Capitalismo e femminismo al tempo della globalizzazione: dibattito redazionale Stampa
Editoriali e dibattiti - Dibattito redazionale
Lunedì 03 Marzo 2014 00:00

Il dibattito redazionale che segue trae ispirazione da un articolo pubblicato da Nancy Fraser sul quotidiano inglese ‘The Guardian’ il 14 ottobre 2013, tradotto da Cristina Morini e pubblicato il 16 Ottobre 2013 sulla rivista on line ‘Quaderni di San Precario. Critica del diritto dell’economia della società’, a questo link

Adriana Perrotta:

Che il capitalismo si impossessi dei sogni di libertà e di emancipazione, sia di uomini che di donne, per distorcerli e piegarli ai propri interessi di sopravvivenza, è un fatto, consolidato sia dalla storia che dalla esperienza quotidiana di ciascuno/a di noi.

Ricordiamo l'insofferenza provata da molti/e di noi, negli anni ‘60, verso i nostri vecchi che lamentavano l'abbandono delle terre e il successo della fabbrica che attirava ragazze e ragazzi; obiettavamo allora che il lavoro in fabbrica, pur faticoso, permetteva margini di libertà e opportunità di socializzazione impossibili nel lavoro agricolo, e che in città, dove c’erano le fabbriche, gli/le operai/ie si affrancavano finalmente dal controllo e dalla censura esercitati dalla comunità e dalla chiesa nei confronti di comportamenti non conformi alla norma sociale, considerati pertanto trasgressivi.

 

Nelle prime riunioni di autocoscienza alla Siemens, alla fine degli anni ’60, le operaie, pur lamentando i ritmi di lavoro in fabbrica e il lavoro domestico a casa, (doppio lavoro si diceva), affermavano che mai avrebbero voluto tornare a essere rinchiuse nelle case, perché in fabbrica almeno potevano distrarsi e sfogarsi con le compagne, in una solidarietà-socialità che a casa sarebbe mancata completamente.

Nello stesso periodo anche io, insegnante di scuola secondaria, ho rifiutato l’opportunità di uscire dalla scuola per dedicarmi al lavoro di cura dei figli, preferendo una situazione di doppia presenza, per quanto faticosa e stressante, a una dimensione di vita più serena, ma garantita economicamente solo da un uomo.

Non ritengo che sia stata una scelta ideologica la mia, penso che la questione sia complessa e che abbia a che fare con il rifiuto –se pure di natura emancipazionista e allora non del tutto consapevole- della codificazione dei ruoli dettata dal patriarcato, sulla quale si è costruito il capitalismo, intreccio che ha dato forma al nostro comune immaginario.

Paolo Rabissi:

E' paradossale (e questa è materia incandescente per me che 'sogno' sempre più di farne oggetto di scrittura in versi, come ho fatto parzialmente in Inverno a Colonia) ma per l'appunto la fabbrica ha significato libertà. Dalle costrizioni medievali del mondo contadino dove il lavoro era a tempo pieno senza soluzione e dove il comando su di esso era del padre padrone marito. Dalla dipendenza concreta degli umori variabili della Natura. Dalla socialità chiusa e cadenzata dai riti. La fabbrica offriva l'astrazione del denaro, l'illusione di una maggiore scientificità per via delle macchine da muovere, una socialità di mestiere sconosciuta. E dunque, come nel tuo caso, il lavoro era una via di emancipazione e libertà. Il fatto è che allora abbondava.

Quanto alla proposta che ti feci di restare a casa, meno male che tu avevi in proposito le idee chiare, perché se tu avessi accettato sicuramente avremmo riproposto meccanismi di stampo più patriarcale perché sarebbe stata inevitabile una divisione dei compiti molto rigida della quale sicuramente io per primo mi sarei mostrato ben presto insofferente.

