Diluvi e derive Stampa
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 01 Gennaio 2010 00:00

di Franco Romanò

Lo spartiacque indicato da Jameson e ripreso puntualmente da Paolo Rabissi nel suo saggio, vale anche per l’Italia, seppure con qualche spostamento di date e ulteriori riflessioni. Partendo dalle tesi di Jameson e considerandole in questo contesto soltanto per quanto riguarda il mondo della cultura e delle arti, mi sembra si possano delineare, nello scenario italiano del secondo dopoguerra, alcuni punti di snodo.

  1. L’esaurimento del Neorealismo, che aveva dato il meglio di sé nella cinematografia, lasciò sostanzialmente intatto il linguaggio poetico. Esso diede opere importanti anche in narrativa, ma non produsse alcuna vera cesura con la tradizione. L'incrinatura cominciò a palesarsi verso la fine degli anni '50, con la rivista Officina, che nacque intorno a Pier Paolo Pasolini e Franco Fortini. Il primo dei due pose esplicitamente il problema di un rinnovamento linguistico della poesia italiana, parlò per primo di sperimentazione, ma sempre all'interno di un discorso che rimaneva fortemente legato alla tradizione. Infatti, quando avverrà la cesura vera, con il Gruppo '63, Pasolini entrerà in polemica assai aspra con Edoardo Sanguineti e con l’insieme di quell’operazione culturale. Altre due opere di quegli anni, La ragazza Carla di Elio Pagliarani e La capitale del Nord di Giancarlo Majorino, si posero come libri laterali rispetto alla tradizione e anche rispetto al dibattito inaugurato da Pasolini. Si tratta di due libri importanti, ma non suscettibili di fondare una poetica diversa, che nascerà soltanto con il Gruppo 63 e la Neoavanguardia, alla quale verrà associato, seppure con qualche forzatura, lo stesso Pagliarani. Con il Convegno di Palermo avviene la vera cesura che Jameson colloca, per quanto riguarda gli Stati Uniti, alla fine degli anni '50 e cioè con la morte di Wallace Stevens avvenuta nel 1957; anche se non va dimenticato che Marianne Moore (appartenente anche lei alla tradizione del moderno e per lungo tempo sodale con lo stesso Stevens), morirà quindici anni dopo, nel 1972. Con il Gruppo '63 si apre una frattura nella tradizione italiana, nasce la prima generazione neoavanguardista che sarà seguita da una seconda, fino alla fondazione del Gruppo '93. L’antologia I novissimi, la rivista Quindici, furono i momenti più felici e più rappresentativi della prima ondata. Varrà la pena di ricordare, tuttavia, che alcune fra le più significative esperienze rapportabili all'avanguardia, erano precedenti al Gruppo in questione, che si avvalse in quegli anni, e ancora di più successivamente, di un'esposizione mediatica e propagandistica ben maggiore di quanta ne ebbero, per esempio, Corrado Costa, oppure Emilio Villa. L'esperienza avanguardista coprì l'intero campo del dibattito di quegli anni, contestata di fatto solo dalla polemica pasoliniana. Relegati in seconda linea da quella discussione a volte inutilmente furiosa, i fautori della tradizione, compreso Quasimodo che ne pagò forse il prezzo più alto, fra coloro che erano sulla breccia. Montale, Caproni e Bertolucci fecero spallucce di quella furia iconoclasta, se ne stettero appartati a proseguire il loro cammino già ampiamente consolidato, mentre Umberto Bellintani si ritirò per scelta dalla scena proprio nel 1963, in polemica silenziosa con l'andazzo dei tempi. Il grande poeta mantovano, infatti, decise di non pubblicare più nulla e uscirà dal silenzio soltanto nel 1998, lo stesso anno della sua morte. Rimaneva Fortini il quale però, anche per altre ragioni, si dedicherà maggiormente e con grande costrutto alla critica, sia culturale sia strettamente letteraria. Si avvicinava il '68, la presenza di Fortini interna al movimento politico nato in quegli anni e al dibattito che ne seguiva, fu un faro prezioso per tenere legati insieme tensione politica e culturale, ma i movimenti di quegli anni guardavano molto di più alla Beat Generation. Peraltro, la neovanguardia, ormai istituzionalizzata nelle università, ebbe un ruolo marginale nei movimenti (se si eccettua Balestrini), costruendo invece un pezzo significativo del potere editoriale, accademico e culturale della sinistra degli anni successivi. La Neoavanguardia, non sempre consapevolmente, anticipò fenomeni tipici del post moderno, cavalcò la nascente industria culturale, capì l’importanza del cinema (in questo d’accordo con Pasolini) e specialmente della televisione.
  2. La reazione degli anni 80. Nel 1979, l’antologia poetica La parola innamorata si presentò (e così da molti fu considerata), come il tentativo di restaurare una visione alta della poesia, recuperando il valore del dettato poetico, soffocato dall’ondata rivoluzionaria e iconoclasta degli anni ‘60 e ‘70. Un’operazione, dunque, contro il cinismo e la disinvoltura prima criticate anche da me in questo saggio. Erano in molti anche coloro che dubitavano di questo, ma è importante ripercorrere tale esperienza. Pur nella sua oscurità un po' magniloquente, l'introduzione di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro all’antologia è interessante per capire quali bersagli i suoi estensori tenevano sotto tiro. Vorrei citarne qualche passaggio: "…Dunque no alla critica storicistica e alle sue diramazioni sociologizzanti, secondo la linea nazionale De Sanctis-Gramsci (con contaminazioni ora crociane, ora lukacsiane), che costituisce un avvicinamento tattico della poesia alla storia e al sociale e quella missione internamente etica e politica dell'arte……" Qualche riga più avanti un altro no importante:"…No all'imperialismo della semiologia, ma con due annotazioni: da una parte l'effetto parodistico che è implicito negli effetti di decostruzione del testo, nella rete parossistica di tabelle, gradini, classifiche, livelli ecc. che vengono ossessivamente indagati e che costituiscono un vero e proprio arsenale di 'sapere separato' dal testo, dall'altra, nei semiologi più attenti, un'aperta confessione di smarrimento e di oscurità, la coscienza che il testo sfugge, nonostante la tracotanza degli elaboratori, a un approccio che sia di tipo puramente linguistico." Più avanti i tre sì: "…La parola poetica è dunque: innamorata e perciò impertinente e beffarda, indifferente ai conclami e ai conclavi della giustizia; colorata perché non traccia disegni e percorsi…..ma crea il disorientamento bruciante….; rapinosa, e per questo è in un movimento di seduzione e di allontanamento nel quale la cosa non è avvicinata o tolta alla-dalla vista, ma immette in un paesaggio dove improvvisamente si è colti da quello spazio e la cosa si è trasformata in altro, nell'altro che è la lingua dell'origine…."

