di Adriana Perrotta Rabissi
All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali erano quella lingua (L’analfabeta. Racconto autobiografico, Ginevra, 2004, p.25)
A Kristof sono stati assegnati premi letterari in tutta Europa, i suoi tre romanzi più conosciuti, scritti tra il 1986 e il 1991, Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna, riuniti dall’editore italiano sotto il titolo Trilogia della città di K, sono stati tradotti in 33 lingue, compresi il cinese e il giapponese, ma sono passati quasi inosservati in Italia. Gli aggettivi e le espressioni impiegate dai recensori e dalle recensore delle opere di e Kristof variano da scrittura fredda, penna lucida e glaciale, scrittura chirurgicamente precisa, è una scrittura per nulla compiacente, che non lascia possibilità di salvezza né ai personaggi delle storie, né al lettore o alla lettrice. Kristof evita gli aggettivi, persegue una scrittura asentimentale, che rimuova l’amore e le emozioni che, trappole da cui tenersi lontano nella vita come nella scrittura. La sua scelta poetica è stata determinata dalla particolare circostanza nella quale si è trovata a scrivere, la rinuncia alla lingua materna e l’adozione forzata di una lingua nemica. Agota si attiene al consiglio, datole durante un corso di francese per principianti frequentato dopo anni di permanenza in Svizzera, di usare frasi concise e semplici sintatticamente; in quell’occasione all’insegnante che le chiede il perché della frequentazione di un corso simile, dopo tanto tempo che soggiorna nel paese, lei risponde che è analfabeta. Scrive nel suo racconto autobiografico L’analfabeta: “Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario consultare di frequente. E’ per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra, di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna”.(L’analfabeta, p.28) Il particolare contesto nel quale si trova a vivere e operare, la Svizzera e la lingua francese, si interseca con la sua scelta poetica, rafforzandola. Kristof ha vissuto nell'area della cultura austroungarica, ha conosciuto fin dall'infanzia situazioni sociali repressive delle libertà individuali e collettive. Nata in Ungheria il 30 ottobre 1935 approda a ventun’anni anni a Neuchâtel quando, sposata e con una bambina di quattro mesi, fugge davanti all’invasione sovietica del 1956 a causa del marito, impegnato in politica. Non gli perdonerà mai di averla costretta all’esilio dalla famiglia, dagli amici, dalla sua terra e soprattutto dalla lingua materna, nella quale aveva cominciato a scrivere fin da bambina poesie e brevi sceneggiature, organizzate intorno a sentimenti e emozioni, che Kristof metterà irrevocabilmente al bando negli scritti da adulta. In una delle ultime, e poche, interviste rilasciate Kristof commenta che sarebbe stato meglio che il marito avesse sopportato un paio di anni di carcere, piuttosto che costringerla a abbandonare l’Ungheria. C’è da osservare che si sposò a diciannove anni con uno dei suoi professori, che tra l’altro le aveva impedito di continuare gli studi a Budapest. La sua opinione sulle vicende politiche che hanno determinato la sua vita si riassume nel concetto che il comunismo era una buona idea, realizzata male, e che il capitalismo è anche peggio. Vive dunque una situazione personale di eccentricità e spaesamento familiare e affettivo, che attribuisce all’abbandono forzato della lingua materna, che riconosce come unico tratto identi tario. Forse è anche questa la ragione del ricorso sovente della figura del doppio nella sua narrativa. Dopo aver lottato per liberarsi dai vincoli interiori e dagli ostacoli economici e sociali che le impediscono di raggiungere la propria autonomia, dopo averla conquistata, a prezzo di sacrifici e rinunce, sceglie la condizione di marginalità e isolamento sociale rispetto alla comunità letteraria del suo tempo. La scrittura costituisce per lei l’amore della vita, insieme alle due figlie e al figlio, gli uomini no, l’hanno fatta troppo soffrire). Scrive poco, risponde così a una domanda rivoltale in un’intervista del 2005: “Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare. Se non avessero ritrovato questi testi [vecchi inediti, che l’editore volle comunque pubblicare, e ora presenti in una breve raccolta intitolata La vendetta] non avrei consegnato niente agli editori per altri dieci anni. D’altra parte, mi sembra di aver pubblicato abbastanza” (Per la signora ‘fa sempre lo stesso’, Intervista con Agota Kristof, scrittrice di esilio, dolori e parole scarne, Anno X, numero 54 – p. VII, “Il foglio quotidiano”, sabato, 