Franco Romanò:

Ho letto la Fraser e mi convinco una volta di più che il pensiero americano a volte corre troppo in fretta da un polo all'altro delle questioni semplificando assai. Io penso che il rischio di una traduzione economicistico-consumistica di qualsiasi idea (anche la più radicale), ci accompagnerà finché esisterà il capitalismo che è, fra le molte altre cose, proprio il modo di trasformare in merce qualsiasi cosa. Il turbo capitalismo finanziario ha cambiato le carte in tavola, nel senso che - quanto più lo stesso denaro si allontana dalla materialità e diventa segno invisibile - la merce può essere un immaginario fuorviato (la televisione ci sta anche per questo). Detto ciò e quindi dato per scontato che questo avviene (l'esperienza dei paesi socialisti dimostra quanto sia

difficile non mercificare i bisogni) io cercherei di ragionare sui limiti dei movimenti degli anni '70 e successivi. Penso che da un certo momento in poi

(non ho in mente una data precisa), rivoluzione culturale (non uso il termine pensando alla Cina) e rivoluzione politica e sociale, abbiano preso strade diverse, scindendo invece quella unità che per una breve stagione le aveva sapute coniugare. In modi e tempi diversi tutti i movimenti hanno subito un processo riduzionistico delle prospettive che ha di certo favorito l´iniziativa dell'avversario.

Questo riguarda il femminismo come riguarda la nuova sinistra o nuova-vecchia.

Non credo che possa esistere la strada di un nuovo welfare perché al di là dell'opportunità o meno, mi sembra che la Fraser (se vuole dire proprio questo),

dimostri con la sua analisi di scindere ancora una volta il livello culturale d

a quello politico ed economico. Un welfare gestito dallo stato non è più possibile in Europa (Grecia e Portogallo e fra poco l´Italia non bastano a comprenderlo?), ma diverrà un sogno anche negli Usa dove lo scontro fra Presidenza e congresso in tema di bilancio federale dello scorso mese di settembre 2013, non sono di certo riconducibili solo a una provocazione del partito repubblicano come superficialmente hanno scritto in molti.

Paolo:

Credo che si possa accettare che il desiderio di emancipazione economica delle donne ancora legate alla famiglia e ai vecchi ruoli abbia di fatto intercettato il bisogno di una mano d'opera flessibile, incatenata alle richieste saltuarie più o meno brevi del mercato, quella stessa mano d'opera più maschile che buttata fuori dalle fabbriche ha aperto la partita IVA negli anni ottanta e novanta per farsi impresa. Che poi questo abbia avuto un sostegno dal femminismo anche teoricamente oltre che nella pratica questo non lo so ma mi sembra più probabile che ci sia stata semplicemente una resa alle condizioni attuali del lavoro dopo le trasformazioni tecnologiche.

Insomma quello che dice la Fraser e cioè che il capitalismo sfrutta il sogno di emancipazione delle donne mi sembra vero. E forse è anche vero che il femminismo non è attualmente al passo con un aggiornamento teorico, non lo so lo dico un po' a naso. Comunque non credo che la battaglia anti sessista sia meno necessaria di quella per il burro, anche se la Fraser, forse ha ragione, sostiene che quest'ultima è stata meno forte. Che poi, infine, certe lotte come quella del micro credito (che in realtà è un esempio che contraddice, proprio in quanto lotta gestita dalle donne, la presunta minore incidenza del pensiero femminista nel campo economico) abbiano finito anch'esse col coincidere con un bisogno del capitalismo che nel frattempo ha abbandonato le riforme macro strutturali, anche questo mi sembra vero: in conclusione mi sembra che la Fraser dia una sferzata al lavoro teorico e pratico, uno stimolo insomma alla discussione.

A navigare nella rete a proposito di Wellfare se ne trovano di ogni. Devo dire, ma continuerò a leggere, che c'è una notevole schiera di economisti, non solo di critica radicale, che ritengono il keynesismo morto e sepolto ma prossimo alla rinascita. Poi ci sono quelli del Sole 24 ore che lo ritengono una palla al piede (ma non tutti), ma ci sono quelli che, come Lunghini, ritengono che in realtà il k. non è mai esistito, nel senso che è stato sostanzialmente militare, nel senso che dal 29 gli USA sono usciti finanziando la guerra. Ma ad auspicare un nuovo intervento dello Stato sono molti. Anche chi prospetta soluzioni apparentemente molto diverse in realtà si tiene Keynes sotto braccio. Tanto che alla fine ti arrendi all'idea che un governo in grado di opporsi ai diktat della UE ad es., che ovviamente picchia sodo sul Wellfare in nome dei risparmi necessari alla ripresa, non esiste perché mancano le forze politiche che gestiscano idee del genere.

