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Una battuta a effetto? No, il lettore di Oggetti smarriti rammenta invece, a questo punto, le pagine di Antifascismo e Resistenza, che iniziano con una citazione da Kierkegaard e proseguono discorrendo delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (Torino, Einaudi, 19521), libro di fondamentale importanza per la formazione di Bellocchio29 (ma libro, anche, ascrivibile alla categoria degli "oggetti smarriti"). Lì, nelle lettere dei partigiani come in quelle dei prigionieri di guerra raccolte e studiate da Spitzer30, è il rifiuto della dimensione alto-grandiosa, è la voce degli esclusi che parla (che fornisce la misura); e tenersi da questa parte della storia senza demagogia né illusioni, ma con coerenza e senza conceder nulla a dogmi e dottrine "salvifìche", è un'impresa estremistica e di buon senso, che nessun intellettuale professionista può concedersi, salvo suicidarsi in quanto esponente della categoria. Il modo in cui sono guardati Gli uomini superiori in Dalla parte del torto, dov'è un'attualissima lettura a contropelo di Carl Schmitt, conserva questo punto di vista "perdente", empirico ma vitale e sovversivo, così poco tollerabile per 1'audience contemporanea da relegare a loro volta i libri di Bellocchio tra gli oggetti smarriti.
5. La cocciuta lealtà di Bellocchio ai suoi silenziosi committenti - la cui assenza, dopo tutto, non è priva di una certa eleganza, visto lo spettacolo del mondo - è fondamentalmente estranea alla cultura italiana, anche nei suoi versanti più dediti all'ironia ed alla polemica, quasi sempre segnati da un che di esibizionistico, ma in compenso poveri di prospettiva storica. Ne le è meno estraneo il suo saggismo, fedele ad alcuni grandi outcasts '(Kierkegaard, Simone Weil, Orwell), che trova nel vissuto e nell'esperienza il proprio terreno elettivo: ciò conferisce alla prosa una resistenza e una consistenza che, non fosse la definizione magniloquente e screditata, bisognerebbe dire di "classico". Qualunque ne sia il nome, questo consistere e resistere - con la forza sotterranea che l'ironia nasconde e rivela ad un tempo - è del tutto coerente con il tagliar corto dello stile, come di chi operi per mantenere una zona di rispetto e d'isolamento in cui il frammento possa risuonare più intensamente e liberamente, affidato al flusso casuale degli incontri e degli scontri, nel prisma effìmero dei riverberi sociali ma dentro un tempo lungo, segretamente condiviso; qualcosa che aspira ad una "trasmissione orale", citabile all'occorrenza, che ferisca come un'arma impropria passata di mano in mano, di nascosto, e d'improvviso apparsa nella mischia.
C'è alla fine di Antifascismo e Resistenza una lunga citazione da Noventa in cui è racchiuso un che di fondante, dal valore esemplare, per lo stile (in senso lato: morale) e il punto di vista eterodosso di Bellocchio. Ne riporto le frasi conclusive:
... L’antifascista tipico è colui che il 25 luglio o 1'8 settembre esclamava: «L'avevo detto io!». Mentre l’uomo della Resistenza e il popolo confessavano di non capire. L'antifascismo procede da un sapere, da una certezza. La Resistenza, da un non sapere, da un dubbio. L'antifascismo conosce tutte le cause, mortali e veniali, del disastro. L'uomo della Resistenza si domanda invece come mai tale disastro sia stato possibile. Come mai i fascisti ne siano stati capaci, e gli antifascisti e gli italiani in generale capaci di prevederlo, non di impedirlo; e appunto perché l'antifascismo sa tutto, è tutto rivolto al passato, ma la Resistenza all'avvenire31.
Poco prima Bellocchio aveva sottolineato come il «fenomeno» della Resistenza non fosse paragonabile, quanto agli effetti, con eventi della storia europea come la Riforma protestante, o la Rivoluzione francese ma, d'altra parte, costituisse un evento «della stessa natura e qualità». Priva di un «progetto politico determinato», la Resistenza era stata infatti (ancora Noventa) «l'inizio o quanto meno il presagio di un rinnovamento profondo del pensiero e dei costumi, e non solo del pensiero e dei costumi politici32». Sono parole poco roboanti e fuori squadra sia rispetto a tanta apologetica repubblicana, sia al volgare revisionismo tracimante dai media. Ma, per esempio, l’ospite ingrato Franco Fortini (in quegli anni collaboratore del «Politecnico») le ha sempre tenute a mente, e oggi ci sembrano infine tanto remote quanto attuali nel porre l'accento sulla necessità di un ricominciamento, qualcosa che finalmente coinvolga le aspirazioni e le stesse esistenze di chi ha di fronte a sé il disastro. Tale, infatti, è il paesaggio che, con sempre maggiore chiarezza e non senza una riconoscibile nota d'inconciliata angoscia, i libri di Bellocchio, composti di frammenti (di macerie), ci mostrano. Ma o si prende le distanze, una volta per tutte, dai "luoghi comuni" e da chi sa tutto, o si rinuncia allo spunto, alla domanda e, quindi, alla possibile ripartenza di cui parla Noventa (quale, in fondo, lo spirito dei «Piacentini», ancora per un tratto, aveva potuto immaginare).
Il filo che tiene insieme i frammenti, ognuno dei quali vorrebbe riflettere in sé un frammento del tempo, si accorda dunque con una scrittura che privilegia il particolare, il non-fìnalizzato, e si ritrae dai sistemi e dal "sapere" onnisciente ma rivolto al passato. Per questo al vero saggista è indifferente parlare di un film, di un incontro in treno o per strada, di un libro, di un caso giudiziario o di un fatto di cronaca: per lui anche i giocattoli33 hanno qualcosa da insegnare, che ci riguarda. D'altra parte, dispersi tra i frammenti troviamo pure dei saggi di più spiccato argomento letterario, che da soli basterebbero a stabilire la statura di un critico d'eccezione: mi limito a ricordare, per la poesia e quanto ai connazionali, L'itinerario poetico di Raboni (in L'astuzia delle passioni) e i due saggi su Pasolini, il primo in Dalla parte del torto (L 'autobiografia involontaria di Pasolini, sulle lettere dello scrittore) ed il secondo, già citato, di Al di sotto della mischia. Disperatamente italiano (ma non son meno penetranti le pagine su Isherwood, Orwell, Celine nell'Astuzia). Quel che ci viene proposto da Bellocchio, in questi casi, è profondamente diverso e più prezioso di quanto possiamo ricavare da studi o discorsi che abbiano inizio e fine in luoghi come le università (per non parlare dei variopinti e complementari outlet della cultura reificata): è un ritratto che, mentre parla d'altro, parla di noi, ci costringe ad abbandonare la sponda rassicurante dei luoghi comuni, indicandoci mancanze non più percepite, storie e promesse dimenticate. Quando nel pezzo che funge da prefazione al suo libro (Essere o non essere cattivi) Bellocchio si augura «di trovare qualche giovane che legga queste cose per la prima volta e per quello che dicono» (p. 14), questo è anche, perciò, il miglior augurio che possiamo fare a noi stessi.
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