di Claudia Mazzilli
Claudia Mazzilli legge la poesia di Gloria Anzaldua, poeta ancora poco nota in Italia, all'incrocio tra poesia epica e denuncia di sessismo, classismo, razzismo.Gloria Anzaldúa, Terre di confine / La frontera. La nuova mestiza, Black Coffee edizioni, 2022
[...]
Cuando vives en la fronterala gente ti cammina attraverso, il vento ti ruba la voce,
sei una burra, buey, capro espiatorio,
anticipatrice di una nuova razza,
mezza e mezza – sia donna che uomo, né l’una né l’altro –
un nuovo genere;
[...]
Nelle Terre di confine
sei il campo di battaglia
dove i nemici sono parenti fra loro;
sei, a casa, una straniera,
le dispute di frontiera sono state risolte
la raffica di colpi ha infranto la tregua
sei ferita, dispersa in azione,
morta, rispondi ai colpi;
[...]
(Vivere nelle Terre di confine significa che, pp. 265-66)
Una scrittura radicata nella coabitazione di più mondi in continua transumanza, nei graffi e nelle ferite aperte dalle quasi duemila miglia di filo spinato tra Messico e Stati Uniti. Una narrazione di resistenza a qualsiasi stigma (razzismo, classismo, omofobia) ma anche una poesia della trasformazione psichica, del passaggio, dell’abbandono degli ormeggi, che dà coraggio a chi ha superato i confini di ciò che è presunto come “normale”.
Una prosa-poesia intima ed epica insieme, che sa ripetere incantesimi per suscitare amore nella donna amata, ma sa anche fotografare lo sfruttamento, la povertà, le diaspore dei reietti tra le terre di confine, come sa perdersi nei vapori impalpabili ma non meno veri dell’immaginazione, quando recupera con orgoglio queer alcune suggestioni androgine dai miti dei nativi, o quando attinge alle simbologie arcaiche delle antiche divinità femminili precolombiane relegate in un’oscurità mostruosa e sinistra, prima dalla cultura azteca in fase di patriarcalizzazione, poi da quella cattolica dei conquistatori europei, che alle antiche dee ha definitivamente sostituito la Vergine di Guadalupe. E ogni volta che invoca le dee, Gloria intona un canto di resistenza alla cultura etero-patriarcale, suprematista, violenta e guerrafondaia, ma soprattutto si riconnette con le sue origini indie.
[...]
L’ultima volta mi condannasti
a questa pena:
anni e anni di tua assenza.
Che grande rinuncia
mi hai chiesto.
E ora per tutte le terre lacerata ti cerco.
Antica, la tua figlia errante non può raggiungerti.
Dammi un altro segno
un’altra briciola della tua luce.
La mia pelle in fiamme desidera conoscerti.
Antica, mia dea, voglio nascere un’altra volta
nella tua nerissima pelle.
(Antigua, mi diosa, p. 257)
Insomma,
Borderlands / La frontera. The new mestiza (1987), l’opera più importante di Gloria Anzaldúa, è un amasamiento (un atto di impastamento che annulla in sé qualsiasi definizione basata su purezza e antinomie binarie): nata nel 1942 nella valle del Rio Grande (Texas meridionale) e scomparsa nel 2004 a Santa Cruz (California), discendente di indigeni americani e coloni spagnoli, Gloria è stata poeta e teorica del concetto di frontiera, oltre che docente di Scrittura creativa e Studi chicani e di genere in varie università americane. La sua scrittura passa senza sosta dalla prosa al verso: contiene la narrazione distesa incline all’autobiografia e al saggio storico e l’illuminazione lirica dell’io più privato, ma anche i proverbi del suo popolo e le citazioni dei versi di altri poeti e altre poete. Gloria infatti parla di autohistoria o autoteoría, per non farsi ingabbiare negli schemi dei generi letterari delle culture che l’hanno colonizzata. E per non farsi stritolare dalle tassonomie che distinguono tra lingua alta (dei dominatori) e lingua bassa (degli oppressi):
“Fino a che non sarò libera di scrivere in forma bilingue e di passare da un codice all’altro senza dover sempre tradurre, fino a quando sarò costretta a parlare inglese o spagnolo pur preferendo parlare spanglese, e fino a quando dovrò adattarmi ai parlanti inglese senza che loro accolgano me, la mia lingua sarà illegittima. Non lascerò più che mi si faccia vergognare della mia esistenza. Avrò la mia voce: india, spagnola, bianca. Avrò la mia lingua di serpente – la mia voce di donna, la mia voce sessuata, la mia voce di poeta. Supererò la tradizione di silenzio.” (pp. 84-85)
In quanto messicano-americana di settima generazione, in quanto nuova mestiza (meticcia), in quanto lesbica, Gloria ingaggia un suo personalissimo corpo a corpo con tutte e tre le culture (bianca, messicana, indiana); le credenze della cultura bianca confliggono con quelle della cultura messicana ed entrambe erodono quelle della cultura indigena.