5 marzo, 2005). Agota ripete più volte di essersi sentita espatriata ed esule in lingue nemiche: il tedesco, che dovette imparare col trasferimento all’età di nove anni in una piccola città di confine tra Ungheria e Germania dove il tedesco era parlato dalla maggioranza degli abitanti; il russo imposto nelle scuole dopo la seconda guerra mondiale, il francese, che resta la lingua dell’esilio, scelta anche per la scrittura, pena la rinuncia all’ungherese al suo arrivo in Svizzera. Fino alla fine dei suoi giorni si rammarica di non conoscere bene il francese, pur avendolo scelto come lingua della scrittura, scelta che le costa però cinque anni di silenzio letterario, uno dei peggiori periodi della sua vita. “La voglia di scrivere verrà più tardi, quando si sarà rotto il filo d’argento dell’infanzia” (Agota Kristof, L’analfabeta) In Kristof l’altro grande tema associato alla lingua materna è l’infanzia; nei brevi undici quadri che compongono l’autobiografia, L’analfabeta, richiestale da una rivista, Kristof scrive di un’infanzia serena, nonostante difficoltà economiche e politiche della famiglia, racconta dei rapporti di giochi e scherzi con i due fratelli, uno minore e uno maggiore, e molto della sua passione per la lettura, che era iniziata a quattro anni. Proprio due bambini sono i protagonisti de Il Grande quaderno, il primo romanzo della Trilogia, che, quando fu pubblicato nel 1987, fu dichiarato Livre Européen e proposto come libro di lettura nelle scuole francesi, nonostante le polemiche per la sua crudezza. Due gemelli, dell’approssimativa età di sei anni, sono affidati temporaneamente dalla madre alla nonna, anaffettiva e avara, che vive in miseria in un cascinale squallido e sporco; i bambini sono colti, sensibili, intelligenti e educati, nei due anni successivi dovranno disimparare tutti i valori fino ad allora acquisiti per sopravvivere agli orrori, all’imbarbarimento progressivo del mondo nel quale vivono, agli inganni e alle violenze degli adulti. Il grande quaderno è quello sul quale i fratelli annotano quello che vedono, solo i fatti, senza commenti o interpretazioni; nell’intento di proseguire gli studi da autodidatti si dedicano all’esercizio di composizione, in attesa del ritorno della madre. Non sono indicati né luogo, né tempo, ma si comprende che è un tempo di guerra, la narrazione è affidata alle scritture diaristiche di Luca e Claus. Il grande quaderno è un romanzo di formazione dei nostri tempi di ?bambini in guerra?, di un’educazione capovolta, realizzata attraverso le tappe forzate di esperienze crudeli, ed esercizi appositi che i due gemelli si impongono per diventare insensibili al freddo, alla fame, alla paura, al dolore, alle percosse. E’ un racconto che si potrebbe definire gotico, secondo la categoria messa a punto dalla critica anglosassone, che rintraccia nelle scritture a firma di donna molti segni dell’orrore introiettato nell’esperienza di vite femminili. Un racconto costituito da capitoli brevi: mancano quasi completamente gli aggettivi, le frasi sono sintatticamente ridotte e taglienti, come sanno essere le frasi dei bambini, prive di artifici retorici e di echi suggestivi. La città è presso un confine, i bambini annotano che le persone parlano a volte lingue strane, straniere. Numerosi sono i riferimenti autobiografici, ad esempio negli scherzi organizzati dai gemelli, che non perdono mai il gusto per la vita e la disposizione al gioco, scherzi che prendono spunto da quelli inventati da Agota bambina con il fratello maggiore, spesso a danno del minore. Il romanzo si conclude con la morte del padre andato a trovarli, che viene aiutato da loro a fuggire passando il confine, ma indotto consapevolmente a attraversare un campo minato che deflagra sotto i suoi piedi, perché uno dei due possa a sua volta superarlo incolume. Essi sopravvivranno dunque opponendo la ferocia conquistata alla ferocia del mondo circostante. L’educazione al contrario è pienamente riuscita. Il secondo romanzo, La prova, narra la vicenda della separazione dei due gemelli. Lucas è il fratello rimasto a occuparsi dell’orto, dopo la partenza di Claus. In seguito all’abbandono da parte del fratello è caduto in profonda depressione, dalla quale esce con l’aiuto dell’ortolano e del curato, con cui inizia a giocare a scacchi la sera. Un giorno incontra poco lontano da casa, sul ponticello costruito anni prima col fratello, una giovane donna con un bambino che piange, voleva annegarlo ma non ce l’ha fatta; è vittima della censura sociale, dal momento che il piccolo è figlio del padre di lei, arrestato per