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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Questa sezione si occupa di arti e di letteratura. Anche questo titolo contiene un’indicazione di massima che ovviamente trova una maggiore evidenza per il lettore, con la lettura dei saggi. Riteniamo che ci sia uno spartiacque nel secondo ‘900, un prima e un dopo e che tale ‘dopo’ sia contrassegnato dalla trasformazione della cultura in puro consumo, spettacolo e intrattenimento. Riprendiamo qui le analisi critiche che su questo fenomeno altri hanno già fatto, ponendoci anche un’esigenza di risposta e reazione a tale deriva.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Domenica 11 Maggio 2025 09:21 |
di Franco Romanò
Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo, pubblicato cinquant'anni fa viene oggi riproposto in una nuova edizione. Il romanzo è un caso unico nella narrativa italiana, un'opera epica che si distanzia però dai modelli classici. L'Ulisse fuggiasco 'Ndrja Camdria non è un eroe, ma un vinto come lo sono i pescatori nello Scilla'e Cariddi. Horcynus Orca è un monumento alla lingua, alla sua inesauribile ricchezza e alla fabula e una scrittura che riporta l'oralità dentro il tessuto narrativo.
Premessa
Cinquant’anni fa veniva pubblicato Horcynus Orca, dopo un lavoro ventennale. Le iniziative editoriali a esso dedicate sono oggi confortanti, a cominciare dalla nuova edizione di Rizzoli, che oltre al saggio storico scritto da Walter Pedullà, ospita un’introduzione di Giorgio Vasta e la postfazione di Siriana Sgavicchia. Quest’ultimo saggio ricostruisce puntualmente le diverse fasi dell’opera, le ragioni delle prime titolazioni, i rapporti di D’Arrigo con l’ambiente letterario romano. Infine, questa nuova edizione è corredata di foto e materiali inediti.
Come accostarsi a questo libro di oltre mille pagine, nel quale la divagazione regna sovrana, le storie che ramificano da quello che sembra essere il tronco principale sono altrettanto importanti? Poi ci sono i personaggi, umani e animali, tutti memorabili nel senso proprio della parola: 'Ndrja Cambria, Cata, il vecchio marinaio, le femminote, Ciccina Circé, Luigi Orioles, Caitanello Cambria, che è il padre di 'Ndrja e l'Acitana, i pellisquadra, Monanin e l'Eccellenza, un fascista che apostrofa malamente i pescatori durante una battuta di pesca.
Infine la fera, che è poi un delfino. Sono soltanto i pellisquadra, cioè i pescatori della zona, a chiamare fere i delfini, forse confondendoli con l'orca, che appartiene in effetti alla stessa famiglia; poi il mare, lo scirocco, lo scilla 'e cariddi. Il romanzo è un'opera magmatica e ricchissima che sfida il lettore, lo obbliga a un corpo a corpo continuo con la materia narrativa e il linguaggio. L’impresa è difficile e difficilmente esaustiva. Horcynus Orca è un labirinto nel quale ci si può smarrire, ma si può anche non tenerne conto perché, come afferma nel suo saggio introduttivo Giorgio Vasta:
… leggere Horcinus Orca vuol dire anche trascorre del tempo nel naufragio. Lungo la traiettoria delle frasi si avverte lo sgomento di non riuscire più a individuare dov’è il nord, dov’è il sud, dove sono finiti l’est e l’ovest; ma c’è anche l’euforia suscitata dall’occasione di non sapere più, finalmente, dove ci si trova.
Allora come afferma ancora Vasta successivamente: non importa e non si può capire tutto … 1
Leggere questo romanzo implica lasciarsi coinvolgere nei suoi diversi flussi narrativi, disseminati in tutta la sua partitura e che tuttavia sono sempre storie e narrazioni legate al territorio, a qualcuno dei personaggi o a eventi collettivi. Qualcuno le ha contate queste narrazioni apparentemente laterali: sono 56 e c’è da sommettere che ogni lettore avrà le sue predilette, diverse da altri.
