Scritture antipatiche 3. La “luce di infanzia e di fiaba” di Cristina Campo Stampa
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Mercoledì 24 Settembre 2014 13:59

di Adriana Perrotta Rabissi

Continua l'indagine sul perché certe scritture di valore, molto apprezzate da una ristretta cerchia di estimatori e estimatrici, siano perlopiù trascurate dalla comunità dei critici e delle critiche e ignorate da lettori e lettrici. Perché in qualche modo risultano antipatiche alla lettura. Questa volta tocca a Cristina Campo.

With the following essai, the author continues the report on some literary writings that, in spite of the high consideration that many critics attribute to them, are not universally appreciated because the style is not considered reader friendly. In this essay, Cristina Campo is on the stage.

Die Verfasserin forsetz die Analyse von anderes literarisches Werkes, das viele Kritiken super alten. Dagegen, das Publikum oft Würdigst nicht diese Werke weil sie mit einem schwierigem still geschrieben sind.


La scrittura di Cristina Campo (Vittoria Guerrini, 1923-1977) è una scrittura perfetta, per l’eleganza dello stile, la sobrietà, la complessità dell’argomentazione e dei temi, celata da un’apparente semplicità; proprio nella scrittura Campo

cerca la perfezione, eppure la vicenda della sua fortuna presso ctitici/che e lettori/trici la assegnano di diritto al campo che definisco delle  “scritture antipatiche”, nel senso che sono poco frequentate dalla comunità dei lettori e delle lettrici, trascurate da quella dei critici, anche se riconosciute come scritture di valore.

Molte le ragioni del disamore diffuso nei suoi confronti, a cominciare dalle sue scelte di vita: l’adesione giovanile al fascismo, mai rinnegata o messa sotto critica, la tensione antimodernista e antilluminista, l’avversione nei confronti dell’industria culturale, il contrasto esplicito nei confronti dell’egemonia intellettuale del suo tempo, protesa ad un realismo costruttivo, la deriva verso un misticismo che la porterà a rifiutare le aperture del Concilio vaticano II verso la modernizzazione della chiesa e della liturgia.  Negli ultimi anni della sua vita, tormentata dalla malattia, si schiererà con i lefèbvriani in difesa della tradizione liturgica, e frequenterà  -anche se saltuariamente- ambienti reazionari.

Infine, ma non meno importante, la strumentalizzazione della destra, che ne fa una bandiera, mentre, se è vero che durante la sua vita non si dissocia mai dai suoi entusiasmi giovanili verso Mussolini e il fascismo, neppure si schiera mai politicamente, almeno pubblicamente, inoltre assume lo pseudonimo di Campo, con il quale è conosciuta –lei, che nei suoi scritti usò numerosi pseudonimi-, in riferimento ai campi di concentramento, che in tal modo vuole ricordare.

Credo però che, a parte questi dati della vita, sia stata la visionarietà della scrittura, concentrata sul mistero della vita, del sacro, della morte, in un’epoca “post-diluviale”, come lei stessa definisce la sua contemporaneità, a alienarle non poche simpatie, anche da parte di chi non poteva non apprezzare la sua sensibilità poetica e la forma particolare di scrittura, diamantina.

 

Afferma nel suo scritto Il flauto e il tappeto:

“A che cosa si riduce ormai l’esame della condizione dell’uomo, se non all’enumerazione, stoica o atterrita, delle sue perdite? Dal silenzio all’ossigeno, dal tempo all’equilibrio mentale, dall’acqua al pudore, dalla cultura al regno dei cieli. E in realtà non vi è molto da opporre agli orrifici cataloghi. L’intero quadro appare quello di una civiltà della perdita sempre che non si osi chiamarla ancora civiltà della sopravvivenza, giacché, se un miracolo non si può negare, è che in tale condizione post-diluviale, di iperbolica e universale indigenza, qualche isolano della mente sopravviva ancora e ancora riesca a stendere questi atlanti di continenti inabissati.”(1)

Fin dagli inizi la sua vita si connota come eccentrica, Cristina non frequenta scuole a causa della malattia congenita, che le procurerà grandi sofferenze per tutta la vita, ma riceve in casa una vasta e raffinata istruzione; vive appartata, anche se entra in contatto con gli ambienti e i personaggi più interessanti del mondo intellettuale e poetico italiano e estero; si autoesclude dalla società letteraria del suo tempo a Roma, rifiutando, ad esempio, gli inviti a casa Bellonci, ma si adopera costantemente per aiutare e sostenere le persone che incontra e che hanno bisogni materiali, specie se deprivati culturalmente e economicamente

Pratica la “sprezzatura” come ideale di scrittura e di vita –due dimensioni che in lei coincidono- e questo atteggiamento la fa probabilmente apparire superba a molt* intellettuali del tempo.

Nel testo Con lievi mani osserva:

”Prima di ogni altra cosa sprezzatura è (…) una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile –che a occhi non avvertiti può apparire callosità- di situazioni immodificabili che essa tranquillamente ‘statuisce come non esistenti’ (e in tal modo ineffabilmente modifica), ma attenzione. Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più alto che sé per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura La bellezza, innanzitutto,  sul mistero, sul mito, interiore prima che visibile. L’animo grande che ne è radice e l’umor lieto. ” (2)

Nell’epoca nella quale si trova a vivere e scrivere, all’uscita dalle tragedie della dittatura e  della guerra, in presenza di forti tensioni e istanze di ricostruzione civile, sociale e economica, la sua poesia visionaria, che  pone l’accento sul mistero, sul mito, su quello che sta dietro, oltre, sotto l’evidenza, appare fuori del mondo, e, suppongo, antipatica. Campo ha da subito grandi estimatori e estimatrici ma non arriva certo a un vasto pubblico, che neanche è mai cercato da lei:

“(…) il paesaggio, il linguaggio, il mito e il rito, che sono i quattro elementi della felicità, sono oggi diventati i quattro bersagli dell’odio concentrato dell’occidente. Aprirò il mio nuovo libro con la preghiera di astenersi dalla lettura a tutti coloro che sono legati a quella vecchia e trista fattura che è la parola ‘estetismo’ ”. (3)

Nella prefazione a Il flauto e il tappeto Campo scrive:

Questo libro raccoglie scritti di vari periodi e non c’è dubbio che alcuni di essi siano molto giovanili.

Pure, con diversi pretesti e sotto vari colori, mi sembra che il libro ripeta da un capo all’altro un unico discorso. E’o vorrebbe essere da un capo all’altro un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, .” (4)

Il semplice atto del vedere non dà vera conoscenza se non ci “si solleva [dalla pura vista] alla percezione”, che permette agli umani di  giungere alla reale conoscenza del mondo.

Il concetto di percezione è ripreso da Simone Weil e è stato per lei una folgorazione. Secondo la sua amica e biografa Margherita Pieracci Harwell, l’incontro con la filosofa francese è per Campo una “rivelazione” di qualche cosa già presente dentro di sé ancora allo stato indefinito, che prende finalmente forma e consistenza.

In Una rosa Campo rilegge la favola di Belinda e il Mostro, osservando che solo quando Belinda passa dallo sguardo “con gli occhi della carne” alla percezione della bontà del mostro si innamora di lui, superando la ripugnanza iniziale provata nei suoi confronti e solo allora si compie la trasformazione del Mostro in principe, ora che a lui non è più necessaria alcuna magia per assicurarsi l’amore di Belinda; l’evento della metamorfosi, ormai inutile e quindi totalmente gratuito, determina soltanto un sovrappiù di godimento per entrambi:

Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste - si domanda - in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo? (…) Ora che non sono più due occhi di carne a vedere, la leggiadria del Principe è puro soprammercato, è la gioia sovrabbondante promessa a chi ricercò per prima cosa il regno dei cieli.”(5)

La riflessione sulle fiabe, sia orientali che occidentali, delle quali Campo mostra una conoscenza approfondita, dura lungo tutto l’arco della sua vita e costituisce il nucleo generatore della sua poetica; le riletture che ne dà sono più complesse delle interpretazioni abituali, incentrate in prevalenza sugli aspetti di natura psicologica e antropologica, e orientate ad una prospettiva pedagogica.

Campo accomuna il mondo dei racconti di fate ai miti e alle religioni e ricerca in essi possibili risposte alle domande di senso intorno agli eventi fondamentali della nostra vita quali la nascita, la morte, l’amore, il desiderio di felicità; che in altre parole rappresentano il bisogno umano della dimensione del sacro. Osserva infatti che: “In Toscana la fiaba fu sempre chiamata ‘la novella ’, proprio come tra i popoli furono detti i Vangeli.” Mentre al raccontafiabe era riservata la casa, il fuoco al centro della casa -antico luogo d’incontro con i morti, con gli spiriti della stirpe- il cantastorie, storico di gesta laiche, era ascoltato in piazza. E poiché il collettivo fu sempre il braccio secolare dei popoli, cantimbanco poté sempre significare anche mangiafuoco, ciurmadore da fiera. Ma il raccontafiabe, sdegnoso di strofette, di cartelloni patetici, passava misteriosamente di casa in casa come un portatore di tesori.” (6)

Per lei questi generi di racconto condividono linguaggio e stile narrativo, sono regolati dalle stesse leggi costitutive del sogno e dell’esperienza mistica; nelle fiabe:

”(…) Come in un’antica danza di corte, bene e male vi si scambiano le maschere, e che la sorridente regina fosse una negromante, che nella stamberga del menestrello si celasse il magnanimo re Barba-di-Tordo non si appaleserà se non in quel sopramondo delle scadenze imponderabili a cui la fiaba conduce: là dove le figure rovesciate si ricomporranno nel tessuto splendente, nell’atlante perfetto dei significati. E tuttavia l’eroe di fiaba è chiamato sin dal principio a leggere in qualche modo quel sopramondo in filigrana, ad assecondarne le leggi recondite nelle sue scelte, nei suoi dinieghi. Gli si chiede nulla di meno che appartenere simultaneamente, sonnambolicamente a due mondi.” (7)

Durante il viaggio l’eroe/eroina delle fiabe dispongono di oggetti e aiutanti magici, ma nei momenti di pericolo estremo, come nella vita reale, possono contare solo sulla capacità di passare costantemente “ad un nuovo ordine di rapporti”: “La caparbia, inesausta lezione delle fiabe è dunque la vittoria sulla legge di necessità. Il passaggio costante a un nuovo ordine di rapporti assolutamente niente altro, perché assolutamente niente altro c’è da imparare su questa terra. (…) Come i vangeli, la fiaba è un ago d’oro, , sospeso a un nord oscillante,  imponderabile, sempre diversamente inclinato, come l’albero maestro di un vascello sul mare ondoso.

Offre di volta in volta la scelta –ma è una scelta velata da veli sempre diversi- tra semplicità e sapienza, durezza e soavità, memoria e oblio salutare. Uno vince perché in un paese di creduloni e intriganti fu diffidente e segreto, l’altro perché si affidò infantilmente al primo venuto o addirittura a un cerchio di malfattori. (…) Pesa su ogni fiaba –pesa su ogni vita- l’enigma impenetrabile e centrale: la sorte, l’elezione, la colpa.” (8)

La lezione delle fiabe, ascoltate da bambini/e, dalla viva voce di un narratore, spesso una nonna, ci guiderà durante la vita, ci aiuterà a affrontare ostacoli e pericoli senza soccombere, manterrà il legame con l’infanzia, nella quale, proprio grazie alle fiabe, avremo iniziato a comprendere se non il significato dei simboli, almeno il loro valore:

“così che ci accompagnerà nella nostra età adulta l’intreccio tra la dimensione della fiaba e quella dell’infanzia, in modo che: “[…] se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe.”(9)

Un altro mondo, dunque, ci indicano le fiabe, un mondo che presenta però parecchie analogie con quello concreto e terreno; certo un mondo non regolato:

dai miti consunti della ragione, dalle sentimentali leggende a lieto fine della scienza, dai gracili tabù della storia e della psicologia, dalle terroristiche teologie del progresso(“questa idea atea per eccellenza”) che da almeno due secoli paralizzavano o distorcevano le più elementari operazioni di conoscenza”. (10)

Forse grazie a questa consapevolezza si potrebbe evitare di cadere in:

”un umanitarismo che sembra escludere finora, con fredda determinazione, qualsiasi pietà non sia di ordine strettamente fisiologico: quasi che l’uomo vivesse veramente di solo pane e latte in scatola, quasi che di null’altro potesse venir privato.” (11)

Campo fu scrittrice e poeta di grande cultura e di vaste conoscenze filosofico-letterarie; scrisse di vari argomenti, tradusse poesia e scritture di grandi autori e autrici, fu un’infaticabile lettrice, sempre consapevole, come emerge dai suoi primi scritti, del proprio percorso di ricerca, individuato da lei con chiarezza pur nella molteplicità e apparente varietà degli interventi; in un’intervista rilasciata nel 1975, alla domanda se sia da considerarsi una sua svolta l’interesse recentemente dimostrato per la letteratura russa, risponde, dopo aver ricordato di avere iniziato a leggere gli scrittori russi fin da bambina su suggerimento del padre:

”Non credo di sapere cosa siano le svolte... La strada è una, solare, da oriente a occidente. Essa segue quattro linee: il linguaggio, il paesaggio, il rito e il mito.” (12)

 

Note

1 Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi Edizioni, 1987, p.113

2 ibidem, p. 100

3 Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi Edizioni, 1998, p.215

4 Campo, Gli imperdonabili, cit. p 5

5 ibidem, p. 10

6 ibidem, p. 16

7 ibidem, p.33

8 ibidem, p. 34-35

9 Campo, Gli imperdonabili, cit. p. 22

10  Campo, Sotto falso nome, cit  p.169

11 ibidem, pp. 149-150

12 Cristina Campo, Sotto falso nome, cit., p.213