“Essere scrittrice è come essere chicana, o omosessuale – un bel po’ di contorcimenti, uno scontro con muri di ogni tipo.” (p. 100)
“Lo stress del vivere con un’ambiguità culturale mi spinge a scrivere e nel contempo mi blocca [...]. Questo lavoro, queste immagini, questa lingua o questi lobi d’orecchio traforati con spine di cactus, sono le mie offerte, sono i miei sacrifici aztechi di sangue.” (p. 102-103)
L’opera di Gloria, che in Italia cominciò ad essere apprezzata grazie alla traduzione del 2000 a cura di Paola Zaccaria per l’editore Palomar (ormai introvabile), torna disponibile al pubblico italiano nella nuova traduzione di Paola Zaccaria per la casa editrice Black Coffee (
G. Anzaldúa, Terre di confine / La frontera. La nuova mestiza, Black Coffee edizioni, 2022, pp. 300). In questa edizione la scrittura mistilingue di Gloria per le parti in inglese è tradotta in italiano, mentre sono rimaste in lingua originale le parti in spagnolo, con l’intento esplicito di far rivivere a chi legge la sospensione liminale tra due lingue e tra due mondi. Come spiega la stessa Paola Zaccaria nella postfazione, si tratta di una traduzione dichiaratamente militante, fondata su “un sapere critico del confine ispirato proprio all’attivismo transnazionale
no border wall chicano, a partire dall’odierna consapevolezza dello statuto di
border crosser dei migranti che dal Sud del mondo arrivano nel mio Sud, qui in Italia, e che proprio come nei territori di frontiera americani, sono etichettati come «illegali» e soggetti a razzializzazione” (p. 283): dallo sbarco degli albanesi negli anni Novanta (ai tempi della prima traduzione) alla spinta migratoria dalle coste nordafricane di oggi, la traduttrice porta nel testo un timbro ancora più consapevole e solidale.
È uno dei tanti buoni motivi per leggere Gloria Anzaldúa in Italia: questa lettura, che è una denuncia dell’artificialità di ogni confine aereo, acqueo, terrestre, ha un effetto “smurante”. Perché il primo muro da demolire è quella degli schermi delle nostre televisioni e dei nostri smartphone, su cui scorrono le narrazioni stereotipe degli arrivi e dei naufragi dei migranti, o dello sfruttamento di coloro che non sono respinti. Narrazioni costruite sulla ratifica dell’esistente, sull’obsolescenza e sull’oblio, sull’auto-assoluzione delle colpe dell’Occidente.
Gloria invece non vuole dimenticare; lei stessa fu attivista dei diritti dei lavoratori agricoli, come si deduce da alcuni suoi componimenti. Gloria vede la fatica del lavoro della terra, la vede incisa nei volti dei contadini, che hanno i tratti indi che lei riconosce in sé stessa allo specchio, lei che, grazie allo studio e al lavoro di insegnante, ha potuto “sconfinare” socialmente, come bell hooks, sentendosi però sempre mezza e mezza.
La poesia di Gloria sembra nascere, in forma corale, da chi canta mentre lavora la terra:
[...]
inventa los versos mentre
pianta lungo i filari
zappa lungo i filari
raccoglie lungo i filari
il coro risuona per acri e acri.
Ognuno aggiunge una strofa
il giorno va avanti un po’ più veloce.
[...]
(Sus plumas el viento (per mia madre Amalia), p. 150-151)
Ma non c’è nulla di arcadico, nulla di edenico e bucolico in questi testi poetici. Testi in cui affiora il sudore delle schiene bagnate, dei messicani transfrontalieri, quelli che vivono l’epico ritorno all’antica Aztlán (la patria da cui gli Aztechi, molti secoli prima, si mossero verso sud in progressive migrazioni): la terra madre che non li vuole più, che li respinge al di là del Rio Grande. O che li sfrutta. O peggio ancora: una patria che li respinge dopo averli sfruttati. Un testo esemplare è El sonavabitche (cioè son of a bitch: figlio di puttana): qui Gloria ci descrive le baraccopoli, gli accampamenti dei migranti. Il sonavabitche, il datore di lavoro, li fa lavorare dall’alba al tramonto – a volte 15 ore. Non ha pietà se chiedono un giorno di pausa per pregare e riposarsi. Trattiene metà del loro salario con la scusa che hanno mangiato le scorte o una parte del raccolto. Ma quando arriva il giorno di paga irrompe la migra, cioè la polizia di frontiera, collusa con gli sfruttatori: i lavoratori saranno espulsi senza essere pagati per il loro lavoro.
