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Scritture antipatiche 4. La 'madre meccanica' di Dolores Prato PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 27 Febbraio 2015 00:00

di Adriana Perrotta Rabissi

'Giù la piazza non c'è nessuno' il romanzo di Dolores Prato è un percorso di conoscenza di sé e di riconoscimento di un'infanzia. Fu quello 'stridio di elementi materni' che la resero straniera all'intero mondo nominato nella confusione di tre lingue diverse.

'Nobody is in the square', Dolores Prato novel, is a quest inside the self and of  recognition in an infanthood.  It was the screeech of motherly elements that made her a stranger in a world puzzled in three different language.

'Niemand war in dem Platz'. Dolores Pratos Roman ist einen Initiationsritus. Die Protagonistin erkennt seine Kinderheit, wann die Quietschen von mütterlischer Elemente in einem Fremder  haben Inhen verwandelt. Die Welt war für sie eine Durcheinander in drei Sprachen gesprochen.



Infanzia, lingua materna e lingue straniere sono gli assi portanti del romanzo autobiografico di Dolores Prato Giù la piazza non c’è nessuno; le oltre settecento pagine del racconto costituiscono un percorso di conoscenza di sé e di riconoscimento di persone, ambienti, oggetti e paesaggi frequentati da bambina, un viaggio in un territorio ricco di insidie, di esperienze dolorose, di ricordi incerti, compiuto attraverso le tre lingue conosciute nell’infanzia in conflitto dentro di lei, perché obbligate a sostituire l’unica lingua che avrebbe dovuto accompagnare la crescita della piccola Dolores, la lingua della madre, mancatale fin dalla nascita per l’abbandono materno.

Le tre lingue sono il dialetto di Treja, conosciuto quando aveva già cinque anni, la lingua della ‘cultura’, insegnatale a scuola e la lingua parlata in casa degli zii, che differisce alquanto da quella parlata dagli altri abitanti di Treia per questioni di cultura e di classe sociale. Nulla viene detto del periodo tra la nascita e i cinque anni, nessuna lingua e quindi nessun ricordo.

Il titolo del libro è tratto da una filastrocca con cui la intratteneva la tata, è un’opera singolare, pubblicata quando l’autrice era quasi novantenne, ma ridotta a un terzo dell’originale per ragioni di fruibilità dalla curatrice per le edizioni Einaudi, una scrittrice sensibile e attenta come Natalia Ginzburg.

Dolores rifiutò la mutilazione del suo romanzo, protestò e si affrettò a redigere un nuovo dattiloscritto, corredato di un’Appendice autobiografica, che dichiarò fermamente essere l’unico autorizzato.

Fu pubblicato nella sua integrità solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1983.

Alle rimostranze rivoltele dal direttore dell’Espresso, che l’accusa di mostrare troppo rancore nei confronti di Ginzburg, risponde nel 1980:

"Alla Ginzburg sono sempre stata, lo sono e continuerò ad esserlo, gratissima. […] Lei ha sempre amato questo libro, con quelle manomissioni voleva renderlo più accessibile. Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro; i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati; lei riduceva più intellegibile il mio modo di scrivere; ma io preferivo tenermi i miei difetti. Avevamo ragione tutte e due". (1)

Divenne subito un caso letterario, soprattutto in considerazione dell’età avanzata dell’autrice, il che oscurò, come osservò allora acutamente Lalla Romano, il valore artistico dell’opera.

Non era il suo primo romanzo, Prato, insegnante di liceo, studiosa di Dante e Leopardi, aveva passato la vita a collaborare a periodici culturali e a scrivere racconti e romanzi, dopo essere stata allontanata dall’insegnamento dalle leggi razziali, ma questo è senz’altro la sua opera più importante.

La scrittura è marcata da scelte lessicali anomale, molti sono i neologismi formati da intrecci di parole tratte dalle sue tre lingue.