l’incesto. Sapremo alla fine che il padre è stato ucciso in carcere dai compagni di detenzione. Lucas si prende cura di entrambi, ha qualche sporadico rapporto sessuale con la ragazza, ma ama solo il bambino, Mathias, che considera quasi figlio suo. La piccola città dove vive Lucas presenta il degrado e la desolazione di un paese occupato, in mano ad un regime repressivo, l’unica salvezza è la scrittura . Un giorno la giovane donna parte, lasciando Mathias a Lucas, il bambino cresce sempre più intelligente, ma quando comincia a frequentare la scuola è fatto è oggetto di scherzi crudeli, percosse (bullismo?) da parte dei compagni di classe, tuttavia non vuole rinunciarvi. Lucas, che nel frattempo ha rilevato la cartolibreria di un amico, organizza una sala di lettura per bambini, perché si abituino a Mathias, e lo rispettino, ma il bambino è diviso tra l’attesa del ritorno della madre e l’amore per Lucas, un amore che diventa sempre più insidiato dalla gelosia e dal possesso, finché, non reggendo più la situazione, Mathias si uccide finendo, piccolo scheletro, nell’armadio che contiene già gli scheletri della madre di Claus e Luca e della loro sorellina, morta insieme alla madre, dopo che quest’ultima aver affidato i gemelli alla nonna. Nel frattempo fallisce il tentativo di rivolta degli abitanti della città, che tentano di liberarsi dall’oppressione tirannica, si verificheranno deportazioni e massacri. Al compimento dei trent’anni Lucas sparisce dal paese, un amico custodisce la casa e la cartolibreria, in attesa del suo ritorno. Qualche tempo dopo invece si presenta Claus in cerca del fratello, è scambiato da tutti per Lucas. In un’occasione Claus mostra il grande quaderno che ha tenuto con sé, che però sembra scritto in un tempo molto recente, non certo anni prima e, soprattutto, con la grafia di un’unica mano, non certo di due. Quando si comincia a dubitare di tutto quello che si è letto nel grande quaderno ? invenzione? ricostruzione allucinata di uno dei due gemelli? ? si legge La terza menzogna, nella quale ci si trova di fronte a un ribaltamento totale di situazioni, a cominciare dalla scrittura, il racconto è scritto in prima persona singolare, e non in terza come ne La prova, o in prima plurale e in forma di diario come ne Il grande quaderno, i capitoli sono più lunghi, la scrittura più realistica. L’io narrante è un uomo di cinquant’anni, scrive mentre è in prigione, è alcolizzato, gioca a scacchi con l’ufficiale della prigione e a carte con la guardia, ricorda che proprio un anno prima ha avuto conferma della sua cardiopatia, ma continua ugualmente a bere e fumare. Scrive che una volta tornato nella città dell’infanzia ha trascorso la maggior parte del tempo nell’ospedale della grande città dove si era trasferito da bambino. Riconosce molti luoghi, parla di un fratello, ma a volte nega che sia mai esistito, parla della vita in ospedale, dei bombardamenti, del suo handicap fisico, della vecchia che lo accudì quando uscì dall’ospedale, una vecchia che egli imparò a chiamare Nonna. Ricompaiono tutti i personaggi de La prova, ma tutti ricoprono ruoli diversi nella costellazione dei rapporti intrattenuti dal protagonista. La ricostruzione dei fatti è sdoppiata, non troppo diversa da quella che abbiamo letto nei due romanzi precedenti, ma non è la non la stessa; l’effetto è spaesante, sembra di rivedere tutto attraverso una lente deformante. Ritornano anche episodi raccontati ne Il grande quaderno, in questo caso personaggi considerati allora morti sono in realtà ancora vivi, altri dei quali non sappiamo nulla compaiono all’improvviso, sono ricordati i luoghi, ma sempre secondo un’ottica deformata, tutto procede per flashback, all’insegna di scambi di nomi e di personaggi, tutto appare menzogna. Menzogna negli affetti, nei ricordi, nelle ricostruzioni: non c’è salvezza per nessuno, adulto o bambino, uomo o donna. Si comprende meglio allora come in merito al film Brucio nel vento, che Soldini trasse dal suo romanzo Ieri, pubblicato nel 1995, Kristof abbia rimpianto fino alla fine dei suoi giorni il lieto fine voluto dal regista, ma da lei vivamente sconsigliato. Un romanzo di natura autobiografica sulle difficoltà e la disperazione di un gruppo di esuli fuggiti dall’Ungheria in Svizzera al momento dell’invasione sovietica; il lieto fine del film comporta il trionfo dell’amore e è stato è vissuto da lei –e giustamente? un tradimento della sua opera. Nota Trilogia della città di K. [Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna], Torino, Einaudi, 1998






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