Tuttavia l'impressione è che i giochi non siano già così fatti. All'interno della UE stessa. E lasciamo perdere Krugmann che sostiene anche lui la necessità di diminuire la severità (o austerità), ma alcune voci che conosciamo nella sinistra radicale tengono viva l'alternativa di un'uscita dalla UE e di un abbattimento del debito pubblico, che  a me sembra tanto bello quanto impossibile, e però non sono voci inutili, quanto meno mettono i dubbi, anche perché non sono voci senza eco.

Poi, e l'ho lasciato alla fine perché a me piace molto, c'è la voce del saggio. Si tratta di Georgescu Roegen citato da Lunghini qui :http://www.sinistrainrete.info/keynes/1970-giorgio-lunghini-la-crisi-keynes-la-decrescita.html

Georgescu parla più in generale riprendendo il problema del capitalismo e della natura: dice Lunghini:

Georgescu-Rögen riconosce che una rinuncia completa alle comodità offerte dall'industria moderna è improponibile; e che però è pensabile un programma minimale, il quale comprenda almeno questi punti: 1. Proibire non soltanto la guerra in sé, ma anche la produzione di qualsiasi strumento bellico. 2. Impiegare le forze produttive così liberate al fine di consentire ai paesi sottosviluppati di raggiungere rapidamente gli standard di una vita buona: tutti i paesi devono essere alla pari, nelle condizioni necessarie per riconoscere l'urgenza di un cambiamento radicale negli stili di vita. 3. La popolazione mondiale deve ridursi a un livello tale che ne sia possibile la nutrizione mediante la sola agricoltura organica. 4. Fino a quando l'energia solare e l'energia nucleare non diventeranno davvero convenienti e sicure, ogni spreco di energia dovrà essere evitato e controllato. 5. Dovremo rinunciare ai gadget, a tutti i troppi prodotti inutili. 6. Dobbiamo liberarci dalla moda, che ci spinge a buttar via vestiti, mobili, oggetti ancora utili. 7. I beni durevoli devono essere ancora più durevoli, e perciò riparabili. 8. Dobbiamo liberarci della frenesia del fare, e renderci conto che un prerequisito importante per una buona vita è l'ozio: tempo libero liberato dall'ansia e impiegato in maniera intelligente."

Una saggezza, dico io, come quella delle grida quando i buoi sono già scappati. Considerazioni un po' salottiere mi sembra perché per un programma del genere quale forza politica è pronta? Altro che bolscevismo, Einaudi considerava K. un bolscevico e quindi siamo sempre lì anche noi. Eppure, wellfare o meno, la strada non è che questa per me. A meno di scoprire una nuova fonte di energia che il capitalismo metterebbe subito a frutto o di riuscire ad emigrare su Marte dove c'è acqua pulita. Una strada che ha bisogno però di una forza politica perché l'iniziativa individuale del mercatino di quartiere e/o l'iniziativa individuale o familiare virtuosa non serve a niente se non a tranquillizzare qualche coscienza.

Nel convegno tenuto a Siena nel gennaio 2010: La crisi globale. contributi alla critica della teoria e della politica economica, Riccardo Bellofiore, università di Bergamo, e Joseph Halevi, università di Sidney, hanno tenuto una relazione intitolata La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica. E’ una relazione molto ricca , e lunga, perché esamina le varie interpretazioni della crisi, lo sviluppo capitalistico degli ultimi quarant’anni, e in ultimo le possibili uscite dalla crisi. Riporto la breve premessa: “Il capitalismo è in una crisi ‘sistemica’. Iniziata nell’estate del 2007, a partire dalle difficoltà di un segmento particolare del mercato finanziario statunitense, l’instabilità finanziaria ha finito col contagiare l’intero pianeta. La crisi si è tramutata in crisi bancaria, poi, nel giro di un anno, in crisi reale. La recessione sarà lunga. Ammesso e non concesso che la flebile ripresa si confermi, e che non si abbia un doppio salto nella depressione, il capitalismo potrebbe avere davanti a sé una prolungata stagnazione. Torna all’orizzonte la disoccupazione di massa.”.