Il ritorno del fuggiasco
L'incipit colloca il romanzo in un tempo storico definito e offre subito un esempio emblematico della sua cifra stilistica.
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina, 'Ndrja Cambria arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill'e cariddi

Imbruniva a vista d'occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri oggi e domani, e quello sventolio flacco flacco dell'onda grigia, d'argento o di ferro, ripetuta a perdita d'occhio.2
Siamo circa un mese dopo l'otto settembre, alla vigilia della guerra civile e della resistenza partigiana, ma gli eventi bellici e politici rimarranno su uno sfondo rarefatto e quasi invisibile, tranne che in alcuni momenti, quando storia e politica entrano a contatto e spesso in collisione con la vita normale che fluisce nonostante tutto; oppure ancora, quando gli eventi più tragici irrompono improvvisamente nella conversazione, specialmente femminile, con espressioni sorprendenti come questa:
la morte governativa, che indica proprio la guerra.
‘Ndrja Cambria sta tornando in Sicilia da Napoli, fugge per ritornare a casa, come molti altri sbandati. Sbarcare in Sicilia sembra facile ma non è per niente così. Ci vuole una barca per traghettare, ma si sente dire in giro che i germanesi le hanno bombardate tutte; poi ci sono gli inglesi che sorvegliano l'isola: di chi fidarsi? Peraltro, quando arriva dopo quattro giorni dalla parte calabrese dello stretto ‘Ndrja si rende conto che altri sbandati come lui, o semplicemente desiderosi di traghettare, lo tengono d’occhio: Boccadopa, che si barcamena con la stampella e Portoempedocle.
È un vecchio marinaio a dirgli qualcosa di più, fra una chiacchiera strampalata e l'altra, nel mezzo di un continuo riferire parole udite ma non sue, il sentitodire e il vistocongliocchi, due espressioni che ritornano continuamente nella narrazione. Le notizie sulla guerra si mescolano alle esperienze di vita vissuta in quel braccio di mare dove tonni, pesci spada e delfini s’aggirano e sono sia cibo che dà la sopravvivenza sia minacciosi simboli di morte.‘Ndrja fa domande al vecchio, cerca di capire, l'altro spesso perde il filo del discorso, si smarrisce nei suoi fantasmi, ma alla fine arriva al punto:
La barca c'è.3
'Ndrja però tergiversa. Inizia una lunga parte del romanzo che si regge su alcuni elementi portanti: i ricordi del vecchio che spesso avvengono in presa diretta, cioè tramite brevi monologhi. Il secondo sono i dialoghi fra loro due, altrettanto frammentari. Il terzo è costituito dai ricordi di ‘Ndrja, che irrompono nel testo: il suo rapporto con il padre, la pesca di notte, i pellisquadra e la fera, animale dominante e simbolo di morte.
Infine, le incursioni del narratore onnisciente, quasi sempre orientate alla rappresentazione del mare, dello scirocco, del sole: oppure per delineare il carattere di un personaggio.
… A capo chino, col mento appoggiato sulle mani con cui stringeva la sua lanciabastone, il vecchio si sforzava gli occhi dietro la ruota di sole che girava in giù, in mare, lasciando in cielo una scia rosseggiante, come se per l'attrito infiammasse l'aria per dove passava. Il vecchio aveva il respiro mezzo e mezzo col sospiro, un risospirare fracquo come quello del mare sciroccato che col sole calante andava sbollendosi sempre più nel vaeviene della maretta … 4
Il vecchio non è del tutto convinto che l'altro voglia tornare in Sicilia, avverte la misteriosa incertezza che attanaglia Cambria ma che lui non sa decifrare; però dentro di sé ha deciso di aiutarlo. Sa di dover dire qualcosa di più sulle barche, ma tergiversa a sua volta e il perché è presto detto: le barche ci sono, ma bisogna rivolgersi alle femminote per trovarne una. ‘Ndrja in realtà lo aveva già compreso: le aveva già intraviste, compresa Cata, un personaggio intrigante e misterioso.
Il vecchio gli dice in quale punto della spiaggia andare e poi:
Ma non sia mai che passate di giorno … non v'arrischiate di guardare perché tanto biancheggio d'ossa vi abbaglia. E poi vi credete forse di vederla la femminota di giorno? Forse è femmina di giorno quella? Ve la potete insognare di giorno quella .-...” … “Fatevi conto … mezzanotte all'incirca. E voi, circa a quell'ora, prima possibilmente e non dopo, vi dovete mettere alla misa e fargli la posta ...” 5
Ma è solo la prima parte delle istruzioni perché quello che segue è davvero ciò che conta:
“Se volete approdare allo scopo vostro, in Sicilia” continuò ponderando le parole a una a una, pesate posate, sapute sapite, come dette da bocca a orecchio, dallo spiaggiatore, quando va solo seco seco “vi dovete scrivere a mente questo: che sono deisse e se non le trattate per tali e non gli entrate nella divozione, voi in Sicilia, per grazia loro, non ci arriverete mai.!6
Le femminote sono dee che si attendono però dal maschio che si comporti come tale, cosa che a lui vecchio è ormai interdetta. Cambria non risponde a quel richiamo sessuale con l'entusiasmo che il vecchio si aspetta. Questo comportamento gli fa venire il sospetto che la guerra gli abbia provocato una qualche mutilazione. Cambria ascolta e non risponde per lungo tempo poi taglia corto in modo laconico - no, non ha subito alcuna mutilazione - ma sorridendo dentro di sé di tenerezza verso il vecchio.
Fere e femminote
Fere e femminote sono personaggi concretissimi ma anche avvolti nella leggenda e nella macchina mitologica 7che sta sempre sullo sfondo di questa narrazione, come una specie di radiazione che si sente sempre ma che non invade il centro della scena. Nell'immaginazione del vecchio sono donne libere, forse troppo libere per lui, o forse sono addirittura delle prostitute. Negli incubi di 'Ndria le fere sono animali che popolano quel mare e che gli fanno paura.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Mercoledì 15 Maggio 2024 07:29 |
Franco Romanò
Lo spunto che mi ha spinto a scrivere questa riflessione è il dibattito che c’è stato intorno a un saggio pubblicato di Antonio Attisani su Doppiozero. L’articolo è indubbiamente interessante per molti aspetti, tanto che inizierò proprio da una citazione del suo saggio, mentre non mi convince la lettura politica che ne dà. La classe morta è stata nella drammaturgia del secondo ‘900 un evento e non solo uno spettacolo, poi è stato lasciato in un relativo oblio e nessuno si è posto il problema di metterlo di nuovo in scena, anche se alcuni lavori si sono ispirati ad esso. La mia rilettura ruota intorno a una domanda: cosa ci può dire oggi quell’evento? A mio avviso molto, ma in un senso che, pur presente anche in un breve passaggio del saggio di Attisani, viene poi da lui abbandonato.
Il teatro della morte
Il brano di Attisani che riprende anche alcune affermazioni di Kantor rispetto alla sua drammaturgia è questo:
… occorre piuttosto pensare alla scena come montaggio di elementi della “realtà pronta” (objets trouvés) e riconoscere il “ruolo del CASO” nella creazione.
Continua Attisani:
Siamo qui all’indeterminismo della fisica quantistica. Quando si esprime nel difficile linguaggio della nuova fisica, quando Kantor dichiara di rimpiangere un teatro che:
“si liberava dai vincoli della vita e dell’uomo, produceva degli equivalenti artificiali della vita, che si assoggettavano all’astrazione dello spazio e del tempo, erano più viventi e capaci di raggiungere l’assoluta coesione”,
dobbiamo intendere quelle parole alla luce dei suoi spettacoli meravigliosi, della loro semplice grandiosità che toccava il cuore degli spettatori più diversi.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Martedì 03 Ottobre 2023 14:10 |
di Paolo Rabissi
La luna, transizione di ritmi 
Quando con Franco Romanò più di dieci anni fa abbiamo avviato l’impresa che sta ormai per concludersi con la sua pubblicazione in formato libro, non avevamo idea di come l’avremmo chiamata. Vero è che eravamo troppo impegnati ad analizzare lo stato della poesia presente, soprattutto perché eravamo entrambi esuli da due esperienze in due riviste per noi molto significative, lui dal Cavallo di Cavalcanti, io da Il monte analogo. Al di là delle pubblicazioni individuali di nostre raccolte di versi, l’uscita da quei due luoghi, che avevano funzionato egregiamente come osservatorio importante sulla poesia, ci sembrò quasi l’esaurimento di un’ipotesi di vita poetica e letteraria e che interrogarci sul futuro fosse terribilmente necessario. Non ci volle molto per renderci conto che entrambi avevamo alle spalle una tensione tenuta per troppo tempo sotto traccia. Era quella della Storia. Quella con la S maiuscola, facendo un po’ nostra quella usata da Morante nel suo romanzo per sottolineare che la Storia è fatta dalla gente qualunque e non solo dai personaggi famosi o dagli eroi, vincitori. Sia io che Romanò intendevamo la Storia secondo criteri che ci provenivano dal pensiero critico maturato nella seconda metà del ‘900. Anzitutto il presente come storia. Facevamo nostra la lezione benjaminiana, partire dalle urgenze dell’attualità (Jetztzeit) tramite le quali narrare e ricostruire la Storia ma avendo lo sguardo rivolto al futuro. Ci premeva la moltiplicazione della Storia in storie, declinate a seconda delle soggettività espresse: la classe operaia fordista che ha fatto la storia democratica del nostro paese per tutti gli anni sessanta e settanta, il femminismo in tutte le sue anime, l’ambientalismo, le nuove tecnologie, le nuove frontiere della scienza, della psicanalisi critica, ecc. Il tutto dentro un coacervo di forme nuove di relazione tra Sapientes dettate dalle trasformazioni nel lavoro, dagli eventi più o meno imprevisti (come il virus o l’attuale guerra) e dal mutamento di mentalità con la scoperta di emozioni, sentimenti, sensibilità, passioni, legate verosimilmente anche alle nuove povertà, alla precarietà, al disagio espresso da giovani e anziani, all’impatto con immigrati e immigrate.
A dire il vero non stavamo inventando o scoprendo nulla di nuovo. Del resto noi stessi, scrittori di righe e di versi, avevamo già tracciato qualche percorso soprattutto in versi: Romanò compulsava la Storia nelle terre della Lunigiana e nel tempo della decadenza dell’impero romano, mentre personalmente recuperavo la memoria del lavoro manuale attraverso cui ero passato. E quando decidemmo di mettere alla prova le nostre riflessioni ci accorgemmo che intorno a noi i temi che volevamo richiamare all’attenzione erano già praticati da non pochi poeti e poete.
Restava il problema del nome della nostra impresa e si mostrò necessario fare i conti con due espressioni: poesia civile e poesia politica.
Come ho già scritto altrove, da insegnante ho sempre evitato di parlare di poesia civile. L’espressione, a partire dal ’68, ha finito con l’evidenziare una sua mascherata connotazione ideologica. Era un modo tartufesco per evitare di usare l’espressione ‘poesia politica’. Tuttora, nonostante il ’68 o forse proprio per questo, sostantivo e aggettivo non abitano affatto insieme. Trascuro la totale irrilevanza della poesia in generale, vero è piuttosto che se ad essa accostiamo il termine ‘politica’ si storcono i nasi dei più. Eppure da sempre esiste una poesia politica. Ma preferiamo chiamare anche Le ceneri di Gramsci un poemetto di poesia civile. E anche quello di Giuseppe Giusti ‘Sant’Ambrogio’. E il tono satirico di Montale in ‘Satura’ contro la società dei consumi non ha forse un passo da engagé?
Ciò che poi quella parola porta con sé appesantisce di molto. Porta con sé ‘partiti’ e ‘ideologia’. Ed è del tutto inutile sperare che ‘politica’ venga intesa solo come ciò che riguarda la polis, la collettività.
Lungi dall’essere innocente, la parola ‘civile’ nasconde ideologia e partiti. Giusti e Montale erano entrambi liberali e avevano entrambi il medesimo partito a cui riferirsi, a distanza di un secolo. Quanta ideologia stia dentro il neoliberismo attuale non mette conto parlarne qui.
Così ecco che, apparentemente lontano da partiti e ideologie, nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, salta fuori il ‘poeta vate’, che, col ruolo di maestro e guida, celebra invece proprio valori e ideali politici, così Carducci, Pascoli, D’Annunzio sono annoverati tutti tra i poeti civili.
A voler andare indietro si dovrebbero rivisitare alla luce di queste considerazioni decine di poeti: da Parini ad Alfieri, da Foscolo a Manzoni per arrivare a Ungaretti e Quasimodo e così via.
Uno degli intenti che ci hanno animato dunque era quello di recuperare all’attenzione un genere di poesia che accanto alla creativa riflessione psicologica, filosofica, morale di natura individuale e intima più tipica della poesia lirica trovasse spazio quella storica, sociale, antropologica., cioè in definitiva civile e politica. Abbiamo chiamato il tutto: Di Epica nuova.
C’entra la poesia epica? Non quella nota. Né quella di Omero, né quella di Ariosto, né quella degli eroi galattici. L’eccezione, inutile dirlo è Dante, maestro di epica lirica. Ma tutto il resto è un mondo arcaico. Vero è che le propaggini, e non solo propriamente quelle, del mondo patriarcale antico arrivano fino a noi.
Zeus fulmina gl’infedeli e stupra ogni giovinetto e giovinetta che incontra, mentre Giunone, votata alla fedeltà, si vendica appena può sugli/lle amanti e figl* di lui. Una normale vita di famiglia patriarcale divina da cui discendono noti effetti tra umani: sistemi appassionati di competizione, guerre, genocidi, devastazioni, fino al totale consumo dei viventi e dell’inorganico. Il tutto oggi sotto le regole di ferro del neocapitalismo liberale all’insegna di servitù e signorie.
In questo quadro per molti versi drammatico, nel quale le poesie si mettono tra loro in febbrile ricerca di una precisa identità, noi ci collochiamo, verosimilmente, per usare un’espressione di Pier Giorgio Bellocchio, ‘al di sotto della mischia’. Un po’ anche per evitare quello che Walter Benjamin chiama il ‘chiacchiericcio sulle cose vere’ di cui i social sono piuttosto responsabili.
Al di sotto dunque dei generi poetici (coi loro presunti canoni) e anche della parola non sessuata (il maschile considerato neutro universale), ma con ragioni buone: a noi sembra infatti che comunque poesie e autori e pubblico delle poesie stanno mutando, stanno trasformando toni e accordi, fiati e archi, modanature e nodi, chiavi di volta e perni e nessi in molteplici stringhe di mondi paralleli per ora poco visibili.
C’è stato un momento dopo un paio di anni di messa a punto dei temi che ci interessavano, in cui abbiamo cominciato a sentire la necessità di misurarci con la realtà che avevamo intorno. Abbiamo prima avviato incontri (tenuti perlopiù nella libreria Franco Angeli in bicocca a Milano) ma poi aperto un blog, dando inizio a un dibattito che è durato anni, ricco degli interventi critici ma anche dei versi che tutt* hanno voluto pubblicare.
Tutti gli interventi erano passati attraverso una premessa ufficiale nella quale dichiaravamo che eravamo agli antipodi della intenzione di fondare qualcosa che potesse assomigliare a un nuovo canone. Non abbiamo mai chiesto a nessuno alcuna adesione, ci è bastato arricchire il dibattito con presenze che a nostro avviso si avvicinavano a certi requisiti, quali si sono andati precisando nel corso del lavoro e che possono essere riassunti così:
1) l'assunzione di una tensione nei confronti della Storia declinata sia come memoria che come tensione col presente stesso in quanto storia ( soggettività più o meno impreviste come migranti, femminismo, virus...).
