Pagina 1 di 7 di Luca Lenzini
L’intervento che segue compare per concessione della rivista IL PONTE rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei e dello stesso Luca Lenzini autore del saggio nel numero di aprile 2009.
1. Ventiquattro anni sono passati da quando, nel 1984, «Quaderni Piacentini» cessò le pubblicazioni, quaranta dal momento della sua maggiore diffusione, quel Sessantotto di cui è testé ricorso il macabro anniversario. E quali anni: tali da cambiare lo scenario (sociale, culturale, economico) cosi in profondità, nel nostro paese come altrove, al punto che non solo le persone ma tutto un insieme di categorie, nozioni acquisite, schemi e elaborazioni di ordine intellettuale sembrano ormai non tanto invecchiati quanto irriconoscibili, come quei convitati alla matinée dei Guermantes di cui parla l'ultimo tornante della Recherche. Eppure, ancora oggi, se qualcuno nomina Bellocchio non c'è scampo: subito scatta l'associazione con i «Quaderni Piacentini».
Luca Lenzini (Firenze, 1954) ha dedicato studi e commenti all’opera di Vittorio Sereni, Franco Fortini, Guido Gozzano, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci, Alessandro Parronchi ed altri autori novecenteschi. Dirige la Biblioteca della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Siena ed è membro del Centro studi Franco Fortini [scheda biografica tratta dal sito della casa editrice Quodlibet].
Piergiorgio Bellocchio (Piacenza, 1931) scrittore e critico letterario, è stato fondatore nel 1962 della rivista Quaderni Piacentini, che ha animato fino alla chiusura. Nel 1966 ha pubblicato la raccolta di racconti I piacevoli servi. Nel 1969 è stato il primo direttore responsabile del giornale Lotta Continua, organo ufficiale dell’omonima formazione extraparlamentare. Dal 1977 al 1980 ha diretto la casa editrice Gulliver di Milano; nel 1985 ha fondato, con Alfonso Berardinelli, la rivista letteraria Diario. Sue prose critiche sono raccolte in Dalla parte del torto (Einaudi, Torino 1989). Del 1995 è L’astuzia delle passioni 1962 – 1983, Milano, Rizzoli, una raccolta di articoli e saggi. Del 1996 sono Oggetti smarriti (Baldini Castoldi Dalai, Milano) sempre di critica letteraria. Al di sotto della mischia. Satire e saggi, Scheiwiller, Milano, è del 2007. [Integrazione della nota che compare su Wikipedia].
Perché stupirsi, si dirà. La rivista non l'ha fondata e diretta lui, insieme a Grazia Cherchi? Non ne è indiscutibile l'importanza per la formazione della "nuova sinistra", e più in generale per il rinnovamento della cultura italiana in quegli anni? E non lo è anche la sua indipendenza da partiti e conventicole, memorabile eccezione tra le pubblicazioni italiane di cultura? Non vi hanno collaborato, infine, i migliori ingegni del periodo?
Tutto vero: il "mito" dei «Quaderni» ha solide fondamenta, e solo chi è prevenuto — oppure è uno dei tanti torvi o giulivi ravveduti della "generazione del Sessantotto" - può disconoscerlo. Nondimeno, quando l'intervistatore o il recensore di Bellocchio attaccano la solfa, ogni volta con la storia della rivista, con le rievocazioni di maniera, gli episodi e le polemiche e gli slogan del tempo che fu, è difficile non avvertire che così facendo si prepara il lettore a consumare un personaggio, e che a sua volta questa operazione, con l'annesso elogio dell'"eretico", dell'"irregolare" e "anticonformista", è la premessa per falsare, ridurre e infine neutralizzare il nucleo più scomodo della scrittura di Bellocchio, la cui ironia non vuol essere né un gioco intellettuale, né un esercizio di disincanto per cinici a corto di battute, bensì una forma di denuncia. Falsare e ridurre: perché il radicalismo di Bellocchio ha uno spessore e un albero genealogico le cui matrici si situano ben oltre il periodo in cui si è soliti fissarne i contorni. Neutralizzare: perché lo storicismo di stampo ebdomadario e la seduzione del ritratto (e lo stesso mito dei «Quaderni»), con quel tanto di stereotipato e seriale che è di certe presentazioni, sono come i jingles che accompagnano la promozione del prodotto, sortilegio fasullo e conciliante, complice dell'oblio. Ma i libri di Bellocchio hanno un loro modo di tirar dritto, e di — si può dire? — desintonizzarsi dalle facili musiche dell'industria culturale: sono consapevoli che, per questo, c'è un prezzo da pagare, una specie di tacito esilio, ma è proprio dei modi dell'oblio indotto e coltivato, della faconda dimenticanza e delle sue mirate rimozioni che vogliono parlarci. E se riescono a farlo, sarà forse perché, quanto più sono composti di frammenti legati al tempo e rivolti al contingente, tanto più sanno di avere dalla loro quel che all'industria culturale è geneticamente negato: la durata, a sua volta inseparabile dallo stile (decrepita, o meglio arcaica parola che l'opera di Bellocchio ci richiama con ostinazione alla mente).
Il libro, il sesto dell'autore lungo oltre quarant'anni, s'intitola Al di sotto della mischia, (sottotitolo Satire e saggi). Come esplicitato dal testo omonimo (p. 180), il titolo è una citazione da Norberto Bobbio, che in un'intervista del 1993 dichiarava appunto, a sua volta variando un titolo di Romain Rolland (Au-dessus de la melée, 1914), di sentirsi ormai «al di sotto della mischia», in quanto appartenente alla «generazione degli sconfitti». Ora Bellocchio, nato nel '31, non appartiene alla generazione di Bobbio (anche se in lui sembra abitare da sempre un antenato di se stesso); sente però di condividerne il pessimismo di fronte alla «catastrofe» del paese. La trafila delle citazioni evoca dunque il tema civile ma, allo stesso tempo, prende atto che quel tema è sotto scacco ed è solo coniugabile in negativo e in termini paradossali. Titolo azzeccatissimo, perciò; e a chi osservasse che, sopra o sotto, la prospettiva è pur sempre di chi si distanzia dalla melée, andrà spiegato che in verità, anche se vi si parla senza remore di «sfiducia e stanchezza, pessimismo e acciacchi» (ibid.), non c'è nulla di estenuato o fiacco in queste pagine, né lo sguardo che le muove è di chi si tira fuori, rinuncia o abdica. Occorre piuttosto, per cogliere il piano su cui si pone quello sguardo (e la piega amara dell’humour che l'attraversa), capire il senso e la profondità della sconfitta2, che coinvolge non una ma diverse generazioni e non è tanto del ceto intellettuale (che si sa nel nostro paese abilissimo nei travestimenti e nei galleggiamenti) ma di chi sta "in basso"; di quelli che, come scriveva Mark Twain (riprendendo il Vangelo: Mt 4, 16),. «siedono nelle tenebre3». Se il saggismo di Bellocchio presuppone l'individuo isolato, non avrebbe infatti trovato la sua forma senza un solido ancoraggio agli sconfìtti, ai silenziosi e ai dimenticati: ecco perché per prima cosa, contro gli ammiratori di tanta sua ironica "cattiveria4", è opportuno richiamare il fondo grave di questo scrittore, la sua appassionata e indocile parrigianeria. Un epigramma (o si potrebbe dire "rifacimento") che si legge in Dalla parte del torto è anch'esso di derivazione evangelica (Mt 5, 6) e recita: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno giustiziati».
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