Weblogic

Home Il mondo in una stanza. La poesia di M. Moore
Il mondo in una stanza. La poesia di Marianne Moore. PDF Stampa E-mail
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Venerdì 11 Novembre 2011 00:00

di Laura Cantelmo

Schiva e poco propensa alle esibizioni pubbliche, sapeva tuttavia essere ironica e molto disponibile verso chi si rivolgesse a lei per un consiglio, come avvenne ad Allen Ginsberg e ad altri poeti, tra cui Wallace Stevens,  con i quali intrattenne un fitto epistolario La sua unica raccolta è intitolata semplicemente Poesie.

Poetessa statunitense vissuta nella prima metà del XX secolo, vicina al Modernismo di Eliot e Pound. Nella sua poesia estremamente originale e fuori dagli schemi, sia come tematiche che come versificazione, si trovano animali rari ed esotici, maschere di una personalità dalla grande sensibilità etica, legata alla religione presbiteriana.Schiva e poco propensa alle esibizioni pubbliche, sapeva tuttavia essere ironica e molto disponibile verso chi si rivolgesse a lei per un consiglio, come avvenne ad Allen Ginsberg e ad altri poeti, tra cui Wallace Stevens, con i quali intrattenne un fitto epistolario La sua unica raccolta è intitolata semplicemente Poesie.

Mi piace immaginare Marianne Moore ancora tra noi, nel suo appartamento di New York invaso dai libri, affacciato su una  strada alberata, vicino al ponte di Brooklyn. L’appartamento un po’ buio è in Cumberland Road, a pochi passi  da una drogheria  e da una chiesa presbiteriana. Questo lo scenario in cui si svolse nel 1960  l’intervista  per “The Paris Review” (1). che ci restituisce  un ritratto vivido e indimenticabile, da cui Marianne, uno dei monumenti della poesia del ‘900 statunitense, emerge nella semplicità, nella banalità, si può dire, dell’esistenza quotidiana, ma anche nell’intelligenza, nell’ironia, nell’assoluta naturalezza dell’eloquio.

E’ la vigilia delle elezioni presidenziali e Marianne ostenta una spilla con il volto di Nixon, il candidato repubblicano. Le caratteristiche che fanno di lei un fenomeno sorprendente nella letteratura anglo-americana stanno tutte inMarianne Moore, 1935 questa scena domestica minima, oggi diremmo minimale: naturalezza e understatement, pacato umorismo unito a rigore morale e, forse, come cittadina, un desiderio di progresso senza avventure,  dato che proprio in quella tornata  elettorale l’avversario di Nixon era J.F.Kennedy di cui ora conosciamo luci e ombre, ma che allora rappresentava una dirompente novità .

Marianne aveva scelto di stabilirsi a New York nel 1918 per lavorare presso una sede staccata della New York City library. Lasciava il Missouri, dove era nata presso St. Louis nel 1887.  Il nonno materno, Warren, colto pastore della Chiesa presbiteriana, di stretta osservanza calvinista, cioè puritana, le aveva fatto da padre, essendo il padre naturale morto precocemente. Marianne  condividerà simbioticamente l’esistenza con la  madre, donna possessiva, autorevole più che autoritaria, ma anche affettuosamente protettiva,  fino alla morte di lei.

Da St. Louis, Missouri, nel tranquillo e immobile Middle West, dove era nato anche T.S.Eliot, Marianne si allontana nel 1906 per frequentare il college a Bryn Mawr, in Pennsylvania. Gli studi scientifici non sembrano preludere a un destino letterario, anche se le sue collaborazioni al periodico del college ricevono lusinghieri apprezzamenti. Da queste premesse si comprende la ragione di ciò che Marianne andrà ripetendo negli anni: «Di certo non ho mai avuto intenzione di scrivere poesia »  Eppure continua a scrivere, convinta ogni volta. che quella potrebbe essere l’ultima.  Casualità e assoluta spontaneità impronteranno sempre il suo approccio alla scrittura.