[...]
Como le dije, son doce – partirono in 13
cinque giorni stipati nel retro di un pick-up
seduti stretti
una corsa veloce non-stop attraverso i confini
se non per cambiare autista, per fare benzina
niente cibo pisciavano nelle scarpe –
quelli che avevano guaraches
dormivano buttati l’uno sull’altro
sabe Dios dove cagavano.
Uno di loro soffocato a morte nel viaggio verso qui.
Signorina, avreste dovuto vederli quando
rotolarono fuori.
La prima cosa che fece il sonavabitche fu premersi
un fazzoletto sul naso
poi gli ordinò di spogliarsi
lui stesso li innaffiò con una pompa
davanti a tutti.
[...]
Como le estaba diciendo,oggi era giorno di paga.
Li ha visti, la migra ha fatto irruzione
agitando le loro pinche pistolas.
Hanno detto che qualcuno aveva fatto una telefonata,
come si dice? Anonima.
Indovina chi? Quel sonavabitche, chi altri?
È successo tre volte da quando siamo qui
Sepa Dios quante volte nel frattempo.
Wetbacks, lavoro a costo zero, esclavos.
[...]
(El sonavabitche, pp. 164-65)
Leggere e rileggere Gloria Anzaldúa: abbandonare qualsiasi approccio esotico. Terre di confine ci dà nuovi occhiali, corregge la nostra presbiopia e, da quei luoghi lontani, ci permette di vedere meglio quel che è vicino, le nostre campagne, la frutta e la verdura dei nostri supermercati, le periferie, i ghetti. Non riesco a leggere in modo neutro Gloria Anzaldúa vivendo in una regione agricola, la Puglia, flagellata dal caporalato: da San Ferdinando di Puglia, a Nardò, e in generale in un Sud dove muoiono di fatica, insolazione e violenza sia i lavoratori immigrati sia le lavoratrici italiane (come Paola Clemente, nel 2015, nelle campagne di Andria), riproponendoci tante questioni irrisolte su razza, genere, classe. Come non pensare, leggendo
El sonavabitche, ai fatti terribili di Rosarno, nel Sud della Calabria, dove il 7 gennaio 2010 si scatenò una vera e propria “caccia al nero”: una vicenda che aprì la strada alle leggi anti-caporalato ma, ancora nel 2019, il giovane sindacalista Soumayla Sacko, che lottava per paghe e condizioni abitative più dignitose per i braccianti della piana di Gioia Tauro, fu assassinato con quattro colpi di fucile.
La resistenza di Gloria Anzaldúa alla rimozione storica ha molto da insegnare qui in Italia, un paese dove si scomodano le categorie di “episodio isolato”, “violenza inaudita”, “raptus”, “barbarie senza precedenti” ogni volta che si consuma la morte violenta di qualche migrante, come nel caso di Agitu Gudeta, l’allevatrice di capre autoctone, ambientalista e imprenditrice, arrivata in Trentino dall’Etiopia, assassinata nel 2020. O ancora: la morte di Alika Ogorchukwu, l’ambulante nigeriano aggredito in strada a Civitanova Marche nell’estate scorsa. Come possiamo parlare di “episodi isolati” in un paese che non ha mai fatto davvero i conti con il suo recente passato coloniale e in cui si insegna la storia in modo eurocentrico, non senza conseguenze sul livello del dibattito sull’immigrazione, spesso strumentalizzato a scopi elettorali, e sulla percezione che ne ha l’italiano medio?
Gloria dà voce a reietti di ogni sorta, per qualsiasi motivo siano inferiorizzati: razza, genere, classe, orientamento sessuale. Eppure, mentre scrivo queste righe, temo di tradirla, di semplificarla. Fu una delle sue maggiori preoccupazioni: “Una lesbica femminista del terzo mondo incline al marxismo e al misticismo. Mi frammenteranno e ad ogni pezzo daranno un’etichetta”.
Ma, scrive Gloria, “la capacità della storia (sia essa in prosa o in versi) di trasformare il narratore e l’ascoltatore in qualcos’altro o qualcun altro è di tipo sciamanico. Lo scrittore, in quanto proteiforme, è un nahual, uno sciamano” (p. 95).
Riconoscere il potere trasformativo e dinamico delle culture degli oppressi: questo è un atto de-coloniale. Con questa mia aspirazione imperfetta, non ancora esente da ingenuità, forse da persistenti e inconsapevoli stereotipi, leggo Gloria Anzaldúa. Ogni pagina è un ponte, un orizzonte nuovo. Ogni rilettura un attraversamento.
Per approfondire: