Cosma impiegato contabile della multinazionale Nestlè, capitolo secondo. Cosma a Colonia, capitolo terzo. Stampa
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Sabato 21 Marzo 2020 21:50

di Paolo Rabissi

Cosma impiegato della multinazionale Nestlè. Capitolo secondo.

Come accade, Cosma aveva cominciato a sentirsi vivo solo dopo aver ottenuto il diploma di maturità a Milano, dove la famiglia si era trasferita. Non ebbe nessuna esitazione, cercò un lavoro e s’impiegò come contabile alla Locatelli, un’azienda casearia allora di proprietà della multinazionale Nestlè, con sede nella Torre Velasca. Un anno a fare conti, controllare conti, proiettare conti, neanche avesse alle spalle un diploma di perito contabile. Fuunanno di straordinaria euforia ma anche di malessere. Cosma cercava di raccapezzarsi tra la tentazione di integrarsi definitivamente nella società milanese, col suo diploma di prestigio e un mensile di tutto rispetto, e il fatto che la sua testa era costantemente rivolta alla letteratura, all’arte, alla storia, alla filosofia, alla scienza. Cioè a tutto quanto aveva superficialmente conosciuto al liceo ma verso cui provava grande attrazione. Ma il richiamo all’integrazione nella milanesità era irrrinunciabile. Dalla nascita a Trieste fino all’arrivo a Milano aveva vissuto e frequentato scuole in mezza dozzina di città e cittadine con l’ospitalità, non sempre generosa e disinteressata, di parenti o conoscenti. Già approdare alla sicurezza economica significava rompere con l’indigenza famigliare passata e quel nomadismo subìto, significava accomodarsi in una stanzialità a lungo desiderata. Tanto più la strada per quella integrazione sembrava ormai alla sua portata per via di quella assunzione negli uffici contabili della Locatelli, in quel grandioso grattacielo.

Non gli ci volle molto per rilassare la postura ingessata dei primi giorni, sciogliere le gambe sotto la scrivania, adoperare senza timore la macchina da scrivere nonché quell’oggetto infernale e rumoroso che era la macchina calcolatrice.

Lo stanzone aveva dei grandi tavoli dove erano al lavoro mezza dozzina di impiegati anche loro rumorosi e mai fermi, andavano e venivano dal centro meccanografico sotterraneo portando e riportando le schede perforate che contenevano i dati delle operazioni di  vendita. Questo viavai sui rapidissimi ascensori del grattacielo si univa a quello di venditori, imprenditori, impiegati e dirigenti di altre aziende ospitate ai piani alti. Ogni tanto tutto si intasava e in ufficio c’era un alternarsi di argute osservazioni e finti sdegni sull’efficienza di uno dei massimi simboli della modernità milanese.

Un enorme fallo…! aveva commentato Matteo.

 

Cosma aveva una scrivania di rispetto accanto a quella del capoufficio e di fronte a quella di Matteo, attaccate l’una all’altra insieme formavano un tavolo unico molto ampio. Matteo veniva dal Valsassina, una valle parallela alla Valtellina, ricca di aziende che lavoravano come oggi i prodotti dei contadini, dal latte ai maiali. Bianco e rosso, di bel portamento, non aveva nulla del contadino o del montanaro, elegante nel vestire e nei modi, lui sì aveva un diploma di contabile. Era lui che, molto accogliente, educava Cosma assegnandogli compiti, mentre il capoufficio al loro fianco, che fumava una sigaretta dietro l’altra, interloquiva con entrambi solo se necessario ma perlopiù era in riunione con i grandi capi.

Né ci volle molto a Cosma per impossessarsi di tutti i suoi compiti. L’azienda aveva depositi distribuiti prevalentemente nel triangolo industriale di Milano Torino Genova. Là venivano raccolti i prodotti della zona e quelli che erano prodotti nella fabbrica madre in Brianza. Dai depositi partivano ordini verso i piccoli produttori del territorio e una copia alla sede in Velasca. A questa poi giungeva anche copia degli ordini raccolti dai commessi viaggiatori nei negozi che accettavano di vendere i prodotti dell’azienda. I depositi infine dovevano inviare copia delle spese sostenute per la gestione del deposito, l’affitto, le bollette nonché le spese dei commessi viaggiatori.

Cosma imparò presto che incrociando tutti questi dati era possibile conoscere quanto era stato venduto effettivamente e quindi quanto denaro era girato in effetti e quanto lo era in credito o in debito. Era possibile anche verificare il gradimento dei consumatori e valutare l’incremento o meno delle spese pubblicitarie

- Guarda, in pratica ci sono solo poche decine di operai e tecnici che raccolgono e lavorano la materia prima e poi circa duecento impiegati che vivono praticamente controllando il loro lavoro.

Così gli spiegava Matteo strizzandogli l’occhio senza che Cosma capisse perché.

- Ero uno di quegli operai in Valsassina. I miei lavoravano un po' di terra. Io continuavo a chiedere ai capi: ma tutta la gente che sta in sede a Milano in quel palazzo enorme, tutti in giacca e cravatta, cos’è che fanno, che lavoro è?  Poi mi hanno chiamato qui e sto bene, non ne potevo più di quella valle, ma continuo a chiedermi come fanno a uscire così tanti soldi dal lavoro di quei quattro operai per pagare l’affitto, la luce, gli stipendi di tutti qui dentro, con tutte queste macchine, questo lusso?

Nell’anno del suo pensionamento, dopo quasi quarant’anni d’insegnamento, Cosma si è rifatto vivo con l’azienda per chiedere il riscatto dei contributi versati nell’anno 1961-1962. La sede era ora dislocata nella periferia Sud di Milano, un edificio di modeste proporzioni ma soprattutto di strutture di carta velina all’interno. Un castello di carta. Non c’era nessun rumore da nessuna parte. Gli uffici dell’azienda che non si chiamava più con il nome antico e che era stata assorbita da una multinazionale francese erano poveramente arredati , gli impiegati silenziosi, ciascuno incapsulato dentro una sorta di recinto non molto alto di tre pareti, con il volto schiarito dallo schermo del loro computer sul quale correva la vita commerciale dell’azienda. Cosma provò una stretta al cuore senza sapersi spiegare il perché.

- Ma lei pretende dopo quarant’anni che il suo libro paga sia stato archiviato e conservato? Noi dobbiamo farlo e certamente l’abbiamo fatto ma qui l’archivio è in un caos totale a causa dei trasferimenti, cercheremo ma non posso dirle quanto ci vorrà.

L’impiegata aveva una certa età. Per un attimo Cosma si era illuso di riconoscere in lei Sara. Sara, di qualche anno in più, non propriamente bella ma ricca di temperamento, era in Velasca addetta a un archivio sullo stesso piano dell’ufficio di Cosma. In una stanza ben tenuta, ordinata con scaffali in legno sagomati apposta per le brevi parete della stanza, diverso da quello generale situato nello stesso scantinato nel quale in ampi spazi troneggiavano le enormi memorie del centro meccanografico che lavoravano i dati. Da quelle stanze rumorose e sempre in agitazione, addetto a trasportare grandi  buste di documenti agli uffici del terzo piano, saliva Sebastiano, anziano e curvo, che raccoglieva altri documenti, perlopiù fatture, ordinativi, pezze giustificative, moduli, ecc. per tornare nello scantinato e distribuirli ai tecnici del centro. Quando entrava nell’ufficio di Cosma per prima compariva la sua testa coronata di capelli bianchi. Non apriva bocca. Sapeva dove andare col suo carrello. Sistemava sul tavolo di ciascuno i pacchi e poi tornava verso la porta da cui era entrato, unica concessione era a questo punto uno sguardo d’insieme allo stanzone senza guardare negli occhi nessuno. Solo a quel punto si riceveva qualche informazione in più su di lui perché i suoi occhi esprimevano delusione e scetticismo. Dove pensate di andare con tutta questa carta? Ai miei tempi bastava la parola. Cosa controllate a fare. I ladri veri non li beccate. Usciva dalla porta ingobbito scuotendo la testa.

Quello scetticismo, quell’aria di chi la sapeva lunga, dava un po’ fastidio a Cosma. Non voleva mettere sotto critica il suo presente. Non poteva in effetti fare a meno ogni tanto di chiedersi anche lui in cosa consisteva tutto quel lavoro di controllo ma voleva godere di tutto quanto quel posto gli offriva. A lui sembrava tutto innocentemente esposto in quello stanzone. Anna e Giulio erano una coppia bellissima di giovani come lui, prossimi a  sposarsi, lui addetto alla cura delle auto dell’azienda, lei già impegnata nel centro meccanografico. Ogni tanto ne risaliva con gli occhi gonfi e chiedeva un po’ di sostegno a Giulio, i rumori delle macchine le procuravano dolori lancinanti alla testa, aveva chiesto di essere trasferita ma le proposte avute l’avrebbero allontanata da quella sede e ci rinunciava con qualche aspirina in più. C’era poi Tommaso, veneto, chiacchierone sapido, il venerdì rientrava a Verona e tornava il lunedì mattina perlopiù irato per l’esito della partita domenicale della sua squadra, ma sempre disposto alla chiacchiera. Cosma non apprezzava molto il suo spettegolare, Tommaso se n’era accorto per cui ogni tanto lo stuzzicava. Ma tu hai deciso cosa farai da grande? Farai il contabile per tutta la vita? Ma è vero che hai fatto il liceo? Come dicevano i latini? Che non erano proprio le domande che Cosma amava sentirsi fare. Sara però gli piaceva. Quando aveva del lavoro compiuto prendeva la scusa di doverlo archiviare così andava nell’archivio e restava un po’ con lei. Cosma con l’amore non aveva grande dimestichezza, soprattutto se si trattava solo di sesso. Sara lo accoglieva sempre con grande entusiasmo e gli faceva capire che era disponibile. Cosma chiese consiglio a Matteo che non sapeva cosa dirgli. Successe che in uno di quegli incontri a porta chiusa Cosma baciò Sara con trasporto senza che lei si opponesse, ma dopo il bacio lei lo rimproverò. Ma tu vieni qui e mi baci con gli occhi chiusi? Ma che tipo sei? Va mica bene, non ti devi lasciare andare così. Cosma ripiegò un po’ stordito e da allora tornò a salutare Sara con disimpegno.

Matteo gli mostrava simpatia e i due stabilirono una certa intesa. Nell’intervallo per la mensa mangiavano insieme in una trattoria d’angolo in largo Richini, accanto alla Statale. Matteo continuava a istruirlo e a passargli i resoconti mensili da controllare e se c’era qualche discordanza significativa tra le fatture e i saldi totali di entrate e uscite inviati dallo stabilimento, Cosma si metteva alla macchina da scrivere e col garbo glaciale del burocrate invitava il direttore dello stabilimento a rivedere daccapo i suoi calcoli.

- Intendiamoci, non devi esagerare, se vedi che la differenza è minima lascia perdere. Lo so io cosa vuol dire lavorare laggiù, ho lavorato per due anni nel deposito in Valsassina. Con tutto quello che c’è da fare ci manca solo che i capi di qui rompano con le loro pretese di precisione assoluta.

Non erano di questo parere però né il capoufficio né il direttore del centro meccanografico, se non tornano alla perfezione i dati che mettiamo nella pancia di questi mostri tutto il lavoro di statistica, di proiezioni ecc. va a farsi benedire.

Matteo aveva un armadietto vicino alla scrivania dal quale estraeva le buste che passava a Cosma. Perché poi, come gli era capitato di vedere, una volta controllate e approvate, Matteo ne riponesse alcune di nuovo nell’armadietto ed altre le inserisse da qualche parte sotto la scrivania, Cosma se l’era chiesto un paio di volte ma poi aveva lasciato perdere.

Al primo caldo della primavera successiva all’inizio di quella esperienza Matteo scomparve. Era stato licenziato ‘in tronco’ perché aveva rubato qua e là a più riprese. Cosma rimase esterrefatto e anche sconsolato perché gli sembrava di avere perso l’unico amico lì dentro.

Ne parla ancora oggi a Corinna quando dà la stura alle sue memorie. Le dice che secondo lui non era vero, al massimo aveva ragione Sebastiano e cioè che i ladri veri non li beccano e se la rifanno sui piccoli, magari Matteo aveva rubacchiato qualche confezione di formaggini. Corinna solitamente è troppo presa per rispondergli a tono. Ma certo che Matteo era innocente.

- Non è quello che abbiamo incontrato non so quando in via Dante?

Era vero, anche Cosma lo ricordava. Era stato Matteo a fermarli. Era diventato grassottello ma era ancora bianco e rosso che scoppiava di salute. Faceva il commesso viaggiatore di stoffe in Lombardia, era sposato, guadagnava bene e quando aveva chiesto a Cosma di dirgli di sé non si trattenne

-… ma dai, lo sapevo che avresti finito per tornare a studiare…

- lo sapevi tu, ma io no, non avevo mica le idee chiare a quel tempo.

Matteo abbassò la testa.

- Beh non ce l’avevo chiare nemmeno io…però non ero il solo e io ho pagato per tutti…

La confusione di Cosma a quell’epoca cominciava paradossalmente a bruciargli la testa appena la giornata alla Locatelli terminava. Accadeva di botto. Una volta fuori dalla torre che s’infilava a piedi La darsena negli anni '50 e '60verso la darsena dove per i primi mesi continuò ad abitare ancora con i suoi sentiva crescere in sé uno smarrimento che doleva. A casa aveva un appuntamento. Si chiudeva in una stanza e prendeva a sfogliare i suoi libri. Teneva un diario sul quale abbozzava versi e raccontini per tenere fede in qualche modo all’idea coltivata da sempre di diventare uno scrittore ma erano più le volte che finiva col dirsi che era un’idea adolescenziale, di cui s’innamoravano tutti salvo poi abbandonarla. Tuttavia i libri li tornava a sfogliare per trovare qualche indicazione o quella ispirazione che prima o poi lo avrebbe tenuto per sempre inchiodato nella scrittura. Ora aveva qualche soldo, anche se una parte consistente dello stipendio se ne andava in casa perché il padre non aveva scritture per i suoi concerti.  Comprava un po’ di critica letteraria dato che sentiva di non aver fatto bene i conti con Croce. Comprava un po’ di filosofia perché sentiva di non aver fatto bene i conti con il pragmatismo americano e con la fenomenologia. Ma non combinava niente. Sfogliava pagine finché finiva con l’arrendersi al sonno.

Talvolta sentiva Marco, l’unico compagno di liceo col quale aveva tessuto un’amicizia stretta e che ora era impegnatissimo con l’Università, ma il suo atteggiamento passivo finiva con l’irritarlo.

- Scusa, ma scrivi, non dicevi che una volta trovato un lavoro ti saresti finalmente messo a scrivere?  Non saresti certo il primo ad avere un lavoro fisso e riuscire comunque a scrivere, ma se hai davvero questa passione devi stringere i denti.

Marco aveva i suoi problemi. Studiava matematica e fisica al Politecnico ma incontrava non poche difficoltà, s’interrogava anche lui, diceva che aveva bisogno di una rottura interiore, di fare qualcosa di diverso per scuotersi.

Insieme si lasciavano andare a rivivere quello stato d’animo così eccitato e pieno di aspettative che aveva caratterizzato al liceo i loro pomeriggi e spesso la sera in un bar, quando ascoltavano musica o riflettevano sui loro progressi nel risolvere problemi filosofici, quando venivano scoprendo i loro rispettivi interessi. Cosma si attardava a considerare che non si può essere scrittore di righe e/o versi se non hai vissuto abbastanza e letto abbastanza. Era Marco che pilotava con maggiore sicurezza il loro arricchimento, anche perché comprava libri, dischi, riviste che condivideva generosamente. Si rammaricava di aver sbagliato liceo, si sentiva più pronto ad affrontare da subito matematica e fisica ma intanto si sprofondava in problematiche di natura filosofica, antropologica.

La strada secondo Marco iniziava con la filosofia, bisognava partire da lì. Senza dimenticare la poesia, aggiungeva Cosma. Una felice lettura di comune intendimento fu quella delle opere di Bertrand Russell. Se mai ne avevano avuto bisogno fu sulle pagine di costui che trovarono definitiva conferma della propria lontananza dalla religione. Cosma aggiornava Marco sulle sue letture. Era il tempo di Kafka, di Joyce, di Svevo. Ma soprattutto Cosma imparò la necessità di un metodo nella ricerca qualunque essa fosse per non girare a vuoto con i problemi filosofici, tanto più facile per lui che non aveva una particolare capacità di astrazione. Imparò da Marco a sezionare in parti un concetto e a inseguirle su un dizionario di filosofia che ogni tanto gli prestava.

-Tu prendi il  lemma che ti interessa e da lì segui la catena di nessi cui rimanda, quando i nessi possibili sono esauriti sei arrivato a destinazione. Prova con determinismo.

Fu quella una parola chiave tra loro che avrebbe avuto senso e capacità di orientamento anche quando sarebbero stati ormai ignari l’uno dell’altro. Sfociava da una parte nel principio di indeterminazione di Heisenberg che metteva in crisi la fisica classica e apriva alla meccanica quantistica, dall’altra quasi all’opposto nel determinismo che in quegli anni chiamava inevitabilmente in causa Karl Marx e il materialismo storico.

Espressione del sodalizio in quegli anni, erano stati da parte di Cosma anche diversi tentativi nella scrittura. In versi componeva poesie in versi sciolti e liberi da qualsiasi metrica (aveva infatti cominciato a sentire l’influenza degli scrittori e poeti americani della beat generation) ma poi si affidava alla tradizione italiana e componeva sonetti. Nell’estate del diploma compose due racconti lunghi che Marco ricevette dentro una lettera e che in segno di apprezzamento volle poi restituire a Cosma nel timore che potessero andare perduti.