La sua poesia, anzi, quella che paradossalmente lei non ritiene poesia, ci offre un profilo di donna aperta verso gli altri e insieme austera, la cui visione del mondo è mediata dall’esperienza altrui e mai diretta, l’immagine di una persona che rifiuta gli eccessi, la pompa, il pathos e fa del successo un motivo di crescente sorpresa. come si addice a  una natura plasmatasi nel rigore presbiteriano.

«Mi piacciono le storie.»

Come non ritrovare questa  predilezione nei suoi testi? Ci si sorprende che, scrivendo versi, la Moore rivendichi modelli come Henry James o l’illuminista Dott. Johnson, eppure fin dagli esordi ogni fonte di ispirazione la porta a narrare una storia. Perché tanto amore per La Fontaine, che tradusse e riuscì a pubblicare solo dopo qualche anno? Non tanto perché avesse scritto, come lei, storie di animali, ma perché, proprio  perché, per raccontare aveva scelto la forma dell’apologo.

E storie, per quanto tortuose e ardite nella tessitura, ci appaiono molte sue poesie. Il pudore che mostra nel definirle tali ha qualcosa di puritano, quasi che  la poesia fosse una disdicevole forma di esibizione o di autocelebrazione. Il cimentarsi nel verso, nella ricerca della parola giusta diventa un gioco, nel quale gli strumenti retorici offrono al suo zibaldone un pudico paravento a pensieri e immagini che altrimenti non avrebbero trovato espressione.

Per Marianne tutto viene vissuto, elaborato nell’intimità della casa. Pochi spostamenti, se si pensa al nomadismo staunitense, pochi viaggi. Anzi, un solo viaggio importante, quel Grand Tour in Europa, che lei sente come essenziale per la propria formazione, sulla scia dei giovani letterati, Pound, Eliot ed altri grandi, di cui ha avuto notizia dalla compagna di college Hilda Doolittle, la poetessa nota come H.D..

Il viaggio ha luogo nel 1911, in compagnia della madre. Per due mesi  le due donne risiedono a Londra, visitano la Scozia, poi Parigi, dove Marianne va timidamente a cercare i luoghi intorno a cui pulsa la vita letteraria, come la libreria di Sylvia Beach, l’editrice delle avanguardie, tra cui Joyce, per intenderci, mai rivelando per naturale modestia di essere una poetessa che ha già avuto qualche affermazione.

A New York, giovane e dolcemente austera come appare in una rara fotografia, la fulva chioma che tradisce l’origine irlandese, la ritroviamo in mezzo al “Greenwhich group”, i redattori della rivista “Others”, che raccoglie i più promettenti autori della nuova poesia, genericamente denominata modernista, tra cui William Carlos Williams e  Richard Aldington..

Si trova bene a New York, Marianne. Protetta dall’affetto materno totalizzante, che fa di lei un forte ramo della pianta presbiteriana del nonno Warren, sceglie la madre e il fratello John Warren come  i critici più rigorosi del suo lavoro: «Dürer avrebbe trovato un buon motivo per vivere/ in una città come questa, con otto balene arenate/ da guardare : con l’aria dolce del mare che ti arriva in casa»,  così dice la poesia L’uomo del campanile (2).

Nella sua autobiografia Williams scriverà che Marianne rappresentava l’impalcatura di sostegno dell’incompleto edificio costituito dal gruppo. Nessuno più di lei, tuttavia,  è più lontano dagli eccessi di quei giovani che lasceranno l’America per Parigi, gli “espatriati”, dalle sbronze, dalle baruffe narrate da Hemingway in Festa mobile.. Nel suo cliché di eterna figlia, di inviolata Persefone, non rientrano quei vistosi  riti di passaggio. Marianne non avverte, è evidente, l’inadeguatezza culturale del suo paese che ha portato a quel “ritorno del Mayflower” verso l’Europa, alla ricerca delle lontane radici. Il progetto era di rinnovare l’arte americana, penosamente  gregaria rispetto alla Gran Bretagna, giungendo  alla codifica  del cosiddetto American common language, una lingua ricercata da Gertrude Stein, da Pound, dallo stesso Williams, che sgorgasse dalla verginale genuinità e dalla concretezza statunitense innestate sul vecchio e consunto tronco della letteratura europea per dar vita a un nuovo Rinascimento americano..