2) l'assunzione del conflitto tra soggettività poetante e il presente nelle sue molteplici declinazioni, come consapevole linea di demarcazione rispetto alle astrattezze liriche o meno.
Fuori da questa impostazione c'è una gran quantità di poesia bella. A noi però sembra che la critica segni il passo, al di là delle individuali sensibilità e competenze linguistiche, letterarie ecc. E anche al di là delle capriole sullo sperimentalismo linguistico, che per noi ha diritto a ogni cittadinanza a patto che non resti fine a se stesso.
A ridare vigore alla critica in fondo potrebbe anche servire un dimensionamento quale quello che proponiamo. Ma forse a noi serve semplicemente per rimanere in grado di riconoscere la poesia dentro la complessità stordente del presente, le sue superficialità, le sue fumisterie.
Il nostro blog è tuttora vivo a questo link: www.diepicanuova.blogspot.it
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Mercoledì 19 Luglio 2023 06:23 |
Di Franco Romanò
Premessa
La morte di Cormac McCarthy, a poca distanza dall’uscita in Italia del suo ultimo romanzo, sembrerebbe conferire ad esso il ruolo di testamento spirituale. In realtà, le cose non stanno così perché la casa editrice Einaudi ha in programma la pubblicazione di Stella Maris il prossimo settembre. Fra i due romanzi c’è un nesso che viene dichiarato anche nella presentazione de Il passeggero. La tentazione di attendere anche la seconda opera è stata forte, ma la lettura del libro e un’intervista rilasciata poco prima della morte, mi hanno convinto a scriverne subito. Il romanzo è da un lato un compendio di tutto quello che McCarthy ha scritto; in secondo luogo, come afferma nell’intervista concessa alla fine del 2022, quest’ultima opera è anche il distillato di una riflessione su scienza, antropologia e tecnologia che lo hanno visto impegnato nelle discussioni del Santa Fe Institute, fondato dall’amico fisico e premio Nobel Murray Gell-Mann. Dell’associazione fanno parte altri scienziati che discutono proprio sui temi più scottanti e attuali che riguardano il rapporto fra le scienze e la società. Il solo scrittore a far parte del gruppo è stato McCarthy. Mi è sembrato che nel romanzo ci sia proprio una eco di queste riflessioni recenti, che ne fanno un’opera in qualche modo definitiva. Il romanzo è costruito intorno a due diversi nuclei narrativi, a loro volta stratificati al proprio interno, che si alternano di capitolo in capitolo. Il primo nucleo, sempre in corsivo, inizia con una premessa, la scena del ritrovamento di un cadavere. Il secondo nucleo, scritto invece in tondo, comincia da uno spunto narrativo più immediatamente decifrabile: Bobby Western – nome quanto mai evocativo –1 sommozzatore di recupero di navi affondate, durante un’immersione vede un aereo che giace su un fondale con nove uomini morti a bordo. Bobby comincia ad avere dei sospetti, ma nel proseguimento del capitolo e nella conversazione fra lui Oiler - un altro sommozzatore - e Campbell, con cui discute dei suoi dubbi, le ragioni di tali preoccupazioni sono indicate in modo vago. La conclusione però è repentina e drastica: Bobby decide che è bene sparire.

