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Letture e spigolature
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Domenica 20 Maggio 2018 07:57 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Comunicare nel modo più ampio possibile con il linguaggio cinematografico la deriva che stiamo correndo, tutti e tutte, abbagliati/e dallo sfavillio dei consumi noi, prostrati dalla paura e dalla miseria gli altri, svelare le radici storiche dell'infelicità di miliardi di persone, indurre la presa di coscienza di fenomeni che si preferirebbe ignorare apre a possibilità e prospettive inedite di resistenza e lotta.
To communicate, in the widest possible way, the moral drift that all of us are involved with, using movie language. In the western side of the world we are dazzled by the sparkling of consumption, while others are worn out by fear and poverty. The movies considered in this essay reveal the historical roots of the unhappiness of billions of people trying to cause better awareness of phenomena that normally one prefers to ignore. Last but not least the movies are opened to new opportunities of resistance and struggle.
Intentamos comunicar, de manera lo más amplia posible, la deriva a la cual están llegando estas nuevas subjetividades, para ello se ha utilizado el lenguaje cinematográfico. En el mundo occidental muchos están deslumbrados/as por los fulgores del consumismo, mientras otros están postrados de miedo y pobreza. Las películas consideradas en este ensayo tratan de descubrir las raíces históricas de la infelicidad de muchas personas en todo el mundo y, favorecer una toma de consciencia de los fenómenos que se pretende ignorar y, abrir así, a posibilidades y perspectivas inéditas de resistencia y lucha.
Conversazione tra una madre in Italia e il figlio professore in una università degli USA, si parla di Loveless, un film, appena visto da entrambi perché la programmazione è stata contemporanea nelle due città di residenza, tristissimo, ma efficace sul tema dell’alienazione dal consumismo, dell’egoismo sociale e dell’apatia etica di molte/i abitanti della Russia attuale. Il professore commenta il film e dice: sto proprio scrivendo tutto un capitolo del mio libro sull’ideologia dominante dell’ordine capitalista. La madre: intendi il pensiero unico, l'ordoliberismo, la sussunzione della vita nei processi produttivi, lo sfruttamento delle fasce più povere delle popolazioni? Il professore: esatto! La madre: attento, poi finisce che ti espelleranno dagli USA. Il professore: ma va! In Accademia sono le cose più trendy da dire.
Non so se questo squarcio di colloquio mi ha fatto più ridere o piangere.
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Martedì 10 Novembre 2015 14:42 |
di Franco Romanò
I cambiamenti di Milano negli ultimi venti anni sono stati profondi ma poco guidati. Il testo è l'inizio di un viaggio interno alla città per tornare a scoprirla.
Milan deeply changed during the last twenty years, but these changes were not ruled. This essay is the beginning of a journay inside the city, in order to discover it again.
Während der letzen zwanzig Jahren, hat Mailand sich verwandelt, sondern waren diese Wandels nicht gefhürt. Diese Schrift ist den ersten Rastplatz einer Reise ins Mailand.
Prima puntata
La città sta cambiando di nuovo, anche nelle periferie. Non dico a ritmi cinesi (un palazzo di dieci piani costruito in una settimana), ma è indubbio che due cicli di trasformazioni si sono compiuti: il primo è quello seguito alle dismissioni industriali interne al tessuto urbano, avvenute durante gli anni '80 del secolo scorso e completato agli inizi del decennio '90; poi il secondo, nato dallo scontro sulla destinazione delle aree urbane. Tale fase si è intrecciata con i fasti della new economy, seguiti rapidamente dai suoi nefasti. In mezzo e in contrasto con tutto ciò, nuove pratiche di opposizione e resistenza territoriale si sono fatte strada faticosamente, nel mezzo del vuoto politico a sinistra, sempre più grande.
Due cicli interi di trasformazioni nel corso di una trentina d'anni non sono poca cosa e forse tentare un bilancio di quanto avvenuto non è tempo perso; per questo mi sono messo in viaggio per Milano e ho cercato libri e analisi che potessero aiutarmi nell'impresa.
Gli anni successivi alle dismissioni industriali furono di alto degrado: ricordo ancora la vecchia stazione della Bovisa a pezzi, intorno il deserto. Ci fu un delitto che scosse la città: una ragazza fu aggredita di notte, violentata e uccisa. Tutto il quartiere si mosse, ci fu una fiaccolata commovente, ma essa attraversava un territorio lacerato, con qualche sacca di resistenza costituita dalle vecchie sedi dei circoli operai intorno a Piazza Bausan: ma anch'esse sembravano assediate. Poi, pian piano, sono venuti il Politecnico, la biblioteca di via Baldinucci cominciò ad assumere un ruolo di aggregazione per cui è diventata famosa in tutta, sono sorti centri di aggregazione, nuove occupazioni, nacque la Scighera, un locale che continuava e rinnovava (e tuttora lo fa) la tradizione della vecchia Bovisa operaia, a contatto con i movimenti e i centri sociali di più recente formazione. Tutto bene allora? Per niente se l’espressione viene presa alla lettera: le aree abbandonate, le terre di nessuno sono ancora tante (ma a Berlino è anche peggio nel profondo est della città), però si è ricostruito un tessuto sociale e da qui si può ripartire, purché si capisca che occorre farlo dal basso.