- Vorrai mica che per causa mia le patrie lettere perdano dei capolavori.

 

Ma in quella tarda primavera del ‘62 erano arrivati entrambi a un punto morto. Cosma non era proprio in depressione ma quasi. Ormai gli era chiaro che il suo era un disagio legato alla sua vita di impiegato. Non poteva accampare a se stesso nemmeno i soliti problemi della famiglia. Suo padre aveva sì ciondolato per casa tutto l’inverno e Cosma aveva dovuto provvedere col suo stipendio ma ai primi di marzo del ‘62, in uno dei loro impeti decisionisti di cui sua madre era larga parte, padre, madre e sorella, dopo cinque anni di stanzialità milanese si trasferirono, nelle intenzioni sembrava definitivamente, a Santo Spirito di Bari, ospiti della sorella maggiore della madre. Cosma si sentì felicemente libero di vivere la sua vita e fare i conti con i suoi sogni di scrittore.

C’era la Locatelli. Gli bastava entrarci, sedersi al suo posto, e le sue fantasie di scrittore venivano pacificamente riassorbite dal lavoro. La sera era punto e daccapo.

Quasi a ridosso della sorprendente scomparsa di Matteo, Marco ebbe uno scatto improvviso di orgoglio, prese una decisione imprevedibile. Partì per Colonia in Germania. Lavorò nei bar, ragazzo di fatica, luglio e agosto. Lui e Cosma ebbero un intenso scambio di corrispondenza. Cosma gli diceva che l’unica cosa giusta  che faceva era di passare il sabato e la domenica chiuso nella biblioteca del parco Sempione sempre aperta a leggere soprattutto libri di storia.

Marco ai primi di agosto gli mandò i soldi per prenotargli alla Piaggio in corso Sempione l’ultimo modello di Vespa ma subito dopo, il 10 di agosto, gli spedì un’altra lettera più importante.  Cosma l’ha ritrovata in uno dei suoi diari dell’epoca salvato almeno da mezza dozzina di traslochi. Marco descrive la sua fiera reazione a una violenta crisi che lo aveva portato lontano “dalla retta via”, cioè dallo studio della matematica. Alla crisi di rigetto aveva opposto una reazione energica e disperata della sua volontà.

“Quando c’è una volontà così, si può fare tutto. Ogni cosa diventa semplice. Affronto il lavoro a testa alta. Le astruse matematiche, spaventate dall’impeto con cui le assalto, aprono docilmente i loro veli..”.

Con quella prosa dannunziana spiegava che la crisi era ormai superata. “L’insuccesso iniziale negli studi mi ha prostrato. Oggi poi qui sono massacrato dalle otto ore di lavoro duro in questi locali notturni pieni di ubriaconi e di puttane dove faccio la parte dello studente serio e taciturno anche se non mi dispiacerebbe godere almeno un po’ dei loro piaceri. Ma torno alla matematica con nuova energia.”

Con sorpresa dopo la conclusione della lettera Marco aveva aggiunto una mezza paginetta intitolata con la solita enfasi ‘appendice’. Lo invitava a decidersi e ad abbandonare ‘quel lavoraccio’.

Dopo il rientro di Marco da Colonia a fine agosto si diedero solo il tempo per salutarsi frettolosamente. Marco a dirla tutta non aveva affatto l’aria di uno che dalla crisi era uscito e Cosma  non aveva l’animo di descrivergli  come si sentiva. Entrambi si dibattevano in una crisi la cui soluzione non riuscivano ancora a intravedere. Cosma aveva in tasca un biglietto per Siena. La calda accoglienza che lì avrebbe senz’altro trovato gli avrebbe fatto bene al morale. Aveva due settimane di ferie.

A pochi giorni dalla fine di settembre, dopo il suo rientro, i due amici si incontrarono, dopo l’orario d’ufficio di Cosma, come erano soliti fare in viale Monte Nero. Cosma ricorda benissimo che Marco era molto a disagio. Parlarono un po’ di cinema e di musica poi improvvisamente Marco cambiò discorso.

- Ti deluderei molto se smettessi di studiare fisica e cambiassi facoltà?

- Cosa dici? Insomma, un po’… Che novità è?  E’ da quando ti conosco che la fisica è il tuo pallino…

- Non ce la faccio… gli esami sono superiori alle mie forze, la mia sicurezza tanto sbandierata è andata in malora, non ce la faccio e basta.

- Sei sicuro? Due settimane fa mi hai scritto che avevi superato la tua crisi un po’ complicata e che avevi recuperato la fiducia.

- Non era vero…, cioè mi era sembrato di poter fare uno sforzo di volontà decisivo… Ma la mia crisi era crisi di rigetto. Una volta accettato questo mi sono ritrovato a riflettere sul fatto di aver trascurato fin qui la mia forte attrazione verso la medicina, che però mi sembrava fino a ieri meno nobile.

- Medicina? Come tuo padre?

Marco lo guardò in silenzio. Forse non doveva dirlo. Suo padre, di cui aveva sempre parlato pochissimo, un medico chirurgo affermato e propenso alle sperimentazioni, era morto qualche anno prima in circostanze misteriose e ciò aveva aggiunto tristezza e dolore a lui, sua madre e sua sorella con le quali viveva dopo la separazione.

- Scusa, sono sorpreso, non avevi mai parlato di una tua attrazione per la medicina, non è che rinunci alla parte più vera di te e che ti ci dedichi per recuperare a te stesso la figura di tuo padre?

- Non lo so. Può essere. Ma questa è sicuramente la mia strada. Il mio innamoramento per la fisica era frutto di una valutazione sbagliata.

Non c’era poi una grande differenza con la difficoltà di Cosma a riconoscere che i suoi interessi letterari erano l’unica strada da percorrere per vivere se stesso.

Cosma ricorda ancora l’ultima volta che si sono incontrati. In largo Richini, davanti alla Statale, nel ’68. Avevano alle spalle più di cinque anni durante i quali non si erano né cercati né incrociati. Se l’Università quel giorno non era occupata, sicuramente era in agitazione e i suoi muri erano tappezzati all’inverosimile da mille fogli e mille programmi. Cosma era con Corinna, Marco era solo, con un borsone di libri. Di lì a poco, nello stesso anno, come Cosma è venuto a sapere in rete, si sarebbe laureato in medicina per specializzarsi poi in psichiatria. La laurea di Cosma sarebbe venuta qualche tempo dopo. Scambiarono poche parole, senza particolare entusiasmo. Il tempo per verificare che la distanza tra loro era incolmabile. Certo ci fu la comunicazione delle loro preferenze politiche, era inevitabile, era il ’68 e quella era la Statale. Marco simpatizzava per l’ala lombardiana del PSI, una posizione che Cosma considerava appena, lui era ormai oltre i partiti, semmai sosteneva, con profonda riserva, sin dalla loro nascita i gruppi extraparlamentari. E basta, non si dissero altro. Si salutarono senza alcun interesse per un arrivederci. Quel giorno, più di sguardi accigliati e preoccupati che di parole, convennero che ciascuno di loro aveva preso la sua strada dopo aver assunto su di sé un po’ del peso del mondo.

Dopo le due settimane a Siena dai nonni paterni Cosma, rientrato a Milano, non aveva affatto le idee più chiare ma aveva in corpo una gran frenesia . Da quando i suoi erano scesi nelle Puglie abitava in pensione in via Disciplini, a duecento metri dalla Torre Velasca, comodissima ma non propriamente ospitale. La padrona aveva la casa sempre piena di personaggi che solo dopo un po’ Cosma aveva decifrato. Erano uomini e donne che venivano a chiederle dei prestiti, se non riuscivano a restituirli con gli interessi patteggiati tornavano da lei a piangere, a pregarla. Non era possibile evitare quegli incontri. Per raggiungere la sua stanza Cosma doveva attraversare la grande cucina dove si svolgevano le trattative. Scene che suscitavano pena ma anche piene di miserabilismo fisico e morale. Fingevano un po’ tutti, sia la vecchia padrona che reclamava la sua irresistibile missione di aiuto al prossimo sia i richiedenti che speravano in qualche concessione sugli interessi elencando mali passati, presenti e venturi. Cosma subiva un po’ quel teatrino popolare ma peggio ancora dopo un paio di mesi la padrona l’aveva pregato, col tono di chi non accettava rifiuti, di dividere la stanza con suo nipote, un ragazzino rosso di capelli e bruffoloso che di notte russava.

