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Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Mercoledì 10 Luglio 2013 19:51

di Franco Romanò

La profezia diventa sempre più genere letterario. L'utopia, sua moderna sorella, si trasforma nel Novecento in distopia cioè in utopia negativa mentre collassa il comunismo primo tentativo della Storia di un regno di Dio nell'al di qua. Che ne sarà nel futuro?

Bruegel, Il trionfo della morte, particolare

Profecy becomes more and more a litterary genre. Utopia, her modern sister, transforms itself (during the twenty century) into distopy, while communism, the first attempt to build the Paradise on the earth, collapses. What does happen in the future about it?

Die Prophezeiung ist ein literarisch Geschlecht. Die Utopie, der Prophezeiung die moderne Schewester, verendernet sich auf  die negtive Utopie, um '900, während der Kommunismus, der erste Versuch ein Paradies über die Erde erbauen, ist kaputt. Was sein wird ins Futur?

Introduzione

Quello profetico è sempre stato un genere letterario, anche quando – alle sue origini - prevaleva il suo contenuto religioso e visionario. La stessa Apocalisse di Giovanni nasce in un humus culturale pronto ad accoglierla e prima della sua ci sono le Apocalissi di Geremia e di altri. L'evoluzione nei secoli del genere profetico apocalittico ha dei risvolti assai interessanti, ma vorrei concentrarmi in particolare sulle trasformazioni nella modernità, che precipitano, nel secolo scorso, in una serie di opere emblematiche, molte delle quali appartenenti alla letteratura anglo-statunitense. La profezia perde sempre più il suo senso escatologico e religioso, per divenire opera visionaria, ma la vera e più profonda trasformazione è un'altra: mentre alle origini e pur passando attraverso visioni catastrofiche, le apocalissi promettevano la salvezza alla fine di immani sofferenze, nella modernità si afferma sempre più la distopia e cioè l'utopia negativa.

La svolta, nella storia della letteratura occidentale, avviene con L'Utopia di More, perché in essa compare per la prima volta l'idea che il riscatto dell'umanità non debba per forza avvenire alla fine dei tempi e quindi in una dimensione escatologica e metastorica, ma dentro la storia. Certo il luogo dell'isola che non c'è sembra rimandare all'indefinito, ma bisogna considerare pure che a metà del 1500 la Terra non era stata ancora del tutto esplorata.

 

Mito, profezia, utopia

Esiste affinità fra mito, profezia ed utopia? Se si risale alle origini dei primi due termini no; eppure, se si rilegge il testo di Thomas More alla luce delle passioni che ha suscitato nei secoli, allora si può a buon diritto parlare dell'utopia come di un vero mito della modernità, che ha spinto singoli individui e comunità, classi sociali e popoli a credere di potere realizzare il paradiso in terra e quindi attuare nella storia quello che la profezia rimandava nell'aldilà del tempo storico. Naturalmente gli intenti e i programmi degli utopisti furono diversi, seppure sia facile riscontrare alcune caratteristiche comuni; ma non è su questo che vorrei soffermarmi, bensì sui presupposti impliciti della loro azione.

Distinguerei allora tre diverse modalità, compresenti, sebbene vi sia stata una certa prevalenza dell'una o dell'altra in epoche diverse. La prima, molto aderente al modello di More, concepisce la terra di utopia come un altrove dove rifondare una nazione o una comunità. I Pilgrim's fathers imbarcati sul Mayflower intendevano l'America come una Nuova Inghilterra, cioè un luogo già noto ma da rifare secondo nuove regole. Questa modalità darà vita nel tempo a tentativi di varia natura e diversità: si pensi alle comunità dei mormoni oppure a quelle gesuitiche del Paraguay nel corso del 1600, ma anche alle comuni sessantottine. Contemporanea a questa e in alcuni casi precedente ad essa si faceva strada però la convinzione che il sogno di una comunità ristretta e perfetta nel mezzo di un mondo che continuava per la sua strada, non fosse auspicabile. In questo senso tutti i movimenti rivoluzionari, sia quelli a carattere religioso, sia quelli più squisitamente politici, che si sono succeduti a partire dalla ribellione di Lutero e Muntzer, ponevano tutti indistintamente l'accento sulla necessità di cambiare il mondo qui e ora, piuttosto che creare nicchie entro le quali vivere bene, anche quando facevano riferimento a visioni profetiche, come accadeva alle correnti più radicali e puritane della rivoluzione inglese del '600. Durante l'Ottocento, sulla scorta degli insegnamenti della Rivoluzione Francese e dell'Illuminismo, l'utopia socialista e poi comunista assume su di sé e rilegge questi modelli, tentandone la sintesi: il qui e ora coincide con la terra intera (la rivoluzione può solo essere mondiale), la sua realizzazione però deve avvalersi di un apparato scientifico che sappia interpretare le leggi fondamentali dell'evoluzione sociale. Da questo connubio nacque quello che Rita Di Leo ha definito l'esperimento profano. In sostanza, l'utopia, per potersi realizzare, andava trasformata in un mix di immaginazione, determinismo e passione; se c'è un mito che sta dietro questo melange, è quello di Prometeo, la cui figura verrà richiamata spesso nella pubblicistica comunista delle origini. Marx, tuttavia, era filosoficamente più prudente. Scrivendo degli esiti possibili della lotta di classe egli delineò la possibilità del verificarsi di uno scenario sorprendente: quello della rovina  di  tutte  le classi. L’affermazione non  evoca una sconfitta qualsiasi ma fa emergere la possibilità che via sia un limite della specie nel progredire. Al polo  opposto di questa affermazione, Marx ne collocava un’altra più celebrata: è quella in cui egli evoca la possibile fine della preistoria, intendendo con questa espressione l’affermarsi di una nuova era di civiltà superiore. In Marx, dunque, affiorava certamente la  convinzione della possibilità di un tertium, ma esso avrebbe potuto presentarsi sia sotto la forma  della realizzazione dell’utopia, sia sotto la forma della fine di ogni civiltà.

La domanda radicale cui non ci si può sottrarre oggi è questa: la crisi di civiltà cui siamo al cospetto e che ha le sue radici nella modernità non porta con sé anche la crisi dell'utopia, questa figlia a due facce del moderno? La mia risposta è no, tuttavia occorre ridefinirne gli orizzonti. Due mi sembrano infatti le talpe che hanno scavato la terra sotto i piedi dei movimenti rivoluzionari: la commistione, mai venuta meno, fra la ricerca di uno spazio libero e la volontà di dominio, che nella modernità si travestì con alcuni paradigmi della rivoluzione scientifica del 5-600. La ricerca di un altrove, in sostanza, si è sempre trasformata in conquista, sottomissione o addirittura genocidio perpetrati verso altri popoli, nonché in rapina dell'ambiente. Quanto alle regole presunte nuove, sebbene in alcuni casi lo fossero, valsero sempre e soltanto per il conquistatore, mai per chi già viveva su quelle terre secondo altre regole. E non poteva che essere così dalSchermata_2013-07-15_alle_12.17.22momento che oggi sappiamo fin troppo bene, dopo un secolo di psicanalisi, che nel tentativo di collocare in un altrove la soluzione di problemi, non agisce solo un spinta utopica, ma anche una profonda rimozione, frutto di un'angoscia che si ripropose una ventina di anni fa, proprio quando si parlò di fine della storia, nei programmi un po' grotteschi di costruire una stazione spaziale in orbita lunare, contenente fino a decine di migliaia di persone, avamposto di future migrazioni di massa dal pianeta: nel tempo la volontà di fuga, posta di fronte ai limiti dello spazio terrestre, si era trasformata in delirio!

Nel secondo caso, quello dell'esperimento profano, la coniugazione fra spinta utopica e pretesa scientifica di governare le leggi dello sviluppo sociale come se fossero deterministe quanto quelle delle scienze esatte, ha portato alla politica dei due tempi, dove per definizione, il secondo tempo non arriva mai. Curiosamente, l'esperimento  profano si è trovato così rigettato nella braccia di un avvenire profetico, religiosamente fuori dalla storia, seppure nel nome di una religione atea.

Qui e ora

Le trasformazioni subite dal concetto di tempo e da quello di spazio non hanno portato mutamenti rivoluzionari soltanto in fisica, ma hanno modificato anche il senso comune. Per quanto attiene allo spazio, l’esaurirsi di quello terrestre, ha fatto venire meno il concetto di infinito, che da un punto di vista psicologico ha voluto dire, per gli esseri umani venuti prima di noi, infinità dello spazio  terrestre e sua inconoscibilità. È nostro infatti, tipicamente moderno (almeno da un punto di vista psicologico), il concetto di infinito come infinità dello spazio  extraterrestre. Certamente per i fisici e gli studiosi era così da sempre, ma non per le persone comuni. Per queste ultime l’infinito era ciò che stava al di là di un certo confine terrestre: c’è bisogno di ricordare i molti miti al proposito? Basterà per tutti quello delle colonne d’Ercole, con tutta la sua ambivalenza psicologica dal  momento che tali colonne venivano associate contemporaneamente alla fine del mondo ma anche al mistero di ciò che sconfinava al di là e che veniva dunque sentito inconsciamente come uno spazio appartenente raggiungibile dall’uomo. Ed infatti il mito e la realtà si sono sempre fusi: Ulisse muore al di  là delle Colonne d’Ercole, trasgredisce perché supera una soglia oltre la quale inizia il mondo degli dei; ma questo mondo è lì, Ulisse poté metterci il piede. Ora che tutto lo spazio è stato  saturato e che l’orizzonte dei viaggi avventurosi è stato ormai del tutto esplorato,  questo altrove non esiste più, appartiene all’infinità degli spazi, proprio mentre i fisici scoprono che l’universo potrebbe anche essere finito. La questione del tempo è certamente più complessa, ma la pressione esercitata  dalla teoria relativistica unita alla paura della guerra nucleare, hanno minato la  convinzione che il tempo sia un’entità stabile e definita, una specie di sfondo di scena, uniforme e determinato. Se osservatori diversi, a velocità diverse hanno, percezioni diverse della realtà che li circonda, che ne è del tempo?  Che cosa  diventa  la realtà? Che cosa diventa il futuro? I mondi virtuali intuiti da Borges in certi suoi racconti possono diventare mondi  reali? Ma che cosa resta dell’utopia  dopo la perdita del futuro?

I miti furono le utopie del passato remoto; le utopie moderne si sono poste il problema di allacciare il presente al futuro e, non a caso esse  sono state, tutte, una mescolanza di sogno e di scienza.  Il comunismo, infine, pretendendo per se stesso il rango e lo statuto di scientificità ha portato a compimento il percorso che ha permesso all’utopia di porsi come scienza in atto della trasformazione sociale, cioè come prassi. Con l'esperimento l’utopia ha consumato il suo alone metafisico e si presenta come orizzonte estremo di una capacità tutta umana di proiezione, senza orpelli escatologici o palingenetici, senza aloni metafisici. La sua distinzione dalle religioni appare più netta, proprio perché anche l’utopia è diventata una cosa. C’è qualcosa nel destino dell’utopia  che corre parallelo al destino  delle arti: la poesia non è la scia lasciata  dagli dei agli uomini o meglio ad alcuni uomini eletti capaci di percepirne le tracce, bensì il canto delle cose terrene. L’utopia non è un’anticipazione del regno di dio in terra e neppure un modello di società futura desumibile da alcune regole proiettate in un futuro storico. Anche l’utopia è un canto? E di che? Non è forse il canto che sta sulla sottile linea di confine che separa i mondi diversi già compresenti nella nostra realtà? Perché  non è più possibile inventare altri mondi? Non è forse perché sono già tutti qui?

Soltanto nella  metamorfosi  possiamo  pensare l’utopia, perché mai come oggi il nostro tempo ed il nostro spazio sono diventati il qui e l’ora. Ripensare  all’utopia oggi significa da un lato prendere atto che viviamo già nella catastrofe, in secondo luogo che l’utopia non è più un altrove e neppure la simulazione di un  mondo  diverso. È possibile un pensiero della  metamorfosi? E che cosa significa? Il primo passo consiste, forse, nello spostarsi dai paradigmi della fisica a quelli della biologia e dell’organismo vivente. Tutte le utopie del  passato, in effetti, erano una  proiezione creativa di alcuni paradigmi della fisica classica.

Qui e ora va ripensata l'utopia, ma diversamente dal passato perché, anche la prima rivoluzione socialista, pur più matura di altri esperimenti utopici, ha accettato la subordinazione a paradigmi scientifici indebitamente traslati. Le deterministiche traiettorie newtoniane, con la loro freccia del tempo lineare sempre orientata in avanti, il dominio dell'umano su ogni aspetto della vita. Con la fine dell'esperimento profano, è rinato invece il paradigma della predominanza assoluta dell'economia su ogni altro aspetto della vita sociale. L'utopia di oggi, può vivere scommettendo sulla reversibilità di certi processi innescati dalla modernità. Si prenda per esempio, uno degli aspetti attuali del delirio di onnipotenza e cioè l'illusione di poter governare la vita sociale tramite le reti informatizzate. Nessuno aveva pensato che la loro diffusione massiccia crea un tale ingorgo nella comunicazione e un sovraccarico dei mezzi fisici che la veicolano, da rendere sempre più spesso vana la pretesa di risolvere i problemi in tempo reale! Ma ancora più grave: quanto più si pensa di potere risolvere tutti i problemi schiacciando un semplice bottone, tanto più si atrofizzano abilità basilari indispensabili alla sopravvivenza, venendo meno le quali si corre incontro a un degrado inarrestabile delle condizioni materiali di vita. E allora, per mantenere viva la speranza utopica occorre riscoprire tutto il rimosso della storia, tutto ciò che il rullo compressore ha schiacciato o lasciato da parte. Sono molti tali rimossi e la mia personale utopia risiede nella possibilità di un dialogo fra chi cerca in questa direzione, guardando a quei soggetti che tentano di riemergere dall'ombra in cui la storia li ha collocati: ai popoli originari della terra e alle loro culture, al meglio della ricerca faticosa delle donne che indica il marchio patriarcale che contraddistingue sia i modelli dominanti sia quelli che hanno cercato di opporvisi. L'utopia di oggi può rivivere solo distaccandosi dal modello prometeico, dalla velocità vertiginosa, dal calcolo, scegliendo invece il gratuito, la predominanza del valore d'uso rispetto al valore di scambio, la trasformazione intesa come metamorfosi, la cura, la sottrazione anche parziale ai ritmi di una seconda natura tutta umana e artificiale che vuole ricondurre sempre più la prima a propria schiava; fino alla vera e propria diserzione in casi estremi. Mi piace immaginare l'utopista del nostro tempo come un cultore di piccoli gesti: per esempio sapere conservare le sementi naturali e tenere vivo il sapere necessario a coltivarle; oppure praticare la via di mezzo buddista cioè l'incontro in un luogo mobile che sia di tutti, ma dal quale transitare senza farne il centro cristallizzato e immobile di una città ideale; oppure ancora, me lo raffiguro come una specie di monaco medioevale (ma senza la sessuofobia, la misoginia e la fede nel principio monoteistico degli ordini monacali), che sottrae alla furia distruttrice il sapere necessario a rifondare una convivenza. Infine lo vedo solitario ma disponibile all'incontro vero, poco incline al comizio, piuttosto intento allo studio, silenzioso e il più possibile invisibile.

La profezia come genere letterario

La trasformazione completa del canone profetico in genere letterario si compie pienamente nel secolo scorso, anche se vi sono precedenti illustri: Swift, per esempio. Tale compimento porta con sé un marchio del tutto particolare. La profezia diventa in realtà il veicolo grazie al quale approdare a generi diversi, sebbene affini: l'utopia negativa o distopia in primo luogo, ma anche la fantasy (da non confondere con la fantascienza in senso stretto) e persino Harry Potter e prima lo Hobbitt rientrano in questo spurio melange nel quale confluiscono molti elementi prima sparsi o disseminati in opere che avevano altri intenti. Mi soffermerò solo sul caso delle distopie, che mi sembra il più interessante di tutti, partendo da un interrogativo: perché nella letteratura del '900 le distopie hanno avuto maggiore impatto sui lettori che non le utopie (a parte il genere fantascientifico)? Perché  l’utopia è stata messa  alla prova: il comunismo, seppure non realizzato è stata l’utopia messa alla prova. Il suo progressivo fallimento è stato un esperimento in corpore vivi di trasformazione globale in senso utopico; l’esperimento è finito e se si riproporrà in futuro come istanza di liberazione dei dannati della terra, questo avverrà in altro modo.

Le distopie di Orwell, Huxley e Golding sono, sia una reazione alla pretesa di realizzare il paradiso in terra, sia la deriva di un pensiero nichilista che anticipa alcuni dogmi degli anni '80: l'inesistenza della società (Margareth Thatcher), il predominio dell'individuo sulla specie (Malthus rivisitato), la fine della storia (Fukuiama). Le distopie degli scrittori della generazione degli anni '30-40 del secolo scorso hanno dato forma sia allo smascheramento dell’utopia per mezzo del paradosso e del rovesciamento delle finalità, ma hanno anche indicato tendenze profonde e sotterranee (quando furono scritte), che si sarebbero evidenziate decenni più tardi. Le loro opere portano alle estreme conseguenze un percorso che Swift aveva  intuito fin dalla metà del Settecento e che nessuno dopo di lui aveva continuato in modo così coerente. Nel passaggio fra Inghilterra e Stati Uniti, si realizza una congiunzione maggiore fra distopia, scienza e fantascienza (Burroughs, Ballard, Vonnegut, LeGuin, Wallace).

Per introdurre un ragionamento conclusivo vorrei però citare il brano che segue:

"Sì, i paranoici, o meglio i paranoici-schizofrenici, dovrebbero costituire la classe di governo. Dovrebbe spettare a loro di sviluppare un'ideologia politica e dei programmi sociali, con la loro visione senza ostacoli delle cose. Mentre i semplici schizofrenici…" Ci pensò qualche momento… "Dovrebbero corrispondere alla classe dei poeti, anche se alcuni di loro dovrebbero essere visionari religiosi, così come alcuni ebefrenici. Gli eb., comunque, dovrebbero essere più inclini a produrre santi asceti, mentre gli schizofrenici quelli dogmatici. Quelli affetti da schizofrenia polimorfa semplice dovrebbero essere i membri creativi di questa società, quelli che  forniscono le nuove idee…"

Chi scrive è Philip Dick e il romanzo da cui è tratta questa citazione è Follia per sette clan e fu scritto nel 1964. 1 La visione allucinata ed estrema di Dick non è sostenuta da un'adeguata e altrettanto forte capacità narrativa, eppure nel ritrarre i suoi personaggi, è stato davvero profetico in alcuni libri. Una sintesi di ben altra forza e drammaticità è il romanzo La strada di Cormac McCarthy, che secondo porta alle estreme conseguenze l'uso di tutti gli strumenti che la fiction gli metteva a disposizione per riportare però nella concretezza storica.

Come mai proprio all'interno della cultura letteraria anglo-statunitense, abbiamo questo profluvio di visioni da fine dell'umanità, evocata peraltro anche nei continui e reiterati richiami dell'estremismo protestante all'Armageddon?

La mia risposta, parziale e cioè di parte, è molto netta: perché è un esito implicito di presupposti filosofici che si sono sedimentati nei secoli nella cultura anglo sassone e che non hanno avuto in quel contesto culturale veri e potenti contraddittori. Farò alcuni rapidi esempi. Da Hobbes a Berkeley, da Locke a Hume per approdare infine in pieno ottocento a Bentham e al già citato Malthus, l'empirismo costituisce il nucleo profondo della filosofa britannica. Nel passaggio da puro canone scientifico a utilitarismo economico  (Bentham, Malthus e poi Adam Smith), l'empirismo diventa l'etica pubblica che forgia il modo di essere della nazione inglese e ne fa un pilastro portante dell'identità nazionale e della politica imperiale. L'etica utilitarista e non quella protestante, come sosteneva Max Weber, sono l'ideologia capitalistica per eccellenza, mentre lo spirito protestante ha influenzato soltanto il nascente mercantilismo anseatico. Uno dei pilastri di questa concezione che vede in Adam Smith un economista-filosofo il suo esponente di maggiore forza e influenza, è la subordinazione della politica all'economia. Lo stato come comitato d'affari, non nasce in Marx come espressione filosofica e astratta, ma dall'osservazione dei comportamenti dello stato inglese. Il corollario è una sorta di anarchismo individualista che vuole ridurre al minimo ogni intervento pubblico e sociale. Bentham, per esempio, è anche considerato un anarchico e nazionalista. Egli fu il primo a parlare di diritti degli animali e cercò di introdurre una legge nel parlamento inglese che (siamo a metà '800), depenalizzava il reato di omosessualità; il che vuole anche dire che certe sensibilità possono benissimo coniugarsi con quanto c'è di peggio in altri campi. Insomma, Margareth Thatcher non si è inventata nulla, ma ha sintetizzato a modo suo, con la cultura e il livore che aveva, un pensiero che è profondamente radicato nel senso comune britannico.

E le distopie? Se Jung ha un minimo di ragione quando afferma che i grandi artisti fanno sentire a un'epoca ciò che più le manca oppure che sono premonitori (in questo senso si potrebbe dire anche profetici), cioè avvertono prima degli altri dove si va a finire, mi sembra del tutto normale che una società fondata sul principio hobbesiano dell'homo homini lupus, veda davanti a sé un destino di morte: è la vendetta dell'inconscio collettivo!1 Le edizioni più recenti delle opere di Philip Dick sono quelle di Fanucci, che ne sta ripubblicando l'intera opera. La citazione qui riportata è tratta dalla prima edizione, pubblicata da Mondadori nella collana Urania.

 

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