Marianne accumula frattanto un bagaglio di letture un po’ irrituale,  qualche classico, molte riviste scientifiche, di moda o di arte, scelte sull’onda dell’emozione del  momento, prima nella biblioteca, poi alla redazione di riviste importanti – “Poetry” di Chicago e“The Dial”. Quest’ultima, che lei dirigerà dal 1925 al 1929, dedita alla diffusione della poesia modernista, si muove sulla base di norme  care soprattutto alla Moore, ma che sono capisaldi anche della poesia del movimento Imagista fondato da Pound: nessuna ambiguità o manipolazione del linguaggio, precisione e intensità della scrittura, che deve mirare ad emozionare il lettore. E in particolare il rigoroso legame tra etica e linguaggio, basata sull’aderenza al significato delle parole. Principi che Pound traeva dalla dottrina confuciana della “rettificazione dei nomi”, dove si affermava che la mistificazione del linguaggio porta alla corruzione anche nei rapporti all’interno della società.

E la Bibbia, il libro su cui è cresciuta, è uno dei modelli. La Bibbia è un’immensa collana di storie, un’epopea –«la poesia ebraica è prosa/ con una sorta di consapevolezza superiore.» (Il passato è il presente). In fondo che cosa distingue la prosa dalla poesia? Marianne dichiara di non saperlo, infatti la sua poesia, dice,  è una forma di prosa. Eppure lei ama cimentarsi nella rima, purché sia light, lieve, come lei, leggera ed elegante, non smaccatamente evidente.

Sarà Eliot a definire con precisione la poesia della Moore: «La versificazione di M.M. è tutt’altro che “libera”. Molte sue poesie seguono schemi formali non solo rigidi, ma talvolta complicati e hanno il  movimento elegante di un minuetto. […] M.M. è, tra i contemporanei, il più grande maestro nell’uso della rima lieve» (3). Ecco le origini irlandesi emergere in  questa disposizione al canto che ne connota la scrittura. Ma la vera novità di cui la Moore si fa carico, non solo clamorosa, ma spiazzante per la poesia anglo-sassone, è nella quantità sillabica del verso, poiché sovverte la metrica tradizionale - non più i piedi della poesia classica come unità di miusura, bensì le sillabe, con cesure poste irregolarmente all’inizio o alla fine del verso.

Rivoluzionando la metrica e alterando il ritmo, la Moore sembra abbracciare i principi del rinnovamento del linguaggio propugnato dagli “espatriati” senza soffrire l’esperienza dello spaesamento e dell’esilio, del rifiuto dei padri. Il disagio della lost generation, la generazione perduta, come l’aveva definita Gertrude Stein, nasceva proprio dal rifiuto del padre, dei padri della letteratura americana e anche della madre, la terra innocente e sterminata, ricca di dirompente energia, cantata da  Whitman, ma imbrigliata da una miseria culturale che esigeva un cambiamento. Per loro la delusione si fece più cocente nel 1917 con l’intervento armato nel primo conflitto mondiale, presentato dal Presidente Wilson come  «una crociata per salvare la democrazia». Nulla di nuovo per noi, oggi, ma a quel tempo l’intervento si manifestò come la partecipazione a un massacro insensato dettata da scopi poco nobili. Questo significò la perdita dell’innocenza e una ferita mai rimarginata. Mentre si elaboravano i principi della nuova arte partendo da un’aspra critica alla frammentazione e alla corruzione della cultura occidentale4, negli anni venti a Parigi ci si abbandonava a una forma di edonismo sfrenato che si concludeva drammaticamente con la depressione del ’29. Un’epoca, questa, che ha trovato in F.S.Fitzgerald un’icastica definizione: «mangia, bevi e sii felice, perché domani moriremo» (5).

La filosofia del carpe diem di quella generazione senza futuro fu una disperata ricerca di effimera felicità da cui la Moore  non fu minimamente scalfita – chiusa in un guscio di lumaca, non soffrì mai gravi turbamenti né frustrazioni pur riuscendo a essere una straordinaria innovatrice e senza mai coltivare la tradizione. La poesia A una lumaca, elogio di quell’essere contrattile, modesto ma dotato di sensibili antenne è, al contempo, una dichiarazione di poetica e una delle sue maschere più efficaci: «Se “la concentrazione è il  primo dono dello stile”/ tu la possiedi».

L’adesione al modernismo, benché da lei mai rivendicata, ma abbastanza evidente, dunque, fu un fatto naturale. Sentendosi estranea a qualsiasi movimento ebbe a dire: «Mi dispiaceva di essere un paria, o per  lo meno di non essere collegata a nessuno» (6).  Eppure quell’adesione sorgeva da un’ affinità di vedute e da una scelta spontanea. Laddove gli altri citavano Laforgue, il verso libero, la concretezza delle immagini, la Moore non si lanciava in dichiarazioni programmatiche e procedeva sottovoce, secondo il suo gusto dell’understatement, dedicandosi alla scrittura ogni volta che la coglieva un senso di urgenza – ciò che altri definirebbero ispirazione - e intorno  a cui lavorava con umiltà e impegno.  Il risultato è uno stile che è lingua parlata,  una  voce, come Nadia Fusini definisce la scrittura femminile (7) - non l’inanimato simulacro del respiro più intimo e inafferrabile dell’essere che è la parola scritta, ma un’espressione viva, corporea, che nasce dal silenzio  e nel silenzio si articola, prende forma, come recita la poesia Silenzio: «Il sentire più profondo si manifesta sempre nel silenzio;/ non nel silenzio, nella discrezione.». Il rifiuto della tradizione si consuma dolcemente per Marianne  tra quattro mura,  mentre il mondo le scorre sotto gli occhi attraverso i giornali, i libri, la radio, i molteplici rapporti epistolari, i racconti dell’amica Elizabeth Bishop, sua affezionata discepola e inquieta nomade.

La sua prima raccolta, Poems (1921) vedrà la luce a sua insaputa a Londra, grazie all’editrice Bryher, a quel tempo amante di H.D.. Erano  le stesse poesie che anche Pound aveva apprezzato al loro primo apparire su “The Egoist”.

Eppure la poesia non le piace – lo ripete fin dal 1919 in uno dei testi più famosi, La poesia : «Neanche  a me piace./ A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre,/ dopo tutto, uno spazio per l’autentico.» Inclusa in The Complete Poems (1967), questa è la versione definitiva, che conta solo tre versi. Ne restano altre quattro, lunghe oltre trenta versi, che costituiscono una sorta di manifesto, ma che nel continuo lavoro di sottrazione testimoniano anche un’ossessione  perfezionista, un instancabile e serio lavoro di cesello. Vi si parla di autenticità perseguita attraverso l’uso di tutti i sensi (“mani, occhi”), in quanto sono i sensi a carpire il nucleo segreto e pulsante delle cose ed è la parola a trasmetterne il palpito soltanto se essa rifugge da forme elaborate e oscure che rendono il testo incomprensibile. Ma soprattutto non va esercitata alcuna preclusione  relativamente agli argomenti da trattare: «“documenti d’affari e libri di scuola”: sono tutti fenomeni importanti.» E ancora, si avrà poesia «solo  se i poeti tra noi non diventano/”letteralisti dell’immaginazione” – superiori/ all’insolenza e alla volgarità, disposti a sottoporre/a ispezione “giardini immaginari con rospi veri dentro”». Affermando poi che « La potenza del visibile è l’invisibile.». (Digerisce durissimo ferro),  si comprende come la Moore vedesse con “l’occhio della mente” le figure del reale come simboli di essenze divine, in sintonia con le parole di Yeats che cita virgolettate nello stesso testo (8).

Come nasce una poesia

Il  metodo compositivo si ripete con regolarità. Marianne prende appunti su di una frase colta per caso, due o tre parole felici che le vengono in mente, senza sentirsi obbligata a scrivere. Il tema solitamente è presentato nella prima strofa in modo diretto per venire successivamente commentato con citazioni di dialogo, quasi che intervenisse un interlocutore, poi il racconto si dipana (9). Marianne scava nella memoria, trova riferimenti storici, operei viste nei musei, brani letterari, partiture musicali. Come nel mito platonico della caverna nelle sue descrizioni gli animali e gli oggetti sono ombre, forme  rivelatrici di un mondo che esiste e che non è dato conoscere se non nelle sue imperfette apparenze. Allorché il materiale a sua disposizione assume una certa consistenza, la composizione diventa febbrile. Marianne viene trascinata dalle parole come da una forza di gravità ed esse si aggregano in grappoli, si organizzano come cromosomi in una cellula. Si ha l’impressione di un procedimento a  spirale, che parte da un nucleo occasionale, scelto tra i temi prediletti, in genere di carattere naturalistico, per poi avvitarsi in descrizioni dettagliate, alle quali per associazione si collegano disquisizioni di genere estetico ed etico, divagazioni, riferimenti storici e scientifici. Ciò che appare evidente è l’amore per tutto “il creato”, specie per gli esseri più misconosciuti  di cui la Moore rivela ignote virtù. Ma chi sono poi gli unicorni, così miticamente evocativi, che fraternizzano con i leoni? (Unicorni di mare e unicorni di terra) Oppure «il gigantesco passero/ che Senofonte vide presso un fiume – fu ed è/ simbolo di giustizia.» (Digerisce durissimo ferro), o il pangolino, piccolo essere la cui armatura a scaglie si chiude la notte come difesa, diversamente dall’uomo che si arma e aggredisce mosso dall’odio (Il pangolino) ? Sono animali  fieri, anche se minuscoli, teneri come la mustela di bosco che è solo una puzzola comunemente disprezzata: «Il muso dolce  e le zampe potenti/ vanno in giro in un manto regale  di panno di Chilcat.

[ …] Ebbene,/ questa stessa mustela ama giocare,/ e come lei le sue compagne. Solo/ le mustele di bosco saranno mie compagne.» (La mustela di bosco).

Fraternità , giustizia e, si direbbe, persino la ricerca della felicità - alcune delle opzioni fondative delle rivoluzioni del Settecento - sono virtù che Marianne  individua nella vita segreta del suo bestiario, dei fiori più rari ed anche di atleti ed altro non sono, ancora e sempre, che le sue stesse maschere.  .

«Perché questo smoderato interesse per gli animali e per gli atleti? Sono soggetti ed esemplari d’arte, non credete? E pensano ai fatti loro. Pangolini, buceri, giocatori di baseball: né curiosi né predaci – non tirano mai in lungo la conversazione; non ci mettono in soggezione; sono nella loro forma migliore quando meno ci badano» (10).

Ma la Moore, che ben poco aveva letto di poesia moderna, riteneva sacrilegio chiamare poesia  tutto ciò che era stato scritto dopo Chaucer o Shakespeare, o Dante: «Si può chiamare poesia ciò che scrivo solo perché non saprei chiamarla altrimenti» (11). Ciascuna poesia nasce per descrivere, analizzare e per  trarne insegnamenti etici. Qui sta un punto ineludibile: la rivelazione della realtà richiede una riflessione a cui i principi calvinisti non si possono sottrarre. Non esiste argomento di cui lei non parli e che non trovi una conclusione di tipo morale.  La parola scritta è la voce dell’Io che annota sulla pagina la propria visione del mondo, un tessuto di pensieri intrecciato nell’intimità della casa  che la proietta all’esterno, nelle relazioni epistolari  per le quali la Moore è nota ancora oggi.

Sicuramente non troveremo nella Moore il pathos di molti contemporanei, benché si tratti comunque di versi che sanno scavare nel male del tempo presente e passato. Quell’esistenza trascorsa in casa con la madre, in qualche biblioteca o in qualche ufficio editoriale, è una vita povera di emozioni, di smarrimenti, senza pulsazioni sanguigne, senza un corpo. Comprensibilmente il rapporto fusionale tra le due donne sfocia spesso in qualche male misterioso, ma quello è il prezzo di una simbiosi totalizzante. Le poesie della Moore, per quanta consapevolezza dimostrino delle tragedie della Storia (ben due guerre mondiali, per non dire altro) senza essere algide non scoprono mai la ferita dolente, mai la ribellione o la  disperazione (12). La lunga poesia Il matrimonio, spiegando le ragioni di un rifiuto dell’amore e del matrimonio, in questo senso è rivelatrice: «Questa istituzione,/ o forse è meglio definirla impresa, in ossequio alla quale /si suol dire che non bisogna mutare d’opinione/ su una cosa in cui si sia creduto,/ [ …]  “ A me piacerebbe restar solo;/ perché non stare soli insieme, allora?”» A sostegno della propria tesi la Moore raccoglie una serie di citazioni tratte da relazioni scientifiche, psicoanalitiche o filosofiche, nelle quali viene chiamato in causa persino il filosofo radicale William Godwin,  padre di Mary Shelley:: «Adamo incappa nel matrimonio, “oggetto in verità molto volgare”».. L’epitome L’excursus a favore del celibato sta in una lapidaria citazione da Pound «una moglie è una bara».