La prima sensazione, dopo qualche giorno di peregrinazioni, tanto per cominciare e quindi in un modo discretamente casuale, è di sgomento; non tanto per quello che vedo (anche), ma per la distanza che esiste fra quello che è già avvenuto e avviene e la percezione che la popolazione ne ha e ancor più per l'assenza di riflessioni da parte di chi dovrebbe farlo: la politica, ma non solo.
La sinistra tutta, una volta espunte da ogni riflessione recente parole come ristrutturazione capitalistica e conseguente trasformazione dei modi di produrre e dei modelli territoriali e architettonici, obnubilati dalla teologia neoliberista alcuni, altri ad esercitare contro di essa le virtù di una rassegnata testimonianza critica, senza la capacità di andare alle radici delle trasformazioni avvenute, è caduta nell'afasia, al di là degli slogan oppure delle periodiche manifestazioni altrettanto impotenti del violentismo black block.
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Giovedì 07 Maggio 2015 07:40 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Una ricerca che dà visibilità, sulla base della documentazione raccolta e delle interviste alle protagoniste, ai nuovi gruppi e alle iniziative femministe sorte dal 2000 al 2013, che non hanno avuto risonanza mediatica a causa della loro natura di opposizione radicale alle norme sociali nei settori della sessualità, dell'ambientalismo, dell'econonmia, della cura delle relazioni con gli/le altr* e con il mondo
Ha compiuto un anno il libro di Barbara Bonomi Romagnoli Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio, Roma, Editori riuniti, marzo 2014, e deve avere avuto una buona circolazione, a giudicare dal numero di volte che si trova citato in rete e sui social media. Offre infatti diversi percorsi di lettura, che siano motivati dall’esigenza di conoscere quanto si sta muovendo nel variegato campo del femminismo in Italia, a più di quarant’anni dalla nascita.
Il femminismo, intorno al quale si consumano dibattiti spesso pretestuosi che ne affermano la morte e/o l’inabissamento carsico, è abbastanza conosciuto nelle varianti che approdano ai mezzi di comunicazione di massa, anche se non ha la stessa visibilità riservata a fenomeni più marginali e meno perturbatori dell’ordine sociale. Ma è completamente oscurato nelle parti forse più radicali e quindi meno addomesticabili.
Alle esperienze che si richiamano a questi aspetti è dedicato il libro, esperienze che l’autrice ha conosciuto, delle quali ha raccolto pazientemente la documentazione, arricchendola con interviste alle partecipanti, i femminismi che non fanno notizia, come sono chiamati nel primo capitolo.
Ne risulta una costellazione di gruppi, alcuni già finiti, altri ancora attivi, nati a partire dal 2000, che rivelano una realtà di movimento ignorata dalla maggior parte delle persone, tranne che dalle donne e dagli uomini che la intercettano - o l’hanno intercettata - nel proprio cammino politico-intellettuale.
La ricerca anima in qualche modo il contesto di conflitto e di lotta al sistema politico e sociale, che per altri versi appare abbastanza desolato in questo inizio di secolo.
Un primo percorso di lettura è quello della documentazione, attività propria del femminismo degli anni Ottanta, quando, all’esaurirsi del primo ciclo di lotte degli anni Settanta, sono sorti gli Archivi, le Biblioteche, i Centri e le Case delle donne per preservare dalla distruzione il patrimonio di riflessioni, analisi, teorizzazioni e consapevolezze maturate all’interno del movimento.
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Martedì 25 Novembre 2014 17:17 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Un film centrato sulla ricerca, come forma di lotta, della verità nelle relazioni in una fabbrica guastate dall'individualismo cui induce la crisi economica.
Il mio è uno spunto di riflessione indotto da un film per me “epocale”, ‘Due giorni e una notte’ dei fratelli Dardenne. Mi si passi l’enfasi dell’aggettivo a proposito di un film che, malgrado l’argomento trattato, è attento a non scivolare mai in facili retoriche, consolatori sentimentalismi e rassicuranti moralismi.
Molti film degli ultimi vent’anni, da quando si è manifestata in tutta la gravità la crisi globale del nostro sistema produttivo e riproduttivo, hanno rappresentato la realtà di frustrazione, miseria, disperazione per donne e uomini, legata alle forme del lavoro attuale, o alla perdita di esso.
Le soluzioni contemplate variavano dalla rivolta individuale a forme di organizzazione collettiva, più o meno creative e/o più o meno coincidenti con le forme di lotta tradizionali per salvaguardare il posto di lavoro.
