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2. Ho appena parlato di "forma". Il termine può sembrare strano o forzato per libri come quelli di Bellocchio, che accolgono frammenti diaristici di varia consistenza, prose polemiche e narrative, interventi di ambito letterario e storico, notazion i di costume, aforismi. Data anche la scarsa attenzione loro tributata — il che è illuminante, di per sé, su cosa sia la critica, oggi — merita dare un'occhiata, sia pur rapida, al modo in cui essi sono organizzati, allargando il discorso.
Proprio a partire da Al di sotto della mischia, uno dei pochi interpreti di Bellocchio, Gianni D'Amo6, ha osservato che è tipica dell'autore una certa resistenza alla stessa forma-libro. Non lo testimonia solo il fatto che tutti i suoi libri sono raccolte di testi pubblicati in precedenza, ma — a me sembra — la diversa struttura che essi, pur sempre composti del medesimo "materiale" (interventi su rivista), possono assumere: per esempio, mentre L'astuzia delle passioni7, del '95, è interamente composto di articoli e saggi apparsi tra il 1962 e il 1983 ordinati in senso cronologico, Eventualmente ('93) dispone alfabeticamente in base al titolo i suoi pezzi, marcatamente miscellanei ma in larga prevalenza brevi, con il deliberato intento di sottolineare l'arbitrio della struttura complessiva e smentire, così, la suggestione di «qualsivoglia intenzione o disegno», evitando al lettore «il fastidio di cercare quel che non c'è» (p. 8). Si potrebbe obiettare che proprio l'arbitrio dell'ordine comunque imposto finisce per contraddire la natura dei testi (lo status erratico del frammento), interferendo con il loro legame con il tempo, cosi come, per converso, il lettore di Dalla parte del torto che affronta a ritroso l'Astuzia può rimpiangere, in quel libro, che pur annovera tanti memorabili interventi9, la minor presenza di dislivelli e scarti e la tipologia ortodossa, meno personale, dell'impianto. Di fatto, una sorta di fluidità sembra appartenere alle raccolte (tanto che uno stesso testo può circolare da una all'altra): estro, occasione, discontinuità, casualità, mescolanza di generi sono gli elementi che, in una dialettica aperta di concentrazione e dispersione, ne sostanziano la forma, dando il tono all'insieme.
Il luogo in cui questa dialettica si palesa in pieno, quasi esplodendo, è Dalla parte del torto, i cui testi (pubblicati su «Diario») risalgono tutti alla seconda metà degli anni ottanta: è il periodo in cui, scrive Bellocchio neIl'Avvertenza, «credevo di aver toccato il fondo del pessimismo10». Credeva: ma, quanto al fondo, è sempre possibile, si potrebbe aggiungere dalle vette del nuovo Millennio, di andare ancora più sotto, e anche la forma deve prenderne atto, l'ironia regolarsi su un tempo diverso. A conferma dei versi di Saba (da Per una favola nuova), l'anacronismo si trasforma in principio esistenziale:
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p style="text-align: justify; ">Ogni anno un passo avanti e il mondo dieci
indietro. Al fine son rimasto solo.
Cosi se in Dalla parte del torto le ferite del presente e del passato prossimo ancora bruciano, e la «pappa del tempo», per usare un'espressione di Anders, è così repellente da esaltare, in qualche modo, la reattività dell'autore, stimolando la parodia e l'istinto polemico (il libro va riletto oggi, per capir meglio cosa son stati quegli anni), poi la solitudine diventa tale che la distanza tra l'io e il mondo modifica la prospettiva, diminuendo l'cscursione stilistica dei frammenti. In Al di sotto della mischia più accentuatamente che nei libri precedenti, il tono generale - non solo il titolo - rinvia a una condizione di sommerso: questo, si direbbe, lo stato in cui si levano la protesta ironica e il gesto di sarcastica insofferenza di Bellocchio, che se ora è più incline alla notazione diaristica, e meno al tagliente aforisma, non per questo attenua la pregnanza e l'efficacia dei suoi testi: anzi. Il peso di una massa informe e tranquillamente eterodiretta, incurante e soddisfatta grava su chi è au-dessus e reagisce per rispetto di sé e degli altri sommersi: nell'ironia è perciò un presagio di ultima spiaggia, di margine estremo e quasi un'aria da epitaffio; alle sue battute, che tali non sono ma conclusioni di un ragionamento, si ride sapendo che c'è poco da ridere.
Stare di sotto è anche stare con i fantasmi, soggiornare nei pressi dell'outre-tombe. Ora come sempre, tuttavia, la scrittura non ha alcunché di scomposto; è ferma e limpida, e recalcitra a ogni forma di cooptazione da parte di chi sta sopra, poiché la cultura di cui è nutrita non prevede di opporre al discorso dominante (o meglio incomb ente) una retorica sgargiante, né seducenti e sfarzose metafore, bensì la chiarezza e l'asciutta intelligenza, che con poche parole bastano a smontare la trionfante sicumera dei vincitori. Può sì capitare che, a questo scopo, il discorso esiga talora un più ampio respiro, come in Chi perde ha sempre torto (del '91, sul processo contro «Lotta continua» per l'omicidio Calabresi), a fungere da testimonianza e da requisitoria contro la storia riscritta e mistificata, o che sia la figura di Pasolini, magistralmente ritratta in Disperatamente italiano, a disegnare, in controluce, il paesaggio dei nostri anni, nondimeno il motto di Bellocchio resta quello di un suo
antenato che raccomandava: «Non scrivete un libro su soggetti che possono essere esauriti in un articolo di un settimanale, e di due parole non fate un periodo. Quello che un imbecille riesce a dire in un libro sarebbe sopportabile se lo dicesse in tre parole11».
Entro questa cornice rigorosamente "economica", un moto d’impromptu, anche quando la disposizione è frutto di selezione a posteriori, presiede allo strutturarsi dei libri in journal, diario, sketch-book e zibaldone più simile a quelli di un artista, seppure i frammenti assumano talora tonalità da pamphlet, che non alle raccolte saggistiche, più compatte e costruite, di scrittori-intellettuali come Fortini, Pasolini o Calvino (ai cui temi, e al cui spessore morale, egli è peraltro cosi prossimo). Proprio per questo Oggetti smarriti12 ('96) che semplicemente ripropone la sequenza degli interventi di una rubrica settimanale13, corrisponde benissimo al vagabondare metodico e disobbediente dell'autore, che riscopre in itinere - lo spiega l'Introduzione — i passaggi costitutivi della sua formazione, realizzando cosi una delle più belle autobiografie indirette che si sono lette da molti anni14. Sarà il diverso rapporto che il genere "rivista" — ormai, diciamolo, pressoché defunto - intrattiene con il tempo, a farne lo strumento privilegiato di Bellocchio? O l'esser lui, come sostiene Cases, il «primo giornalista di idee» di un'era poi degenerata nell’ «odium antiideologico15»? Comunque sia, una renitenza, una forma di diffidenza nei confronti del libro la si può cogliere anche in quanto egli scrive nella «Prefazione» all'Astuzia delle passioni, dov'è spiegato che quel libro doveva costituire la sua prima raccolta, in quanto già pronto all'inizio degli anni ottanta (prima, quindi, di Dalla parte del torto, 1989, e di Eventualmente, 1993) e poi non pubblicato se non un lustro dopo:
II libro era stato approvato dall'editore [Einaudi], il contratto firmato, dovevo solo aggiungere una prefazione. Che non scrissi mai. Senza ammetterlo, non volevo che il libro uscisse16.
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