 


Questi gli intenti, smentiti da gran parte dei testi antologizzati, tranne poche eccezioni. La parola innamorata fu criticata aspramente dalla cultura di sinistra, fu accusata di essere un’operazione sostanzialmente reazionaria. La difesa fu altrettanto decisa, ma entrambe le schiere, a mio avviso travisavano completamente il senso di quell’operazione che non andava tanto criticata per i contenuti dell’introduzione, condivisibili o meno che fossero, ma per l’eterogeneità degli antologizzati, molti dei quali del tutto estranei ai contenuti stessi di quell’introduzione e infatti alcuni di loro ne avrebbero preso le distanze molto presto: Maurizio Cucchi, per esempio.

 

Sotto l’ombrello generico di quella introduzione infatti, si raggruppava una nuova generazione di poeti che si auto eleggeva tale, occupando uno spazio editoriale lasciato vuoto dall’ondata rivoluzionaria degli anni ’60 e '70, che in questo contesto non ci proponiamo per il momento di valutare, nelle sue ricadute più propriamente culturali e letterarie. In sostanza non erano tanto i contenuti quelli a dover preoccupare, bensì l’operazione in sé: con La parola innamorata finiscono le aggregazioni sulla base di poetiche e comunanza d’intenti e cominciano le cordate, cioè l’occupazione di tutti gli spazi editoriali possibili da parte di quella generazione di autori che si era eletta come tale, senza alcun supporto autonomo da parte della critica, peraltro in via di definitiva scomparsa. Che gli intenti fossero roboanti era cosa risibile: la parola innamorata inaugura la stagione della fungibilità di tutte le idee a seconda delle opportunità e a prescindere da ogni altra considerazione; fenomeno questo che connota proprio il postmoderno e la globalizzazione, come ben riassunto dal saggio precedente di Rabissi.