Nella adamantina onestà che la contraddistingue, il frequente ricorso alla citazione è un atto dovuto: quando una cosa è già stata detta in modo perfetto, perché cercare di parafrasarla?

Il baseball e lo scrivere

Se nello stile la grazia decorativa va evitata, ciò per Marianne non può divenire incuria. Anzi, da una precisione scientifica nascono le poesie scritte dopo anni di silenzio,  tra il 1932 e il ‘36, che si possono quasi  definire fiabe, in cui vivono animali (animiles li chiamerà) e piante esotiche. La mente opera mimeticamente riproducendo dialoghi, creando similitudini e metafore. Il risultato è un racconto in versi,  che  la religiosità  presbiteriana trasforma in apologo. Lo stile rigoroso, asciutto, riesce a dipingere paesaggi lussureggianti, popolato da esseri mitici. Sono realtà che la Moore non ha mai visto dal vivo, tappe di viaggi che si realizzano nella penombra, nel silenzio di una vita appartata, alla ricerca del mondo primitivo, della natura selvaggia dove si svela il sogno metamorfico degli esseri viventi, la sostanza originale, anche brutale  del mondo: «il basilisco incarna / il sogno mitico/ di essere uomo e pesce alternamente - // […] Credendosi nascosto tra le lame di giada delle scuri sfuggite alle ricerche,/ tra i giaguari e le nottole d’argento, e le ametiste/ […] lui vive là,/ nel suo bozzolo di basilisco,/ sotto quell’altro bozzolo di verde vivente; e l’argento vivo/ della sua ferocia/ si spegne  nel fruscio in cui ricade entro la guaina -» (Il basilisco piumato) Racconti che non vogliono edulcorare né sublimare nulla, ma svelare la verità di ogni essere. Solo così scrivere diventa eccitante. Eccitante come il baseball di cui Marianne  è appassionata, che è un gioco con un’eleganza che si esplica nella tattica sul campo, una  grazia paragonabile a quella delle immagini in poesia. «Fanatismo? No. Scrivere è eccitante/ e il baseball somiglia allo scrivere./ Per l’uno e per l’altro non si può/ mai dire come andrà/ o che farai:/ ne nasce eccitazione -/ uno stato febbrile » (Il Baseball e lo scrivere).

Con un’ardita similitudine, il pitcher, che nel baseball è il lanciatore, è come il poeta nella sua lotta eroica con le parole e le immagini: lancia la palla, muovendosi con destrezza, spiazzando l’avversario, cambiando il passo  come in una danza, inventandosi le mosse. «“Sì,/ è lavoro; voglio vedervi vincere, ma voglio/ che la vittoria/ sia divertimento”» (Il baseball e lo scrivere) Scrivere deve anche essere questo: divertimento. Eppure Marianne non nasconde quanto questo le costi, con il perfezionismo che le è proprio: «Non ho mai conosciuto nessuno che ama le parole e che, al pari di me, abbia difficoltà nel dirle» (13).