Nel racconto abbondano elenchi di piante, fiori, animali, descritti con puntiglio catalogatorio, liste di oggetti di uso quotidiano, nonché descrizioni di paesaggi e di persone, adulte e bambine/i, tutti elementi collegati a episodi particolari della sua vita di bambina, parole che attivano i ricordi, momenti di improvvisa illuminazione, di paura, di gioia, di sofferenza, di speranza, di illusione e delusione.

L’affastellarsi di parole- immagini serve a Prato per evocare e rappresentarsi la propria infanzia, segnata irrimediabilmente dal marchio dell’abbandono materno.

Chi legge è coinvolto/a nella ricerca dell’autrice, che tiene a bada in questo modo il pericolo di smarrimento soggettivo indotto dal sentimento di inappartenenza e di mal-aimé provocato dall’esclusione dalla famiglia di origine, osserva l’autrice nell’Appendice:

“Non mi fu dimostrato amore, non imparai a dimostrarlo. Ho diffidato dell’amore dopo, perché non lo ebbi allora”. (2)


Prato nasce nel 1892 da una relazione extramatrimoniale della madre, che nei primi giorni non vuole neppure essere citata nel documento dell’anagrafe, qualche giorno dopo la riconoscerà dandole il proprio cognome, ma la metterà per un breve periodo in brefotrofio, fino ad affidarla a una famiglia di contadini.

Viene poi mandata a cinque anni a Treja, dagli zii, già anziani, che la ospiteranno fino ai diciotto anni, lo zio prete, di mentalità aperta, anticonformista, di formazione illuministica, in conflitto con la ristrettezza mentale del luogo e la sorella che gli fa da perpetua, donna fredda, che le presta le cure indispensabili, con distacco, misto a fastidio, senza affetto, le uniche carezze saranno quelle delle domestiche.

L’autrice dice di sé nell’appendice al romanzo:

“E io che fui? Una bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa[…]una bastarda, dirà chi la guarda dal disincanto. Bastarda integrale dico io, non solo per il concepimento, per la nascita in un nascondiglio segreto[…]non solo per la mia dimora, sia pure breve al brefotrofio, ma per tante altre cose. Intanto preparata da un illuminista quale era mio zio, per formarmi a modo suo, fui invece soffocata dall’educazione cattolica. Spuntata da un ramo di antichissima nobiltà, innestato con un poderoso ramo israelita, io che sono? […] Quel bocciolo di melanconia che era dentro di me sin da piccina, spuntava dal plurimillenario dolore ebraico. Io sono una commistione di ebraismo e cristianesimo […] sono una bastarda anche religiosamente: cresimata ma non battezzata”. (3)

L’infanzia è il tempo in cui si formano le categorie di interpretazione e di attribuzione di senso al mondo e a se stessi, categorie solitamente mediate dalla lingua materna.

Sostituto della lingua materna è il dialetto di Treja, che per altro Dolores conosce a cinque anni, un dialetto parlato dai piccoli amici e amiche, dalle domestiche che l’hanno coccolata, tra cui quella che Dolores chiama “Scolastica delle scantafavole”.

Lingua materna di seconda scelta, quindi, tuttavia sorgiva di parole-casa, parole-mondo, nelle quali avvolgersi come in un manto caldo e protettivo.

Quando entra in collegio Dolores è obbligata a parlare l’italiano scolastico, la lingua conforme al modello adottato (con miopia) dal nuovo Stato, una lingua imbalsamata rispetto all’espressività dei dialetti e del parlare comune, che vive nei libri piuttosto che nelle menti delle persone.