Ma era in ufficio che Cosma aveva cominciato a dare segni d’insofferenza. Matteo gli mancava, il capoufficio aveva i suoi problemi a sostituirlo. Anna e Giulio gli sembravano sempre più corrucciati e indifesi per i carichi di lavoro. Il veneto chiacchierone non lo curava più e faceva in modo di non incontrarlo. In realtà tutto ciò non aveva niente a che vedere col suo stato d’animo. Aveva ormai maturato dentro di sé la necessità di una decisione diversa sulla sua vita, quel lavoro da contabile gli stava troppo stretto, l’eco delle parole di Marco che lo avevano sollecitato a liberarsene glielo confermavano, ma se il pensiero andava allora alla possibilità di riprendere gli studi iscrivendosi all’Università cadeva facilmente nello scoramento. Come pensava di potersi mantenere agli studi senza un lavoro? Quelle otto ore di lavoro lo uccidevano. Forse doveva cambiare tipo di lavoro. Tornava alla sua vecchia idea di un lavoro manuale che coltivava dai tempi di Rimini, dove aveva vissuto un paio d’anni e aveva come compagni di strada presto diventati operai e manovali più numerosi di quelli che frequentavano scuole.

Cosma si sentiva ostaggio di se stesso, reso immobile dalla difficoltà di uscire da quello stallo. La sua frenesia stava diventando più una necessità di prendere comunque un’iniziativa di qualsiasi tipo piuttosto che fare scelte strategiche per la sua vita.

All’inizio di ottobre, qualche giorno dopo l’ultimo incontro con Marco, il capoufficio, parlando dalla sua scrivania e rivolto a lui, con un tono che a Cosma risultò strano, gli domandò se era vero che prima o poi doveva presentarsi alla leva militare. Era vero. Quella era l’ultima idea che poteva passare per la testa di Cosma ma nei giorni successivi finì per prenderla seriamente. Solito a decisioni improvvise, anche questa volta, ottenuto un permesso di un paio d’ore, si presentò agli uffici di leva nella caserma di via Mascheroni e fece domanda per anticipare il servizio. Per legge la Locatelli doveva conservargli il posto ma Cosma aveva già deciso che non ci sarebbe tornato. Ai primi di Novembre, dopo essersi sottoposto agli esami d’obbligo, ebbe un ultimo colloquio con un tenente medico che lo informò sul loro esito. A causa della pleurite avuta da bambino dal servizio militare veniva esonerato. Cosma rientrò in ufficio con le mani in mano. Non sapeva se godere della cosa o rammaricarsi.

Non ebbe molto tempo per riprendersi dallo stordimento di una scelta finita prima di cominciare. Non ebbe nemmeno tempo per sentirsi di nuovo in preda ai suoi crucci. Alla fine di novembre, avvisato da una telefonata di prima mattina al telefono in cucina, sua madre gli annunciò piangente che tutti e tre, lei, il padre e la sorella, stavano rientrando a MIlano e che non sapendo dove andare chiedevano una camera per loro nella sua pensione. Cosma balbettò qualcosa tra stupore e sgomento ma poi di fronte alle insistenze ottenne dalla padrona di ospitarli almeno per il momento nella sua stessa stanza, il nipote se lo sarebbe tenuto lei in camera sua.

Con uno spirito di adattamento che aveva radici chissà dove la madre di Cosma organizzò in breve la vita di tutti e quattro in quella stanza. Un letto ciascuno ce l’avevano, qualche breve bucato poteva farlo nel bagno. La sorella di Cosma passava il giorno da una sua amica. Padre e madre mangiavano da soli qua e là usando il denaro che Cosma gli passava ma anche qualcosa che era rimasto dai concerti fatti durante l’estate dal padre. All’inizio dell’estate aveva cantato nelle feste di paese con un buon successo e guadagno. La faccenda aveva alimentato illusioni. Sembrava che tutto potesse avere un seguito per le feste di paese anche nell’inverno, ma ciò non era accaduto. A fare il resto erano stati i dissapori tra la madre di Cosma e sua sorella che li ospitava e che non era più disponibile a sostenerli in casa sua dato che anche lei viveva di una modesta pensione da vedova e con poveri lavori casalinghi.

Lo stato di agitazione vissuto da Cosma dal suo rientro da Siena tutto orientato alla ricerca di soluzioni nuove di vita lo abbandonò.  Un po’ disorientato, un po’ commosso per la situazione dei suoi, nonché preoccupato per sua sorella che dava segno di un turbamento profondo, un po’ irritato, non aveva animo bastante per pensare ad altro anche se non poteva fare a meno di sentirsi in trappola. Poi avvenne anche il peggio. Il capoufficio, prima del lungo ponte di Sant’Ambrogio, lo invitò alla scrivania e con tono comprensivo ma fermo gli annunciò che l’azienda era costretta a causa di una ristrutturazione in corso a fare a meno di lui. Avrebbe avuto una buona uscita e una buona lettera di raccomandazione. Fine della storia da impiegato, si disse Cosma senza parole. Poi aggiunse: che sia un segno del destino?

Scavalcato il triste Natale, Cosma visse il resto dell’anno in uno stato ipnotico. Senza nessuna convinzione ma spinto dal suo senso di responsabilità fece qualche domanda di assunzione a banche e compagnie di assicurazioni. Gli rispose solo una piccola azienda farmaceutica nei dintorni di porta Romana che aveva bisogno di un capo contabile. Cosma entrò con educazione negli uffici, diede un’occhiata alle scrivanie, ai possibili colleghi in camice nero. Rimase a fissare la scena per un attimo poi si scusò e altrettanto educatamente andandosene salutò. No, a lavorare lì dentro non ci vado.

L’ironia della sorte voleva che paradossalmente libero da impegni vuoi nei confronti della Locatelli vuoi addirittura nei confronti dello Stato, Cosma poteva darsi uccel di bosco non fosse stato per il fatto che si trovava a dover sostenere in qualche modo quella sciagurata famigliola.

La nota positiva però di quel mese di dicembre del ’62 fu proprio che il padre di Cosma si dette improvvisamente da fare per trovarsi un lavoro. Come Cosma seppe anni dopo il fatto era che nonostante avesse solo quarantacinque anni la voce non lo reggeva più, cantare le sue romanze liriche ultimamente lo stremava e dopo ogni concerto faceva fatica a recuperare le forze. Non c’era da meravigliarsi, avevano spiegato i dottori quando aprendogli il petto, anni dopo, a sessant’anni, avevano tentato inutilmente di sistemargli i danni maggiori, i reumatismi gravi che lo avevano colpito durante l’infanzia avevano fortemente indebolito il cuore e d’altra parte gli sforzi fatti da tenore avevano peggiorato le cose.

Cosma non si rese subito conto a quella notizia che la sorte lo stava interrogando in maniera diversa. Sulle prime si attardò a pensieri non propriamente benigni nei confronti dell’artista senza più fiato. Era ora che si decidesse. La sua vita d’artista era costata a tutti pesantemente. Con tutto ciò Cosma non se la sentiva di abbandonarli in quel momento al loro destino ma quando suo padre annunciò la novità s’informò con un certo interesse.

Un amico tenore, anche lui già ritirato dalle scene, prese suo padre con sé come aiutante nella vendita di certi prodotti di falegname. Dotato di auto propria girava per la Brianza con un discreto guadagno. Ce n’era anche per lui, gli aveva detto. Nel giro di poche settimane l’affare mostrava di poter marciare.

Fu a questo punto che Cosma si rese conto che l’abbraccio nel quale stava per ricadere dopo aver goduto di totale autonomia per quasi un anno rischiava di risucchiarlo dentro una famiglia che mai aveva sentito più lontana da sé.  Sua madre già cominciava a fare programmi, ipotesi di un nuovo lavoro per Cosma, per la sorella… Il bisogno più immediato era quello di recuperare la sua libertà. Una notte si svegliò all’improvviso e sollevandosi a sedere nel buio della stanza  disse a mezza voce: andrò a Colonia. Si guardò intorno. Nel letto vicino al suo dormiva sua sorella, nel centro della stanza c’era il letto matrimoniale con i genitori. Era convinto della sua scelta. Si riadagiò al caldo sotto le coperte e dormì fino a tardi.

 

Cosma a Colonia. Capitolo terzo.

Quando Cosma al cigolio dei freni si svegliò verso le otto del mattino si rese conto di aver dormito a lungo profondamente. Lo scompartimento era occupato da altri tre viaggiatori, due erano signore di una certa età che parlavano in tedesco. Si stupì che le sonorità della lingua non fossero affatto così aspre e dure come si era immaginato.

Il viaggio era ancora lungo, il treno era fermo alla stazione di Mannheim, c’erano ancora  circa tre ore di viaggio. Richiuse gli occhi. Mai stato così sereno.  Alle 11 circa il treno si fermò alla stazione di Colonia. Era molto simile a quella di Firenze. I treni, come nella Centrale di Milano, terminavano la corsa nella stazione. Cosma consegnò la sua unica valigia a un deposito e uscì nella città. Era coperta di neve ma non nevicava. I gabbiani gridavano sul Reno e Cosma si appoggiò al parapetto, era uno spettacolo di barconi, traghetti, battelli, vaporetti che attraccavano, partivano, passando tutti sotto le campate di ferro di un grande ponte ferroviario. Era tutto come aveva immaginato. La cattedrale nella piazza vicina svettava, severa di un gotico molto più magro rispetto al Duomo di Milano così largo e disteso.