Ho trovato interessante in particolare l’analisi secondo la quale “è emerso nel corso degli anni Novanta un ‘nuovo’ capitalismo ancora una volta centrato sugli Stati Uniti e caratterizzato da una sorta di paradossale keynesismo 'privatizzato'. Questo ‘nuovo’ capitalismo – nuovo rispetto a quello del Novecento, anche se per certi versi risuscita alcuni aspetti del capitalismo dell’Ottocento – si muoveva sulle due gambe della finanziarizzazione (in questo senso lo si può anche definire un keynesismo 'finanziario') e della precarizzazione del lavoro.”In sintesi, in misura e modi diversi da quelli classici, il neoliberismo è stato molto più keynesiano di quanto non si dica.

Al termine della relazione, dopo aver introdotto le posizioni critiche verso il keynesismo di Magdoff e Sweezy, scopriamo che in realtà questi ultimi finiscono col concordare col pensiero di Hyman Minsky che auspica un intervento massiccio dello Stato. L’intero articolo è a questo indirizzo:http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/788-la-grande-recessione-e-la-terza-crisi-della-teoria-economica.html.

Franco Romanò:

Mi inserisco brevemente a questo punto per una rapida riflessione sulla panoramica di Paolo. Il mio scetticismo sul possibile ritorno di un intervento statale massiccio riguarda i singoli stati nazionali europei: diverso sarebbe se l'Europa sovranazionale politica esistesse davvero e fosse dotata di strumenti istituzionali forti a cominciare da un vero governo espressione del parlamento europeo che destini risorse ingenti a questo proposito. Nulla di tutto questo esiste e credo difficilmente esisterà per molte cause ma specialmente per una che nessuno vuole nominare perché aprirebbe un conflitto immediato: la Gran Bretagna è nell'Unione solo per impedire che l'Europa politica esista, tanto che ha conservato la propria moneta e questo colossale paradosso sarebbe di per sé sufficiente a comprenderlo. Ammesso che un ritorno massiccio dello stato in materia sociale sia auspicabile (personalmente penso che un ruolo dovrebbe averlo, ma non così massiccio come in passato, oppure secondo le linee che sia il bolscevismo sia la socialdemocrazia hanno sostanzialmente seguito), questo può avvenire solo mobilizzando risorse enormi che possono permettersi soltanto stati di dimensione continentale come la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica, la Russia e altri aggregati ad alleanze strategiche. L'Europa avrebbe queste dimensioni ma sta diventando sempre più un'espressione geografica e finanziaria e basta. Dalla panoramica di Paolo, a parte alcuni interventi salottieri, mi sembra che nessuno abbia questa consapevolezza, ragionano tutti in termini di stati nazionali, ignorando che tutte le leggi di stabilità sono controllate e decise a Bruxelles e a Berlino per tutti. Perciò esse suonano astratte. Una forza politica, un aggregato di movimenti che bypassi questo problema non farà un passo avanti in alcuna direzione. Le proposte, come dice Viale anche in un recente articolo, ci sono anche e quelle più sensate a mio giudizio guardano a un mix fra intervento statale e autogestione dal basso dei servizi, usando tutti gli strumenti che sono in campo: dal micro credito ad altri. A questo proposito vi giro un messaggio che ho ricevuto da Laura Di Silvestro: è un video sulle banche del tempo e sui possibili sviluppi nel senso di autogestione di servizi. Ma qual è il soggetto che lo proietta su un piano continentale? Se non si affronta questo nodo temo che la resistenza continuerà a essere diffusa ma non uscirà dalla descrizione finale dell'intervento di Paolo: mercatini, esempi individuali di vita virtuosa che tengono in pace le coscienze.