Le lettere

Sono le lettere ( fino a 50 al giorno!) ripubblicate negli ultimi anni ad aver riportato alla ribalta il nome della Moore (14). Esse sono l’eco del mondo che entra nel suo guscio, un universo che si estende a partire dal ponte di Brooklyn, al di là dell’ East River, oltre il porto dove guarda  i gabbiani e le procellarie che si posano sulla prua delle navi. «Non si direbbe pericoloso vivere/ in una città come questa, di gente semplice,/ con un artigiano che pone cartelli di pericolo presso la chiesa/ mentre è intento a indorare  quella stella/ dalle solide punte che su una guglia sta/ per la speranza.»  (L’uomo del campanile) Il racconto della quotidianità  viene infarcito di riflessioni, l’amicizia è alimentata dalla gentile disposizione verso l’Altro attraverso la parola scritta, divenuta medium privilegiato. Una miniera di contatti e di informazioni, per noi, a partire dalla cultura vittoriana fino agli anni ’70. Sono lettere prive di presunzione alcuna, ricche di humour e di calore. Nella rivendicata mancanza di cultura , esagerata dalla tendenza all’understatement, la Moore trova il seme della sua originalità.. A Pound che le attribuisce un’affinità con i simbolisti francesi, lei risponde di aver letto per caso solo Francis Jammes e intanto racconta i film visti,  l’incanto di uno  spettacolo al circo, elargisce acuti giudizi letterari, incoraggiamenti ai neofiti, consigli, che a sua volta richiede con modestia, peer to peer.

Persino Allen Ginsberg nel 1952 le sottopone il manoscritto di Empty Mirror. Per nulla turbata dall’ostentata volgarità del giovane beat, Marianne sta al gioco della provocazione, ma  certe espressioni come: «L’esistenza è un sacco di merda»  e l’evidente rifiuto della vita che esse implicano le dettano una risposta di cui Ginsberg le sarà grato: «Se ci rendiamo complici della cospirazione contro noi stessi e definiamo l’esistenza un insulto, che importa cosa scriviamo? [ …] Lei vede le cose con interesse ed è persona sensibile.  Non ne è riconoscente? [ …]  Perché dico questo? Perché mi colpiscono i suoi processi, il suo senso della realtà, il suo talento» (15).

Questa disponibilità e questa saggezza, nonostante l’abissale distanza dal giovane poeta, sono segno dell’ apertura umana, della capacità di relazione di Marianne.

E tuttavia, fedele all’integrità di sempre, la Moore, nonostante il debito che sente nei riguardi di Ezra Pound, non esita a condannarne l’adesione al fascismo. Dopo trentacinque anni di amicizia, così scrive  nel 1955: «Ezra, quando il discorso di un filosofo è sgradevole, anzi disgustoso, a che cosa gli è servita la filosofia? Non si può parlare di errore temporaneo, non ci sono dubbi. Il giudizio vale per sempre» (16).

Benché repubblicana in età matura, al college e negli anni giovanili Marianne aveva coltivato simpatie socialiste.  Era l’inizio del Novecento ed era facile respirare i fremiti de l’aire du temps. La poesia Radical, introvabile nelle raccolte della maturità, celebra l’umile carota e con una ardita metafora la paragona a un movimento politico di sinistra.  La difficoltà di lettura non deve essere stato l’unico criterio che le fece cancellare il testo, ma certamente l’oscurità  non le piaceva. Eppure la sua opera è stata sempre considerata difficile, poiché essa necessita di un apparato di note per essere decodificata. Per questo Pound aveva previsto che la Moore non avrebbe mai venduto più di 500 copie, nonostante il valore dei suoi versi. La storia lo smentì e tuttavia leggere Marianne Moore è una sfida non solo per l’intricata rete delle tematiche, ma per gli artifici mimetici frapposti come un paravento tra lei e il lettore.

Quella di Radical non fu l’unica occasione in cui espresse opinioni di carattere politico. Un buon numero di poesie è di ispirazione civile. La Moore non è la Dickinson e neppure le sorelle Brontë: felicemente appartata, non si abbandona a sogni e fantasie, la regola per lei è il realismo, quindi anche l’attualità, da cui aprire le porte dell’immaginazione. Così come nella poesia Al progresso militare si esprime contro la guerra non esitando a censurare comportamenti razzisti: «Lo snobismo è futilità,/ l’altra faccia di un servilismo antico,/ pronto a baciare i piedi a chi sta sopra,/ a dare calci in faccia a chi sta sotto;/ [ …] far capire ai dialettici, abituati a incantar serpenti/ quanto sia noto ormai/ “che il negro non è un bruto”,/ che l’ebreo non è ingordo, che l’orientale non è immorale,/ che il tedesco non è un unno”»  Il che non è cosa da poco in una  nazione che esercitava clamorose esclusioni razziali al suo interno.