 

In narrativa le cose andarono un po’ diversamente, ma solo per uno spostamento di tempi. Esaurita presto la stagione neorealista e resistenziale, fu il secondo Calvino (successivo alla trilogia) a dominare la scena, mentre Fenoglio, si affermerà più tardi, quando si capirà meglio che il suo romanzo, scritto originariamente in inglese, non stava dentro i canoni piuttosto stretti della narrativa partigiana, ma aveva uno spessore diverso e più significativo. Calvino porterà in Italia le suggestioni francesi del Nouveau Roman, che andava di pari passo, nel pieno degli anni ’60 con l’Ecole du regard e il cinema di Godard e di Antonioni. Nel frattempo c’era stato il caso letterario del Gattopardo, mentre Horcynus Orca di D’Arrigo stentava a imporsi. Tutto questo però si muoveva all’interno di un gusto estetico e di istituzioni letterarie in cui la distinzione fra letteratura d’intrattenimento e prosa letteraria continuava a tenere e terrà fino agli anni ’80; per dirla con Jameson, siamo ancora all’interno delle tradizioni del Moderno.

È durante gli anni ’80 che trionfano definitivamente postmoderno e globalizzazione in Italia. Il venir meno delle distinzioni e il trionfo dell’indistinto non hanno dei veri e propri teorici alle loro spalle, se mai dei semplici omini di burro che gestiscono le operazioni. L’indistinto s’afferma come risultato di un radicale cambiamento del gusto estetico, effetto di trascinamento causato dall’apparire delle tv commerciali, che fanno trionfare anche in Italia il consumo del consumo, per ritornare a un’espressione di Jameson; cioè il raddoppiamento a livello simbolico, di ciò che avviene nel mondo dell’economia globalizzata. Uno degli effetti più abnormi di tale processo in narrativa e in letteratura in generale, sta nel fatto che, mentre in passato, erano stati la televisione e il cinema a saccheggiare (con effetti spesso positivi), la grande letteratura mondiale per farne soggetto di film, che spesso incentivava la lettura di quei capolavori, dagli anni ’80 in poi accade spesso il contrario. È la narrativa a imitare sempre più scopertamente il cinema. Molti romanzi nascono già come sceneggiature, non nel senso che Pasolini aveva sperimentato nella scrittura di Teorema o più tardi di Petrolio, ma nel senso di ricercare l’effetto speciale attraverso l’immagine . La scrittura non deve più aspirare alla letterarietà, lo stile non interessa più a nessuno, lo statuto autoriale passa in seconda linea. Forse non si affermano i gruppi di cui parla Jameson perché il mercato italiano non permette operazioni alla Stephen King o alla Dan Brown (quelle tentate da noi come i casi di Wu Ming o Luther Blisset non hanno avuto un vero impatto), se non come fenomeni di importazione. Nel contesto appena delineato i critici diventano dei recensori, oppure suonano la grancassa di questo o dell’altro potere editoriale. Solo l’università sembra risparmiata da tale deriva, ma con problemi altrettanto gravi e di altra natura, che tuttavia esulano dai compiti di questo saggio.

La situazione di caos indistinto che contraddistingue la narrativa contemporanea, non è il frutto di un dibattito, di uno scontro fra diverse opzioni, ma il risultato puro e semplice di un processo che nasce al di fuori delle istituzioni letterarie, ma a cui, queste ultime, si adeguano copiandone i modelli.

Dobbiamo essere per forza pessimisti a fronte dello scenario qui delineato?

Non necessariamente. Quello qui descritto è un processo più lineare di quanto non avvenga nella realtà: un modello interpretativo è necessario e a volte può sembrare rigido nelle sue linee di forza, ma anche nelle arti e nella cultura, il postmoderno determina anche reazioni positive, fenomeni di resistenza e di presa di coscienza. La soggettività, per quanto alienata, non è mai riducibile a un suo totale azzeramento. Nel suo saggio Paolo Rabissi ricorda un punto cruciale del pensiero di Jameson, quando lo studioso statunitense afferma che tutte le ideologie sono utopie, compresa quella del libero mercato. Mutatis mutandis, lo stesso si può dire che sono utopie e non solo processi in atto, anche il trionfo dell’indistinto e la piena fungibilità di ogni idea e opzione come raddoppiamento simbolico di una realtà, in cui l’economia finanziaria genera il mito della crescita indefinita della ricchezza dal nulla. Volevo in questo saggio delineare uno scenario e tradurre, per così dire, in italiano, il modello di Jameson. Esiste anche un’altra globalizzazione per quanto riguarda la cultura e le arti e non mancheremo di occuparcene.