La fuga
Tale scelta permette al narratore di costruire intorno al cliché del genere giallo una trama assai complessa e di chiamare a raccolta, in una ideale rappresentazione totale che spazia dal cinema, al teatro, al circo, i personaggi dei suoi romanzi precedenti. Se ci sono proprio tutti lo vedremo alla fine. Alcuni altri sono invece nuovi perché le tipologie più note - specialmente quelle maschili - della narrativa di McCarthy, vestono la fisionomia del tempo storico che hanno attraversato: allora ecco comparire un professore di fisica coinvolto nel progetto Manhattan - forse lo stesso Oppenheimer o addirittura il padre di Western medesimo. La costruzione del primo ordigno nucleare statunitense fu la sintesi novecentesca di quel male assoluto che accompagna dalle origini la narrativa dello scrittore. Alcuni altri personaggi sono strani poliziotti o agenti dell’agenzia delle entrate: cercano Bobby, gli fanno delle domande in momenti diversi, gli perquisiscono la casa, senza tuttavia arrestarlo e infatti la vicenda iniziale - quel velivolo sul fondale con nove morti a bordo e un decimo probabilmente sopravvissuto - sfuma nell’indeterminatezza. Questo nucleo narrativo è fatto di molteplici incontri, di dialoghi dalle diverse temporalità, visto che si tratta di personaggi che riprendono a parlare con quelli odierni: John Sheddan, Borman, Oiler, Kline, lo stesso Bobby, la nonna, una trans di nome Debussy. Proprio durante uno dei primi dialoghi con Sheddan e poi fra quest’ultimo e un personaggio femminile di nome Bianca, il ritratto di Bobby Western assume qualche contorno più preciso:
… Mi piace il tuo amico, disse Bianca. Bel culo.
Fai un buco nell’acqua mia cara.
Perché, è gay?
No. È innamorato.
Peccato.
Peggio ancora.
Cioè?
È innamorato di sua sorella.2
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Venerdì 30 Giugno 2023 08:41 |
di Claudia Mazzilli Claudia Mazzilli legge la poesia di Gloria Anzaldua, poeta ancora poco nota in Italia, all'incrocio tra poesia epica e denuncia di sessismo, classismo, razzismo.Gloria Anzaldúa, Terre di confine / La frontera. La nuova mestiza, Black Coffee edizioni, 2022 [...] Cuando vives en la fronterala gente ti cammina attraverso, il vento ti ruba la voce, sei una burra, buey, capro espiatorio, anticipatrice di una nuova razza, mezza e mezza – sia donna che uomo, né l’una né l’altro –
un nuovo genere; [...]
Nelle Terre di confine sei il campo di battaglia dove i nemici sono parenti fra loro; sei, a casa, una straniera,
le dispute di frontiera sono state risolte
la raffica di colpi ha infranto la tregua sei ferita, dispersa in azione, morta, rispondi ai colpi; [...] 
(Vivere nelle Terre di confine significa che, pp. 265-66)
Una scrittura radicata nella coabitazione di più mondi in continua transumanza, nei graffi e nelle ferite aperte dalle quasi duemila miglia di filo spinato tra Messico e Stati Uniti. Una narrazione di resistenza a qualsiasi stigma (razzismo, classismo, omofobia) ma anche una poesia della trasformazione psichica, del passaggio, dell’abbandono degli ormeggi, che dà coraggio a chi ha superato i confini di ciò che è presunto come “normale”. Una prosa-poesia intima ed epica insieme, che sa ripetere incantesimi per suscitare amore nella donna amata, ma sa anche fotografare lo sfruttamento, la povertà, le diaspore dei reietti tra le terre di confine, come sa perdersi nei vapori impalpabili ma non meno veri dell’immaginazione, quando recupera con orgoglio queer alcune suggestioni androgine dai miti dei nativi, o quando attinge alle simbologie arcaiche delle antiche divinità femminili precolombiane relegate in un’oscurità mostruosa e sinistra, prima dalla cultura azteca in fase di patriarcalizzazione, poi da quella cattolica dei conquistatori europei, che alle antiche dee ha definitivamente sostituito la Vergine di Guadalupe. E ogni volta che invoca le dee, Gloria intona un canto di resistenza alla cultura etero-patriarcale, suprematista, violenta e guerrafondaia, ma soprattutto si riconnette con le sue origini indie.
[...] L’ultima volta mi condannasti a questa pena: anni e anni di tua assenza. Che grande rinuncia mi hai chiesto. E ora per tutte le terre lacerata ti cerco. Antica, la tua figlia errante non può raggiungerti. Dammi un altro segno un’altra briciola della tua luce. La mia pelle in fiamme desidera conoscerti. Antica, mia dea, voglio nascere un’altra volta nella tua nerissima pelle. (Antigua, mi diosa, p. 257)
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