L’ “amore senza fine” di Marianne per l’universo intero ha illuminato tutti i suoi rapporti e soprattutto la sua scrittura, che lei umilmente si è sempre rifiutata di definire come poesia..

Da una delle ultime fotografie Marianne ci sorride ancora, elegante e severa come sempre, sotto un curioso cappello a tricorno. Nel 1972 si chiude tra gli onori la sua lunga carriera, che, come la sua esistenza, è trascorsa in   modo quasi uniforme, senza contraddizioni né traumi. A testimonianza di ciò  le sue poesie si trovano in un'unica raccolta, chiamata semplicemente  The Complete Poems..

(Tratto da : AA.VV., Con la tua voce, incontri con dieci grandi poetesse del Novecento, a cura di Gabriela Fantato, La Vita Felice, Milano 2010)

Marianne Craig Moore, nasce nel 1887 a Kirkwood, Missouri, da John Milton Moore, ingegnere e inventore, e da Mary Warner. Non conoscerà mai il padre, ricoverato per disturbi psichici dovuti all’insuccesso di una sua invenzione e morto prima della sua nascita. Con la madre e  il fratello maggiore, John Warner,  resta nella casa del nonno materno, il pastore presbiteriano John Ridde Warner fino alla sua morte nel 1894. La famiglia si trasferisce  in Pennsylvania, dove Marianne frequenta le scuole. Nel 1906 si iscrive al Bryn Mawr College. Interessata alla biologia, alla pittura, pensa persino di studiare medicina. Nel 1909 ottiene il B.A. in storia, diritto e scienze politiche. Scrive i primi versi al college, dove stringe amicizia con la poetessa Hilda Doolittle (H.D.). Viaggia in Europa con la madre nel 1911, poi si stabilisce con lei a New York, dove vivrà fino alla morte. Amica dei più illustri poeti americani del secolo scorso, è stata ampiamente apprezzata e considerata un’innovatrice. Ha vinto il Premio Pulitzer nel 1951. Autrice di saggi e di un ricchissimo epistolario. I suoi versi si trovano raccolti con il titolo The Complete Poems(1967). Muore a New York nel 1972.

 

NOTE

1     Donald Hall,  Intervista a Marianne Moore  per “The Paris Review”, in Writers at Work, The Paris Reviews Interviews, Second Series , New York 1963.

2     Marianne Moore, Le poesie,(a cura di Lina Angioletti e Gilberto Finzi), Adelphi, Milano 1991. Tutte le poesie citate d’ora in avanti appartengono a questa raccolta.

3     T.S. Eliot, “Il fascino di un microscopio”, in: M.M., op. cit., pp.516-17

4     Cfr. Ezra Pound, “Hugh Selwyn Mauberley”, in  Selected Poems, Faber, London 1960

5     F. Scott Fitzgerald, “Echoes of the Jazz Age”, in The Crack Up, New Directions, New York 1956, p. 16.

6     Cfr. Writers at Work , op.cit. p.25.

7     Cfr.Nadia Fusini, Nomi, Dieci scritture femminili, Donzelli ed. , Roma 1996, p.IX.

8     W.B.Yeats,Ideas of Good and Evil, A.H.Bullen, London 1908, p.182

9     Cfr. Writers at Work, op.cit., p.29.

10     M.Moore, prefazione a A Marianne Moore Reader, The Viking Press, New York 1961, p.XVI.

11     Cfr. Writers at Work, op.cit., p.23.

12     Cfr. N.Fusini, “Marianne, o dell’umiltà”, op. cit., p.227.

13     Cfr.Writers at Work, op.cit., p.13.

14     The Selected Letters of Marianne Moore, (ed. by Bonnie Costello), Alfred A.Knopf , New York 1997.

15     Ibid. , letter to Allen Ginsberg,  July 4, 1952.

16     Ibid., letter to E.Pound, undated, 1955.

 

Creative Commons