‘Due giorni e una notte’ prospetta una soluzione eccentrica rispetto a queste forme di lotta, perché punta l’iniziativa sulle relazioni tra le persone colte individualmente nella loro soggettività, non sul loro essere masse, classi, categorie sociologiche.
Questo presuppone un cambiamento culturale che, senza negarla, vada oltre la dimensione appunto di una generica solidarietà di classe, perché chiama in causa la consapevolezza di ognuno/a della propria vulnerabilità sociale e della interdipendenza reciproca contro la tendenza all’individualismo e alla competitività come unici modi per sottrarsi a un destino di miseria e degrado.
In altre parole il film invita a fare dell’ attenzione a persone, ambienti, animali e cose il valore fondante della convivenza civile e il principio trasformatore dell’attuale modello di produzione di beni e servizi e di riproduzione sociale. Il momento è favorevole perché lo sviluppo tecnologico raggiunto permetterebbe di liberare tempo ed energie di uomini e donne per questo fine, a patto di rinunciare a mantenere invariati i profitti per i soliti pochi.
Questo suggerisce il film in controluce, anche se narra una vicenda che esita in una apparente sconfitta.
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Lunedì 17 Novembre 2014 12:12 |
di Paolo Rabissi
Troppe omissioni nel film di Mario Martone dedicato a Leopardi?
1) Mario Martone ha amato e ama Leopardi, ce lo dice con passione in questo suo ultimo film. E anche Recanati e a maggior ragione Napoli e Torre del Greco sono rivisitati con garbo ed emozione. La scelta delle musiche (da Rossini alla musica elettronica) l’ho trovata molto godibile e convincente. A ciò bisogna aggiungere l’indiscutibile bravura degli attori, in particolare di Elio Germano nella parte del poeta. Un film destinato al successo credo, capace di affascinare.
2) Martone tocca la maggior parte dei punti critici della biografia e del pensiero del poeta e, se qualcosa manca, per rispetto a un regista di valore e a questa sua opera che ha molti pregi, credo sia giusto chiedersi se le omissioni sono gravi o meno. Possiamo tentare di vederne qualcuna e ragionarci sopra.
2.1) Monaldo scopre (il film non dice come ma è noto) il tentativo di fuga di Giacomo nel 19: è una scena a dire il vero molto cinematografica, con un effettaccio: Leopardi sale emozionato e di nascosto sulla carrozza e il cocchiere volta lentamente il suo viso verso il giovane svelando di essere Monaldo. Leopardi prima di partire aveva scritto una lettera al padre molto interessante per capire i suoi rapporti con la famiglia che non voleva spendere niente per dargli qualche opportunità di studio fuori da Recanati. E’una lettera che è un vero e proprio atto di accusa contro una famiglia avara e che, a finanze dissestate, badava comunque solo al proprio decoro mantenendo servitù, carrozze e palchi in teatro. Essa non aggiunge nulla alla disperata volontà di fuga di Leopardi ben descritta nel film ma conoscerla forse restituisce una concretezza più eloquente a quanto si finisce, come sempre accade con Leopardi, per addebitare solo alla sua inquietudine esistenziale. Il film non manca di mettere in rilievo la figura di una madre del tutto disinteressata alle sorti del poeta, al padre tuttavia a più riprese Leopardi si rivolge nel film con devozione e tenerezza. Che ci stanno tutte, solo che il suo giudizio su di lui proprio in quella lettera si svela bel altrimenti accusatorio. Gli imputa drammaticamente di aver applicato rigide «norme geometriche» nel valutare l'ingegno di un figlio che mostrava di avere «alquanto più che un barlume d'ingegno» e di aver concluso che questo non meritava alcun sacrificio dei piani familiari: l’accusa più bruciante infatti è di non aver nemmeno preso sul serio la richiesta («Fui accolto colle risa ...») di adoperare le conoscenze di famiglia per trovargli un impiego fuori Recanati.
2.2) L’antiutilitarismo di Leopardi viene accennato nel film quando il poeta frequenta il gabinetto Viesseux a Firenze: qualcuno chiede a Leopardi notizia del carattere di quella sua iniziativa editoriale di un periodico letterario e lui risponde brevemente che carattere precipuo della rivista sarebbe stato il rifiuto programmatico di essere utile a qualcosa. Ha fatto bene Martone a mettere sulla bocca del poeta le parole che compaiono nel Preambolo, scritto di proprio pugno dal poeta e arrivato a noi. In esso, dopo aver giocato ironicamente sulla natura del giornale nel quale non si volevano "letterati" per redattori ma neanche scienziati, né statistici né economisti, Leopardi chiariva, prendendo garbatamente d'infilata tutta l'ideologia utilitaristica del secolo, della quale il gabinetto Viesseux era la punta di diamante italiana, lo scopo dell'impresa: «Noi non miriamo né all’ aumento dell'industria, né al miglioramento degli ordini sociali, né al perfezionamento dell'uomo [...]. Confessiamo schiettamente che il nostro Giornale non avrà nessuna utilità.
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