La sua meta era l’Università. Dovette attraversare mezza città e un parco coperto di neve prima di entrare nel campus universitario. Ai giovani che gestivano una specie di ostello per gli studenti di passaggio Cosma consegnò il passaporto, si capirono in francese, una lingua diffusa nella città da sempre per la sua vicinanza alla Francia e per Cosma di conoscenza scolastica. Aveva a sua disposizione un letto in una camerata, avrebbe potuto usarlo per una settimana. Nel frattempo contava di trovarsi un lavoro.

La mattina dopo si mise in fila davanti alla porta dell’ufficio del lavoro, l’Arbeitsamt dell’Università, depositò in terra il suo passaporto sulla pila di documenti di altri e aspettò di essere chiamato. Come seppe poi, chi era al fondo della pila, cioè chi era arrivato presto al mattino ad aprire la infreddolita fila e a depositare il suo documento davanti alla porta, era quello cui finivano di solito gli incarichi migliori e meglio pagati, per questo Cosma, tornato quel giorno in ostello senza aver avuto nessuna chiamata, la mattina successiva si presentò per primo. L’addetto di turno, dopo aver risposto a una telefonata, gli consegnò una scheda con nome e indirizzo dove presentarsi. Capendo che Cosma avrebbe avuto difficoltà per via della lingua invitò i due studenti chiamati dopo di lui e destinati al medesimo incarico ad accompagnarlo. Cosma si accorse subito che l’invito non era stato accolto con entusiasmo. Appena usciti i due fecero parte  a sé e durante il percorso a piedi e in tram tentarono di liberarsi di Cosma. La meta era una grande farmacia, bisognava scaricare un camion di medicinali e prodotti vari e depositare le casse all’interno di uno stanzone adiacente. I due si erano subito impossessati dei due carrelli esistenti e Cosma dovette fare tutto a forza di braccia. Ci vollero un paio d’ore. Alla fine ricevette la sua paga di qualche marco e fu congedato. I due tedeschi si allontanarono alla chetichella e Cosma li lasciò andare, aveva memorizzato il percorso e tornò per i fatti suoi con qualche motivo di riflessione sulla giornata. Con quel tipo di lavoretti, ammesso di potersene procurare in continuazione, il che non appariva facile, non poteva pensare di mantenersi a lungo. I pochi marchi guadagnati quel giorno gli servirono per un pasto alla mensa universitaria e a coprire la spesa dell’ostello ma nel resto del giorno Cosma sentì  fortemente il peso di quella lingua così lontana. Non poteva leggere né giornali né altro per cercare offerte di lavoro. Decise di cambiare metodo. La mattina successiva riuscì a procurarsi l’indirizzo di un ufficio generale di collocamento in città. Non trovò subito la strada ma si imbattè in due italiani che parlando tra loro avevano rivelato la loro origine pugliese. Chiese loro. I due si schernirono, non lo sapevano, sì doveva essere da quelle parti ma non sapevano. Cosma li guardò dubitoso. Quando poi entrò finalmente nell’ufficio trovò lì dentro anche loro ma fecero finta di non conoscerlo. Cosma si mise a ridere.

Lavoro evidentemente non ce n’era così in abbondanza come aveva spesso letto sui giornali a Milano e i due temevano la sua concorrenza. Ma la considerazione più importante su quel caso ebbe modo di farla dopo. Si accorse in maniera bruciante che in realtà i due avevano riconosciuto in lui un estraneo al loro mondo, vestiva troppo bene rispetto a loro che avevano tute non immacolate. Spartire con lui informazioni significava rischiare un posto di lavoro.

- Capiti male, gli spiegò un veneto più giovane di lui seduto in attesa, le fabbriche non assumono e nemmeno in Baustelle a fare il muratore si trova lavoro, bisogna aspettare che passi l’inverno, poi fra qualche giorno c’è il carnevale e qui si ferma tutto per una settimana.

Cosma tornò in ostello sotto la neve un po’ mortificato, non voleva certo togliere il pane a nessuno. Per quel giorno non si mosse. L’indomani si ripresentò alla solita ora all’Arbeitsamt  universitario e questa volta ebbe subito l’impressione di aver pescato una situazione buona.

Sulla scheda di presentazione c’erano scritte diverse altre cose oltre l’indirizzo e l’ora in cui doveva presentarsi. Di suo, vocabolarietto alla mano, riuscì a capire che doveva presentarsi nel tardo pomeriggio. Gli piacque molto entrare all’ora prefissata nel palazzo in cui si stampava un quotidiano e un settimanale entrambi di importanza nazionale. Restò  affascinato dall’enorme rotativa. Al termine del ciclo dall’ultimo cilindro rotante uscivano copie del quotidiano già ripiegato a metà. Lui doveva raccoglierne una certa quantità, ripiegarle in quarto e depositarle su un carrello. Poi guidava il carrello verso un ascensore col quale scendeva ai piani inferiori. Lì, una accanto all’altra , una dozzina di ragazze  riceveva da lui le risme di quotidiani e loro separavano una per una le copie, le inserivano in una busta di cellophane e infine le etichettavano, così erano pronte per la spedizione agli abbonati, altri operai raccoglievano più copie e ne facevano pacchi da consegnare nelle rivendite in città. Nonostante il calore che le ragazze gli serbavano ogni volta che scendeva da loro, dopo un paio d’ore di questo esercizio Cosma era stanchissimo. Se ne accorse un giovane italiano che aveva il compito di seguirlo e lo fece sedere su una sedia a riposarsi. Cosma lo ringraziò poi aggiunse che era contento di essere lì, che il lavoro gli piaceva e che sperava di fare amicizia con lui nei giorni successivi. Il giovane lo guardò un po’ interrogativo ma dovette allontanarsi. Ripreso il lavoro e facendo brevi soste, alle tre del mattino il giovane ricomparve.

- Non so cos’hai capito, l’ingaggio era solo per stanotte. Puoi passare in direzione e ritirare la paga.

Cosma si vergognò per l’equivoco. Si inoltrò a piedi nella notte fonda piena di neve.

All’ora di mangiarsi il suo panino il giorno dopo un nero, alto e di corporatura robusta, dallo sguardo gioviale e sicuro, gli si fece vicino offrendogli pane di segale e formaggio e iniziarono una conversazione fatta più di gesti e di risa che altro. Ben era figlio di un avvocato di Manhattan, era in vacanza in Europa. Cosma, interrogato, tentava di spiegare i motivi per cui si trovava lì. Un po’ per la lingua un po’ perché a pensarci bene non sapeva cosa rispondere la conversazione si stava arenando.  A trarlo d’impaccio venne Claudio.

- … de inglese non te sa’ niente ma se capissi subito che te son triestin…

Cosma stupì. Che lui avesse conservato accento triestino tanto da poter essere riconosciuto gli sembrava inverosimile.

Claudio si mise in mezzo tra lui e Ben, parlava un inglese invidiabile, chiese a Cosma cosa doveva dirgli.

- Spiegagli che sono con la testa per aria, non so bene cosa fare, che cerco un lavoro fisso, che non ho voglia di tornare indietro e che però non so come va a finire…

Claudio si dette da fare e i due chiacchierarono ma poi rivolto a Cosma si fece serio.

Non parlò più in triestino.

- Ascolta. Io il lavoro l’ho trovato stamattina. Non è male. E’ con gli inglesi, m’hanno preso a fare il barista alla mensa ufficiali della RAF nella base militare di stanza subito fuori Colonia a Nord. Insomma roba della NATO. Hanno detto che hanno un posto libero nelle cucine, se ti va bene oggi chiedo.

Cosma entrò in fibrillazione. Stentava a crederci. Rimase in attesa del ritorno di Claudio senza riuscire per l’emozione a spiccicare una parola con Ben che gli stava addosso.

Poi Claudio ricomparve con la bella notizia.

- Domani te vien su con mi e te ghe parli, te digo mi le parole in inglese, ma i te cioll senz’altro…

Il campo inglese non era l’unico, c’era quello francese, quello belga, uno accanto all’altro, ciascuno con le proprie milizie, accampate ma perlopiù con sistemazioni molto civili. In una estesa prateria a Nord di Colonia. Per raggiungerla occorse mezz’ora di autobus. Di fronte a quegli insediamenti militari si stendeva la grande fabbrica della Ford americana.

L’incontro andò bene. C’era un paio di problemi da risolvere immediatamente. Il dirigente del personale, un militare graduato molto sussiegoso, pieno di “I think”, “I think” chiese a Cosma di regolarizzare la sua posizione con le autorità di Colonia altrimenti non poteva assumerlo.

Claudio gli spiegò che doveva denunciare la sua presenza alla polizia, lui l’aveva già fatto.

- Devi riuscire a farlo entro oggi, da domani comincia il carnevale e tutto si ferma per una settimana e non puoi prendere servizio qui né occupare l’alloggio senza il visto. La nostra fortuna è che ci danno anche l’alloggio che funziona come se fossimo residenti.

Cosma non se lo fece ripetere e dopo aver ottenuto dal dirigente il foglio di assunzione che riportava anche l’indirizzo della sua sistemazione nel campo tedesco, scese di nuovo in città e si presentò all’ufficio di polizia dove doveva registrare la sua presenza. Aveva un lavoro e una residenza, non potevano negargli il visto.

In realtà potevano complicargli le cose. Storcevano il naso, facevano battute e sorrisini, erano già con la testa al carnevale. Poi uno gli chiese quale religione professava. Nessuna, disse Cosma. Spuntò fuori un interprete che gli spiegò che doveva regolarizzare la sua posizione religiosa dato che sulla paga veniva trattenuta una percentuale a favore della chiesa. Cosma davanti al prete cattolico spiegò alla bene meglio che non voleva comparire né come cattolico né protestante. Il prete si oppose finché potè poi alla fine scrisse: nessuna religione. Cosma tornò dai suoi poliziotti, costoro gli diedero un’occhiata eloquente facendogli capire che del suo problema non gliene importava niente, uno di loro timbrò rumorosamente il foglio e lo congedarono.

Il più era fatto. Tornò all’ufficio del personale nel campo inglese e consegnò il visto. Poi dovette tornare all’ostello per recuperare la sua valigia. Ben non c’era, gli lasciò un biglietto col suo nuovo indirizzo. Riattraversò per l’ultima volta il campus cantando a squarcia gola un motivo di Domenico Modugno. Nevicava e il campus era pieno di bacche rosse di rosa canina.

I due triestini facevano ora parte della mano d’opera necessaria ai servizi del campo inglese. Cosma fu assegnato alla mensa  degli avieri cadetti e dei sottoufficiali con una mansione generica di addetto alle pulizie. Incarico a parte avevano gli addetti a servire i pasti, a sparecchiare i tavoli, a lavare stoviglie. C’erano poi cuochi e sottocuochi che alimentavano i forni elettrici, curavano le bevande, preparavano il the, quasi una aristocrazia lì dentro che Cosma imparò presto a rispettare e a farsi amica. Amava i turni settimanali di sette ore che cominciavano alle sette del mattino. Si serviva di abbondante colazione (uova, salsiccia, bacon, pane tostato), raggiungeva le due del pomeriggio, mangiava di nuovo (quasi le stesse cose più carne al curry con pasta ma solo un paio di volte alla settimana più pudding dolce) ed era libero fino alla mattina successiva. In pratica un’intera mezza giornata per sé.

C’era voluta un po’ d’industria per  sistemarsi. La camerata cui era stato assegnato era divisa in cinque loculi, come lui li definì, per ognuno dei lati lunghi, ciascuno diviso dall’altro da un muretto di meno di due metri di altezza che recintava un ambiente quadrato di due metri e mezzo di lato. Tra i loculi dell’uno e dell’altro lato della camerata correva un corridoio stretto. Di fatto il quarto lato del loculo, quello sul corridoio, era libero togliendo ogni intimità. Ma tutti avevano provveduto. Era stato Dieter a toglierlo d’impaccio. Insieme si procurarono da qualche parte un armadio che copriva abbondantemente il lato libero, una coperta stesa tra muro e armadio faceva da porta. Il muro che dava sull’esterno aveva una finestra grande sotto la quale correva un termosifone caldissimo. Il letto era comodissimo. Ogni settimana in un edificio sempre aperto Cosma chiedeva federe e lenzuola pulite, se ne aveva bisogno poteva chiedere tutte le coperte che voleva.

Nel pomeriggio per distrarsi si recava nella kantine del campo tedesco. Al bancone c’era un paio di inservienti che servivano tra le altre Kölsch, una birra locale limpida e forte. Nella sala tavolini dove avventori abituali consumavano un loro pasto, in un angolo un juke-box che aveva in repertorio solo canzoni tedesche, in tutto simili  a quelle tirolesi. Lì Cosma beveva al bancone un paio di Kölsch di solito accompagnato da Dieter, tedesco fuggito dall’Est, storpio ad un piede, che a Cosma ricordava Fulvio, l’amico di Via Molino a Vento a Trieste. Parlava un inglese molto simile a quello di Cosma per cui almeno all’inizio la conversazione non variava molto.

L’inglese era ovviamente la lingua che si parlava nella mensa e negli uffici del campo inglese. C’erano inservienti turche, spagnole e greche, con le quali Cosma condivideva spesso il tea time delle cinque, e anche loro preferivano esprimersi in inglese. D’altra parte era scozzese la direttrice della mensa e sapendo che Cosma era istruito gli parlava in un inglese forbito che Cosma stentava a capire, doveva scavalcare le pieghe sonore della sua pronuncia per arrivare a cogliere le parole. Era lei che all’inizio della giornata gli assegnava i compiti, Do you know what hygiene is, Cosma? Lavare i pavimenti anche negli angoli, le vetrate della sala, scaricare i rifiuti negli appositi cassonetti, ecc. Claudio, l’esperto assoluto della lingua, aveva suggerito a Cosma un paio di eserciziari inglesi, comprati in una libreria in città.

Scendevano, almeno all’inizio, frequentemente in città. Claudio, che Cosma continuava a guardare con gratitudine, aveva molto da raccontare di sé. Era finito a Colonia dopo aver vissuto a Londra, sempre come barista ormai esperto ma anche dando lezioni di inglese e tedesco. Non sarebbe rimasto per molto. Voleva tornarci  a Londra perché con i tedeschi non si trovava bene, nonostante ne parlasse la lingua per via della mamma austriaca. Ma Londra era per lui la sua seconda patria. Da Trieste era scappato. Non ne poteva più né della famiglia né dell’Università. Con l’Università un problema l’aveva avuto. Accusato di aver rubato soldi assegnati alla mensa di cui era custode, nonostante avesse giustificato fatture alla mano tutte le spese, non ne era uscito bene, continuavano a sospettare di lui.

- Li avevo tutti contro. Quelli dell’azione cattolica e i comunisti. A me la politica non m’interessava e loro mi stavano addosso. Sia gli uni che gli altri mi davano del qualunquista. Aria aria. E poi guarda mio papà tutto sommato è un buon uomo, fa il meccanico specializzato, è uscito sano e salvo dalla guerra, ha puntato tutto su di me e io lo stavo deludendo. Prima al liceo ma dopo soprattutto in Università non sopportavo il regime da caserma, professori che ti guardano dall’alto in basso, devi sempre leccargli un po’ il culo, ti trattano come cretino e incapace e però a tutti va bene così, nisun che disi niente, senza contar in Università i veci, quei che ti domanda perché ti te son matricola de darghe sigarette, pagarghe de magnar, una prepotenza e nessun che disi niente… No xè per mi… Mi sono ribellato. Mi piace andare per il mondo, trovo da lavorare dappertutto perché so le lingue. Un po’ di spirito ribelle devo averlo ereditato da mia madre. Lei non sopporta la vita di famiglia. Per carità, cura casa e noialtri senza dir niente. Si vede che sopporta da buona cattolica e austriaca anche, però ogni tanto ha crisi isteriche e se la prende con me. Papà è terribile. In casa comanda lui. Ma si sa, la famiglia è così. Non voglio musi in casa…, grida lui ma allegria lui non porta. Lei vorrebbe uscire, vedere qualche amica, andare ai bagni come da ragazza, comprarsi qualche sciocchezza, ma lui è rigidissimo, ce l’ha con le giovani ragazze del quartiere, tutta gente che tira la carretta, ma loro troppo disinvolte, troppo libere.

Talvolta in kantine venivano altri tedeschi che Cosma imparò a conoscere ma la lingua diversa era d’impedimento. Ancora alla fine di quei giorni in Colonia Cosma non era riuscito ad avere una conversazione seria con Schenk, taciturno alto come un palo, che gli mostrava simpatia e voleva sempre pagargli lui la birra. Cosma in effetti suscitava nei più simpatia per via del fatto che sapevano che lui era lì per qualche misterioso motivo, sapevano che passava le ore a studiare e a leggere, sapevano che prima o poi se ne sarebbe andato. Un tipo tranquillo che lavorava sodo, guardava sempre davanti e salutava tutti.

Cosma si adattò al tutto con facilità, c’era abituato ad adattarsi ed era troppo felice di aver trovato una sistemazione per lamentarsi di alcunché. Si sentiva libero come mai. Al termine della prima quindicina di giorni si recò in Comune a ritirare la paga. Fatti i calcoli col cambio si rese conto che guadagnava una cifra non molto inferiore a quella che guadagnava a Milano, godendo in più di vitto e alloggio gratuiti. Non sapeva che farsene di tutti quei soldi. In città comprava qualche libro. Nelle ore libere studiava molto inglese e poco tedesco. Leggeva e traduceva. Ogni tanto componeva qualche verso. Si accorse che stava prendendo le distanze da un linguaggio di maniera di provenienza scolastica, si accorse che stava cominciando a guardare alla poesia con meno interesse. Riprese soprattutto l’abitudine di leggere un quotidiano. Aveva smesso di farlo negli ultimi mesi milanesi. Leggeva “Il Giorno” dai tempi di Rimini. Su quelle pagine si era quasi formato una cultura parallela e del tutto diversa da quella scolastica. Finché era andato a scuola era stata però come una cultura clandestina. Nel suo liceo era appena tollerato che lui entrasse la mattina in classe con il quotidiano tra i libri. Era considerato veicolo di linguaggi mediocri. Troppa attualità. Superficialità. Quello che non si diceva apertamente era che il quotidiano oltre a ‘distrarre’ con lo sport, il cinema, i fatti di costume, odorava troppo di politica. La politica era dato per scontato che dovesse restare fuori dalle scuole. L’identificazione sotterranea tra informazione sul presente o sul passato recente e la politica era totale. In realtà il buon giornalismo faceva buona informazione su una infinità di cose e certamente finiva con l’aiutare a farsi anche un’idea politica. Condannando a scuola il giornalismo come una fonte di sviamenti dalla vera cultura, dalla vera letteratura, si mettevano in mora più consapevolmente che meno interi decenni di storia. Infatti i programmi di tutte le discipline arrivavano si e no alla prima guerra mondiale. Niente presente, niente storia recente, niente politica.  A sfogliare i quotidiani, almeno quelli di sinistra ma moderatamente anche quelli di governo, ci si imbatteva regolarmente in anniversari significativi per chiunque, dal 25 aprile per la Resistenza, al 2 giugno per la Repubblica, ecc. nonché alle manifestazioni operaie che dalla fine degli anni 50, soprattutto a Milano, si riversavano nelle strade. Ora, in quella sua strana stagione di libertà, Cosma recuperò la lettura del giornale come suo strumento di autoeducazione.

Il giorno libero lo passava a Colonia. Scendeva fino alla Stazione Centrale, comprava il giornale e poi risaliva verso il centro lasciandosi alle spalle la cattedrale. In Hohe strasse, la strada più elegante ed esclusiva della città, sedeva ad un bar e leggeva il giornale da capo a fondo. Senza escludere le pagine sportive.

Sostava soprattutto sulle pagine di informazione e critica letteraria su poesia, prosa e saggistica italiane e poi quelle sulle novità editoriali. Gli costò una bella cifra farsi arrivare L’uomo senza qualità. Ma soprattutto presero a interessarlo le vicende politiche nazionali, questa volta libero di approfondire tutto il corredo di informazioni relative alla storia italiana dal dopoguerra in avanti con il retroterra del fascismo e del nazismo. Scoprì che la libreria di Colonia era fornitissima di autori italiani.

Man mano che i giorni e le settimane passavano Cosma trovava che quel sapere era davvero quanto lo interessava. L’entusiasmo che ora lo animava gli faceva rincorrere obiettivi più ambiziosi. Dissanguandosi all’edicola della stazione prese a  comprare non solo Il ‘Giorno’ ma anche ‘Il Corriere della sera’ e ‘L’Unità’. Cominciò a cogliere le loro differenze. Si rese conto che Il Giorno si collocava a metà strada tra Il Corriere della sera e l’Unità. In questo senso appoggiava la formazione di un governo che aprisse verso le formazioni di sinistra, in particolare il P.S.I. Apprese  che nel suo paese esisteva una forte opposizione al partito che dal dopoguerra in poi aveva dominato la scena politica e cioè la DC. PSI e PCI in particolare parlavano un linguaggio diverso, veementi nel rivendicare il proprio ruolo nel dare corpo a una politica più aperta alle rivendicazioni di natura civile e sociale, più attenta alle lotte di contadini e operai. Una differenza forte con la Germania. Le brevi e inesperte occhiate che dette alle testate tedesche erano state sufficienti per capire che il paese era guidato dai socialdemocratici. Una corrente politica di sostanza anticomunista e liberale in economia che lasciava apparentemente fuori dal partito le destre e le sinistre estreme, aveva un consenso diffuso anche tra gli operai e non conosceva particolare opposizione. In Italia invece l’opposizione stava mettendo decisamente in crisi il potere democristiano.

Facendo i suoi conti con tutto ciò Cosma in quelle lunghe e appassionate letture si rese conto di una cosa fondamentale, scoprì di essere un cittadino della repubblica italiana nata dalla Resistenza. Conosceva a malapena il senso letterale di quella parola ma significava con precisione che l’Italia repubblicana era nata antifascista.

- Ah sì? E con questo cosa vuoi dire? chiese Claudio.

- mah, non so… niente. Insomma, niente no. Vuol dire che io sono un cittadino della Repubblica e che perciò sono antifascista.

Claudio cambiava regolarmente discorso e non dette mai a Cosma l’opportunità di portarlo avanti. Veniva con lui in città e spesso si sedeva anche lui in Hohe strasse per un gelato, ma perlopiù si allontanava per i fatti suoi. Quella sua attività di lettura di quotidiani e di libri finì col creargli qualche attenzione malevola, non tutti apprezzavano l’esibizione della sua cultura, anche se lui teneva con cura un atteggiamento di basso profilo. Dieter invece quando le sue ore di libertà coincidevano con quelle di Cosma, lo veniva a trovare nel suo loculo e lo interrogava sui suoi interessi. Dopo un paio di mesi i due avevano affinato il proprio inglese e la conversazione era diventata più vera.

Lui era arrivato in quel campo come profugo da Berlino Est. Sei mesi dopo la costruzione del muro era riuscito a scappare nascosto nella pancia di un aereo. Raccontava come viveva al di là, i controlli della polizia asfissianti, la povertà dei suoi genitori ma anche quella generale.

- qui c’è più ricchezza ma anche più povertà, solo che qui mi sento libero. Mi rendo conto che si tratta in certi momenti solo di una percezione, ma le cose che senti in pancia non sono meno importanti di quelle che senti nella testa. Lì il responsabile del partito che faceva dottrina ci diceva sempre che ciascuno deve saper rinunciare a un po’ di libertà perché tutti stiano bene. Guarda, io all’inizio ero d’accordo. Ma nelle riunioni di caseggiato la sera noi facevamo domande e lui non sapeva rispondere. Chiedevamo chi è che decideva quali erano le libertà cui dovevamo rinunciare e soprattutto quanta libertà dovevamo cedere. Lui rispondeva che dovevamo avere fiducia nel partito. Per un po’ funzionava ma col tempo noi cominciavamo a darci da soli la risposta. Che consisteva in un’unica determinazione e cioè che dovevamo essere noi stessi a decidere quali e quante libertà eravamo disposti a cedere, non ci convinceva che lo dovesse fare qualcun altro. Chi cominciò a dichiarare apertamente queste idee spesso spariva. Ho cominciato allora a vivere con la paura finché ho avuto il coraggio di muovermi. Meglio qui  che lì, diecimila volte. Vorrei mandare un po’ di soldi ai miei ma non posso farlo, insomma prima o poi ci riuscirò.

Dieter raccontava con eccitazione, quando l’inglese non bastava usava il tedesco, aspettava con pazienza che Cosma traducesse parole dai suoi dizionarietti.

Quello fu il primo impatto di Cosma col comunismo realizzato, quello vivo e reale non quello delle pagine dei suoi quotidiani. Non gli ci volle molto per capire che sul comunismo era in corso qualcosa di più che non un semplice dibattito ma piuttosto schieramenti che avevano a che fare con idee di fondo, ideologie , con le quali non aveva dimestichezza. Dieter in compenso non era un testimone da poco.

Su Il Giorno, e ancora di più su L’Unità, i richiami alla Resistenza erano costanti. Apprese che le formazioni partigiane comuniste erano state le più preparate. Le altre non erano da meno quanto a eroismo e impegno ma quelle comuniste erano anche le più numerose. In ogni caso Cosma stava cominciando a comprendere meglio cosa significava essere figlio di quella repubblica democratica nata dalla Resistenza. Se alla Resistenza avevano partecipato organizzazioni importanti della sinistra come si spiegava che i governi riuscissero a evitare una naturale condivisione del potere politico con i rappresentanti di una parte così importante?

Se ora questioni di natura politica erano al centro dei suoi interessi durante le ore libere, non era certo la stessa cosa durante le ore di lavoro. Erano paradossalmente ore di riflessione. Quel lavoro manuale che aveva nella testa come scelta di vita sin dai tempi di Rimini, data la sua pessima riuscita nello studio e la sua insofferenza verso insegnanti, lezioni, interrogazioni ecc., era ora realtà. I primi tre mesi erano passati velocemente. Gli erano serviti per assorbire l’impatto con un mondo nuovo, una condizione nuova.

Colonia era una città apparentemente tranquilla e benestante. Ai suoi margini verso Nord c’erano cittadine piccole e animate da una immigrazione che trovava abbastanza facilmente la strada per l’integrazione. Le tensioni che Cosma registrò erano molto simili a quelle che a Milano c’erano con i ‘terroni’, ma nell’insieme erano visibili un certo ordine e rispetto tra le comunità di turchi, spagnoli, italiani, greci e i tedeschi. Solo nei week end ebbe modo di assistere a violenti scontri, soprattutto all’uscita dalle birrerie, che la polizia comunque riusciva a controllare. Peraltro erano tutti ubriachi.

La città si era ripresa velocemente dalla distruzione della guerra. Piano Marshall da una parte e bassi salari dall’altra, in tutto similmente all’Italia, avevano avviato le condizioni per un boom economico duraturo non dissimile da quello italiano, fatta eccezione per la stabilità politica della socialdemocrazia al governo che in Italia invece non esisteva a causa della forte opposizione alla D.C. dei partiti di sinistra.

Ovviamente Cosma non partecipava più di tanto alla vita cittadina. Sin dall’inizio in realtà la sua preoccupazione maggiore era quella di conservare quel posto di lavoro. L’esperienza con i due muratori l’aveva allarmato e a lungo portò con sé il timore di perderlo. Ma quando si rese conto che non poteva toccaglielo nessuno, quando sentì che il suo adattamento all’ambiente era ormai avvenuto anche perché gli ostacoli dovuti alla difficoltà della lingua si erano sciolti, non potè evitare di cominciare a chiedersi per quanto tempo avrebbe resistito a lavare pavimenti e sbucciare patate.

Aveva rotto i contatti con tutti a Milano. Aveva conservato una corrispondenza interessata con Sara, l’archivista della Locatelli. Si era fatto mandare un dizionario e qualche libro, Sara gliel’aveva detto più volte che doveva impegnarsi sul serio con lo studio e ora non capiva cosa stesse facendo a Colonia. In realtà Sara i motivi li conosceva. Sapeva di quel licenziamento tra capo e collo da parte dell’azienda nella quale aveva lavorato per un anno dopo il diploma di liceo. Sapeva della sua crisi dovuta al fatto che in realtà quel lavoro di otto ore al giorno non lo reggeva comunque. Sapeva che la sua frustrazione maggiore era di non sentirsi capace di trovare un compromesso che gli permettesse di conciliare il suo amore per la cultura, la storia, la letteratura e un lavoro con cui mantenersi. Non sapeva che dopo il licenziamento lui aveva trovato un altro impiego ma che appena messo il naso nella piccola azienda a porta Romana era scappato.

Il problema, tra patate da sbucciare e pavimenti da lavare, era al centro delle sue riflessioni ma Cosma si prendeva il suo tempo per affrontarlo.

Al debole sole di maggio, quando Dieter lo invitava al vicino aerodromo a vedere volare gli aerei, quando il campo tedesco era anche qua e là fiorito, Cosma perse Claudio e conobbe Orlando e Nicola.

Claudio rientrava verso le 11 di sera. Cosma già dormiva ma se ne accorgeva. Dato che i loro loculi erano uno di fronte all’altro, tenendo entrambi aperta la tenda che faceva da porta, era possibile comunicare. Claudio quando rientrava era perlopiù sbronzo. Lo intratteneva, lui nel dormiveglia, con le confidenze degli ufficiali aviatori. I quali bevevano fino alla fine di sé. Le confidenze erano esemplari della loro disastrata vita famigliare. Mentre raccontavano e bevevano volevano che Claudio bevesse. Il fatto successivo era che Claudio, bevuto anche lui, a Cosma gli raccontava quelle loro vicende familiari come fossero le sue, e allora commosso piangeva. Cosma non capiva ma aveva come l’impressione che Claudio in realtà piangesse sulla sua stessa famiglia. Alla fine di giugno Claudio partì. Non lo salutò, però qualche giorno prima lo aveva invitato a ritirare dal Main gate il proprio pass, diceva che un giorno gli avrebbe fatto piacere di aver conservato memoria di quell’esperienza.

Nicola era un giovane sardo, corpulento, basso di statura, rideva in continuazione e Cosma prese a diffidarne da subito. Era addetto a lavare piatti, servire ai tavoli e poi pulirli e prepararli per il giorno dopo. Condivideva queste mansioni con altre donne di cui una greca di una certa età, le altre giovani erano turche. Nicola le molestava in continuazione e loro subivano schernendosi e minacciando. La donna anziana stava invece al gioco e Cosma sorprese spesso i due darsi sessualmente in un ripostiglio. Nicola trattava Cosma con la stessa diffidenza, non gli tornava che uno che aveva alle spalle il liceo classico fosse lì a fare cosa?

Un giorno, durante la pausa mensa, che Cosma e Nicola erano sdraiati sull’erba del campo tedesco, dal cancello rimasto inspiegabilmente incustodito entrò un gruppo di operai della Ford riconoscibili dalla tuta e si avvicinò minaccioso ai due. Chiesero chi era Nicola in una lingua che Cosma non riconobbe. Nicola si alzò e fu assalito e colpito. Cadde in terra e lo riempirono di calci. Poi si rialzò col volto di sangue, però se la rideva.

Cosma lo interrogò. Non si trattava della donna con cui s’intratteneva in mensa, la faccenda riguardava un’altra ragazza greca che lui aveva messo in cinta. Lui ci aveva provato a farla abortire picchiandola sistematicamente sul ventre ma poi non l’aveva vista più.

L’episodio ebbe una coda per Cosma. All’ora del tea time la donna anziana seduta al tavolo dove anche Cosma sedeva gli si rivolse con intenzione. I suoi gesti erano eloquenti, mimando gesti da scontro di boxe chiedeva a Cosma come mai non aveva difeso Nicola. Cosma chiuse la mano destra lasciando liberi e tesi l’indice e il medio, diresse la mano dal basso verso l’alto in un gesto secco verso di lei. Gliel’aveva insegnato Claudio, era un gesto inglese diffuso nel campo, era come dire fack you.

Orlando guida un camioncino con cassone aperto dal quale tira giù cartoni di burro, quarti di manzo a pezzi, patate, uova, pane, biscotti, ecc. e cioè quanto serve alle necessità delle due mense del campo inglese. A Cosma non interesserebbe più di tanto non fosse che un giorno il capo dell’ufficio del personale gli chiede se vuole prendere il posto che si è liberato di aiutante. Si tratta di spostarsi nel deposito diretto da un impiegato militare che ha appunto tre dipendenti, Orlando il suo aiutante e il macellaio. Cosma non se lo fa dire due volte. La paga è la stessa, l’orario meno flessibile ma più corto, in pratica tutti i giorni alle 15 del pomeriggio è libero. Continuerà a frequentare la mensa di prima nelle ore del breakfast, del lunch e del tea time. In compenso Cosma gira fra le mense sedendo sul camioncino accanto a Orlando.

Napoletano di circa sessant’anni, ex magliaro. Aveva battuto mezza Germania vendendo nelle case le sue pezze di stoffa. A suo dire aveva sedotto tutte le donne alle quali in ora mattutina, quando erano sole, riusciva a vendere. Invecchiato, si era ritirato in quel posto dove guadagnava a sufficienza per i suoi bisogni. Forse aveva qualche piccolo conto con la giustizia. Orlando ci teneva a una certa eleganza e la sfoggiava ogni domenica quando andava a Colonia per tutto il giorno. Una di quelle domeniche, a estate avanzata, che la città era semideserta, portò con sé Cosma. La meta fu una latteria nel centro. Gli offrì il pranzo, gli fece conoscere la padrona che lui diceva di amare. Lei era di Colonia e parlava tedesco, Orlando se la cavava benissimo anche se marcava ogni parola di cadenze napoletane.

- Ce l’ha con te, disse ridendo Orlando, chiede che ci fai qui.

Cosma sorrise senza rispondere. Cominciava in realtà ad avere le idee chiare. Per iscriversi all’Università e per affrontare almeno i primi mesi a Milano finché non fosse riuscito a trovare un lavoro doveva mettere da parte un bel po’ di soldi. In effetti aveva ridotto le sue spese al minimo e il suo libretto di risparmio cresceva. L’idea era di lasciarlo crescere più che poteva. L’idea era di iscriversi alla facoltà di Lettere. L’idea era che non gliene importava nulla che i suoi compagni di classe erano ormai prossimi alla laurea. L’idea era che con la laurea non avrebbe mai accettato di andare a fare un lavoro che lo impegnasse tutto il giorno per una carriera aziendale in cui spendersi completamente. L’idea era comunque che impiegato non lo sarebbe stato mai più. L’idea era che nemmeno il lavoro manuale e servile come quello che faceva poteva essere il suo destino. L’idea era, e questa gli sembrò subito una illuminazione, che probabilmente l’insegnamento era la scelta giusta, perché era l’unico lavoro con cui poter restare in compagnia di se stesso e dei suoi interessi.

Con queste idee in corpo Cosma decise di restare nel suo campo sino all’inizio del nuovo anno accademico milanese.