente piu? sottile di quanto richiesto. Comprendere e gestire il cambiamento – anche con rotture dolorose con il passato – era il suo compito. E? rimasto largamente disatteso, anche per motivi non soltanto politici. Le novita? sulla scena mondiale, le incrostazioni su quella interna non hanno condotto a diverse visioni sociali, a differenti distribuzioni della ricchezza, al superamento della crisi. Hanno solo prodotto controverse, traumatiche e incompiute riforme. Lo scarto tra i cittadini e le istituzioni e? approdato agli esiti conosciuti.

Ora il paese e? in preda a un forte sentimento anti globalizzazione. Il mainstream e? affollato di concetti chiarissimi: frontiere, muri, statalizzazioni, respingimenti, Prima gli italiani. Dopo averne fallito la comprensione, la sinistra ha lasciato alla destra l’opposizione alla globalizzazione. La conclusione e? amara e singolare: l’Italia e? l’unico luogo dove il capitalismo rappresenta l’offerta politica di sinistra. Sono certamente piu? progressisti i suoi aspetti migliori – il dinamismo, la mobilita? sociale, la meritocrazia, la liberta? – che la palude all’orizzonte. E? necessario dunque molto ottimismo della volonta? per immaginare un prossimo riscatto della sinistra. Non sara? sufficiente una nuova classe dirigente e una piu? solida impalcatura teorica. Nel breve periodo si puo? fare affidamento sulla volatilita? dell’elettorato, sulle incertezze del governo pentaleghista, sul fallimento del sovranismo. Si tratta di ipotesi possibili ma aleatorie e non sufficienti. In prospettiva, la maturazione di una sinistra democratica e di governo appare lunga e difficoltosa. Per lanciare un seme, per non abbandonare la speranza, vanno rispolverati utensili eterni: studio, serieta?, integrita?, partecipazione, attenzione ai piu? deboli. La vera novita? sara? il coraggio di gestire situazioni inedite e complesse, con l’inattaccabilita? della propria preparazione.


 
Questioni di confine: l'umano e la macchina, il postumanesimo e il conflitto sociale PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Mercoledì 09 Novembre 2016 14:28

Questo articolo è composto da due parti, la prima che riguarda il tema del confine tra umano e macchina, di Adriana Perrotta Rabissi, la seconda che riguarda postumanesimo e conflitto sociale di Franco Romanò

I parte

Nei tre saggi che compongono il Manifesto Cyborg  Donna Haraway indaga il rapporto tra scienza tecnologia e identità di genere. In contrasto con le posizioni essenzialiste di parte del femminismo adotta la metafora del Cyborg come figura in grado di sovvertire l’ordine del discorso patriarcale e mettere  in crisi l’epistemologia maschile.

In the three essays composing the Cyborg Manifesto Donna Haraway investigates the relationship between science technology and gender identity. In opposition to the essentialist positions taken by part of the feminist movement,she takes cyborg metaphor as a figure able to subvert the order of speech and consequently putting in crisis male epistemology.

 

Preferisco essere cyborg che dea (Donna Haraway), di Adriana Perrotta Rabissi

Negli anni Novanta del secolo scorso Donna Haraway, filosofa e biologa statunitense, che si dichiara socialista e femminista, si è interrogata sul rapporto scienza, tecnologie e identità di genere e ha scritto tre saggi pubblicati in italiano nel libro, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie, e biopolitiche del corpo, Introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano, 1995.1

Si tratta di un testo importante, ma in Italia purtroppo ha avuto circolazione e diffusione minori che altrove, forse proprio per l’ambivalenza nei confronti dei temi affrontati, e anche perché contrastava le posizioni essenzialiste elaborate dal femminismo della differenza sessuale, egemone nei media italiani.

 



Haraway è fermamente contraria a ogni concezione essenzialistica della soggettività e a ogni rappresentazione bionaturalistica dei corpi, che vanno considerati nel loro intreccio di materia e pratiche culturali di significazione.

Le ricerche di Haraway costituiscono la base sulla quale si è sviluppato il pensiero del femminismo postumanista e  antispecista contemporaneo, inoltre si collocano all’origine di riflessioni che diventano oggi quanto mai attuali, soprattutto alla luce della recente convergenza tra pulsioni neoliberiste e pulsioni neofondametaliste, che pongono l’accento sulla dimensione sessuata del corpo, naturalizzando i parametri comportamentali stabiliti all’interno del discorso patriarcale.

Haraway scriveva trent’anni fa di possibilità che molt* di noi conoscevano solo nell’ambito della letteratura fantascientifica, mentre lei parlava dal paese più avanzato in scienza e tecnologia; nel frattempo si sono intensificate scoperte e invenzioni che in qualche modo ci hanno strett* tra sogni di onnipotenza e incubi, tra la speranza che le biotecnologie migliorino la vita delle persone, eliminando patologie, disabilità, contingenze che ci ostacolano nel quotidiano, aiutandoci per di più a ampliare le possibilità di azione dei nostri corpi concreti, e il timore di superare limiti etici e sociali e perdere in umanità e relazionalità tra le persone.

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L’eroica idiozia di una massaia. Nascita e morte della massaia di Paola Masino PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - L'altra globalizzazione
Martedì 10 Novembre 2015 08:56