Ecco un esempio di come Prato fa interagire tra loro le parole appartenenti alle diverse lingue:

“Per me poi sulla parlata c’era un altro confine, un vallato profondo, ed era la nostra casa dove si parlava così bene come in nessun’altra casa[…] Solo Eugenia dentro casa nostra diceva prescia, noi dicevamo fretta, […]Noi dicevamo quercia, poveri e contadini dicevano cerqua; per me era più facile dire quercia e non capivo quella loro fatica inutile”. (4)

Eventi linguistici e abbandono da parte della madre diventano l'asse intorno al quale ruota l'intero romanzo. Basti qui rammentare le frasi di apertura:

”Sono nata sotto un tavolino Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto ‘Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?’ Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo. Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori”. (5)

Qualche pagina dopo questa riflessione la scrittrice parla del suo rapporto con la madre:

“Madre è quella che smette di leggere per rispondere ai perché, madre è unicità, sicurezza e appoggio fisiologico […] Con lei dovevo restare. Invece un sollecito trasferimento mi portò tra i neonati ripudiati, un biberon diventò il mio elemento materno […] Quando la madre meccanica mi riprese, dissi 'mamma' a lei. Però mi aveva ripresa non per tenermi, ma per ripulirmi e portarmi a Treja dove, era convenuto, mi avrebbe appiccicata agli zii […] Madre è realtà fisiologica e affettiva; io ebbi lo stridio di una tastiera di elementi materni, tutti discordi tra loro. La parola[mamma]trionfò sui libri di lettura della scuola, uno smammolato termine letterario. Meglio le 'guerre puniche' e l’inno di Garibaldi”. (6)

Alla madre meccanica, pura e semplice 'facitrice' come dice Prato, si aggiunsero la balia e la zia. Tre persone diverse da dover nominare con la parola mamma. L'esito, nella soggettività in formazione della piccola Dolores, fu quello 'stridio di elementi materni', che la resero straniera all'intero mondo nominato nella confusione di tre lingue diverse; infatti Prato definisce con le seguenti parole la distanza tra dialetto e lingua degli zii: “Per la pronunzia, per la scelta dei vocaboli, eravamo quello che è la Repubblica di San Marino: uno stato a parte”. (7)

Il romanzo proverà a mettere ordine in questo caos.

Per 741 pagine Dolores racconta, descrive, ricorda ( e lei stessa riflette ironicamente sulla arbitrarietà della ricostruzione dei ricordi) fatti, episodi, sensazioni, personaggi che hanno popolato il suo mondo di bambina.

Il suo procedere nella ricerca è caratterizzato da un ritmo e un respiro più poetici che narrativi, a causa delle frequenti illuminazioni improvvise, che si accumulano ossessivamente alla ricerca di un senso.

Non fu colta, neppure al momento della pubblicazione integrale, la cifra stilistica così originale se non da pochi e poche critici/che, e non si può certo dire che la sua scrittura abbia attirato grandi simpatie tra lettori e lettrici.

Troppo azzardata, troppo complessa, troppo raffinata, troppo lunga, in qualche modo antipatica.

Prato conobbe così un'ulteriore condizione di straniera perché si verificò anche per lei quello che è sovente capitato alle scrittrici italiane, le cui scelte stilistiche e tematiche, consapevolmente al di fuori delle categorie interne alle convenzioni letterarie, sono state scambiate da un pubblico disattento per inadeguatezza.

Dentro quelle convenzioni non è facilmente accettabile che sia una donna a intraprendere percorsi di ricostruzione della propria soggettività, soprattutto se lo fa attraversando il linguaggio, perché nello stereotipo del sistema letterario, almeno fino alla prima metà del Novecento (ma anche oltre), le donne scrittrici sono confinate nella sfera espressiva del mondo dei sentimenti, in qualche modo escluse dal territorio delle invenzioni e novità stilistiche e formali.

 

Note

1 Elena Frontaloni, Giù la piazza non c’è nessuno, in “Quodlibet”, qui

2 Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Milano, Mondadori, 2001, p. 739

3 Giù la piazza, cit. p. 741.

4 Giù la piazza, cit. p.195

5 Giù la piazza, cit. p. 3

6 Giù la piazza, cit. p. 23

7 Giù la piazza, cit. p.195

 

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