Laura Cantelmo:

Da quando le donne sono riuscite a imporre il loro desiderio di uscire di casa per un lavoro retribuito, accollandosi però anche quello domestico e quindi sfiancandosi nel cercare di giocare su tutti fronti in modo soddisfacente, alcuni uomini hanno capito che ciò andava accettato se non incoraggiato perché esso, pur nell'enorme fatica, rendeva le donne orgogliose del proprio ruolo e più forti nel sopportarne il peso. Innegabile che questo rappresentasse e continui a rappresentare una fregatura, una furbesca concessione da parte dei maschi e della società maschilista allorché esiste spazio per il lavoro "esterno" della donna.

Sappiamo quanto sia stato valorizzato il lavoro femminile in tempo di guerra, quando l'assenza degli uomini che combattevano al fronte lasciava vacanti i posti di lavoro. Furono le donne a mandare avanti la baracca famigliare e quella sociale e ciò venne barattato, credo, come emancipazione.

In tempo di crisi, come oggi, la disoccupazione femminile sembrerebbe riportare la donna in casa, quasi a riprendere il ruolo che le è stato biologicamente assegnato. Ecco che, altrettanto furbescamente da parte di chi vede di buon occhio il ritorno a casa, il lavoro domestico si amplia fino a comprendere la cura non solo della famiglia, ma dei vecchi, dei disabili, sostituendo così i servizi sociali (welfare). Come in tempo di guerra, la donna "gloriosamente" si fa carico di un lavoro gravosissimo e viene ammirata per questo.

A questo punto, trovandosi in molti casi al limite della resistenza per il lavoro svolto in casa, la donna richiede la collaborazione di tutti, anche se non sempre riesce ad ottenerla, colmando in tal modo quelle carenze del welfare su cui pare non possiamo più fare affidamento.

Quanto al microcredito per le donne, non mi convince l'idea che esso sia una forma occulta di sfruttamento. Come farebbero a rendersi indipendenti senza un intervento simile? Keynes lo approverebbe, credo. Lasciamo da parte coloro che vedono nel grande inglese un bolscevico e ricordiamo come il suo intervento abbia aiutato gli USA a risollevarsi dopo la Grande Depressione.

E' vero che Keynes tornerebbe utile se l'economia non impiegasse gran parte dei capitali nella finanza e lasciasse qualche riserva per lo Stato. Possibile che non si riescano a riportare alla ragione i vari Chicago Boys dopo tanti disastri conseguenti alle loro teorie? Ritornare a una cultura del risparmio e non dello spreco, evitare il surplus, i bisogni inutili. Di qui bisogna ripartire, da una consapevolezza che sembra per ora assente o smarrita nei riguardi della natura, dei bisogni essenziali, evitando gli sprechi che con una certa arroganza vengono spesso irrisi anche dai nostri figli come segno del passato.

Adriana:

L'egualitarismo è stata la parola d'ordine dell'emancipazionismo, che aveva il difetto di non mettere in discussione l'organizzazione patriarcale, ma solo la dissimmetria di valori rispetto a quest'ordine. Ad esempio le femministe di fine Ottocento e inizio Novecento avevano elaborato la categoria di "equivalenza" tra i compiti "pubblici" degli uomini e la "maternità" -con tutto il carico della cura- delle donne, in nome della quale rivendicavano riconoscimento e parità di diritti politici e civili.

Il neo femminismo - metà Novecento - ha messo in crisi la categoria di uguaglianza sviluppatasi nel senso di pretendere gli stessi compiti svolti dagli uomini per le donne (lavori, mansioni, professioni, mestieri) senza considerare il lavoro di cura, derubricato a "attitudine naturale". Conseguenza la nascita del concetto di questione femminile, ovvero, il problema delle donne di conciliare il lavoro per il mercato con il lavoro domestico e la cura di persone, animali, ambienti.

Di qui la necessità da parte della società di venire incontro alle donne , aiutandole a risolvere il loro problema, con provvedimenti di legge che tutelino le donne, e permettano loro di accedere al lavoro, autonomizzarsi economicamente, accedere a posti di potere, senza che perdano la loro dimensione “naturale” di addette alla cura.

Questo ha significato la attribuzione alle donne della marca di soggetto debole in relazione al lavoro, debole perché bisognoso di tutela.

Non è un concetto nuovo, già alla metà dell’Ottocento era stato segnalato questo rischio da parte di lucide pensatrici, una per tutte Anna Maria Mozzoni, che venne ampiamente trascurato da uomini e donne. ....

Pensiamo alla nostra Costituzione, così democratica, progressista, che all'articolo 37 recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Queste parole introducono i due nodi fondamentali dell’asimmetria delle donne rispetto agli uomini, le attività di “cura” considerate la funzione fondamentale, e il concetto di tutela, che ne fa un soggetto debole nel campo del lavoro. Infatti non si dice che agli uomini deve essere assicurata la possibilità di svolgere la loro "funzione naturale" all'interno della famiglia, gli uomini quindi sono “più liberi” di vendere la propria forza lavoro.

Un’osservazione poi sul tema del microcredito, rivolto alle donne, introdotto quasi trent'anni fa in India, e più recentemente in Norvegia, i risultati furono largamente positivi, a detta di chi ha studiato gli effetti, nei termini di minima liberazione di molte donne dalla trappola della completa dipendenza economica dai percettori di reddito, uomini.

Aldo Marchetti:

Non sono molto aggiornato ma le ultime ricerche di cui mi ricordo, almeno di una decina di anni fa, dicevano che negli anni 90 (nonostante gli elettrodomestici) le donne americane lavoravano più o meno le stesse ore nel lavoro domestico degli anni ‘50. Insomma (bisognerebbe verificare e aggiornare) il lavoro domestico non pare sia diminuito (casomai, e questa invece è una novità rispetto agli anni ‘50-‘60, le donne – e gli uomini -  professioniste, ma anche generalmente del ceto medio e medio basso, lo affidano pagando, alle colf o badanti). Altre ricerche di cui mi ricordo sostenevano anche che la distribuzione del lavoro domestico nel menage famigliare tra donne e uomini, negli ultimi trenta anni, è un poco cambiato a favore delle donne (gli uomini hanno imparato un pochino) ma in modo estremamente lento e in Italia meno che altrove. In buona sostanza la situazione non è molto cambiata se non per l’intervento angelico e provvidenziale delle filippine, equadoregne e cosacche di varie nazionalità.

A questo punto (dal momento che gli uomini si schiodano assai poco) è evidente che la crisi del welfare, la riduzione delle spese nella protezione sociale, e la riduzione dell’occupazione (che sfavorisce le donne ma, per dire il vero, non in tutti i paesi e non in tutte le qualifiche, stando alle ricerche più recenti) può diventare una micidiale macchina da guerra per far ritornare le donne a cuccia. Questo mi pare uno degli aspetti più pericolosamente reazionari della crisi in atto.

Più in generale sul welfare si sta giocando una grossa partita. Bisognerebbe distinguere i diversi aspetti: la sua riduzione (che avviene in quasi tutti i paesi di vecchia industrializzazione); la sua ristrutturazione (per renderlo più efficiente ma anche per adattarlo ai nuovi bisogni personali o di gruppi particolari... vedi i lavori di Massimo Paci e Supiot), la sua privatizzazione o pubblicizzazione (nei paesi di vecchia industria lo si sta privatizzando in parte, nei paesi dell’America Latina lo si è privatizzato nel periodo neoliberista o ora lo si sta nuovamente statizzando, in India lo si vuole privatizzare ma i sindacati si oppongono); la sua creazione dove non c’è (come in Usa e nella gran parte dei paesi asiatici). Insomma oggi il welfare è una grossa partita dello scontro di classe poiché uno degli aspetti portanti del neoliberismo è il suo smantellamento.