Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Mercoledì 15 Maggio 2024 07:29 |
Franco Romanò
Lo spunto che mi ha spinto a scrivere questa riflessione è il dibattito che c’è stato intorno a un saggio pubblicato di Antonio Attisani su Doppiozero. L’articolo è indubbiamente interessante per molti aspetti, tanto che inizierò proprio da una citazione del suo saggio, mentre non mi convince la lettura politica che ne dà. La classe morta è stata nella drammaturgia del secondo ‘900 un evento e non solo uno spettacolo, poi è stato lasciato in un relativo oblio e nessuno si è posto il problema di metterlo di nuovo in scena, anche se alcuni lavori si sono ispirati ad esso. La mia rilettura ruota intorno a una domanda: cosa ci può dire oggi quell’evento? A mio avviso molto, ma in un senso che, pur presente anche in un breve passaggio del saggio di Attisani, viene poi da lui abbandonato.
Il teatro della morte
Il brano di Attisani che riprende anche alcune affermazioni di Kantor rispetto alla sua drammaturgia è questo:
… occorre piuttosto pensare alla scena come montaggio di elementi della “realtà pronta” (objets trouvés) e riconoscere il “ruolo del CASO” nella creazione.
Continua Attisani:
Siamo qui all’indeterminismo della fisica quantistica. Quando si esprime nel difficile linguaggio della nuova fisica, quando Kantor dichiara di rimpiangere un teatro che:
“si liberava dai vincoli della vita e dell’uomo, produceva degli equivalenti artificiali della vita, che si assoggettavano all’astrazione dello spazio e del tempo, erano più viventi e capaci di raggiungere l’assoluta coesione”,
dobbiamo intendere quelle parole alla luce dei suoi spettacoli meravigliosi, della loro semplice grandiosità che toccava il cuore degli spettatori più diversi.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Martedì 03 Ottobre 2023 14:10 |
di Paolo Rabissi
La luna, transizione di ritmi
Quando con Franco Romanò più di dieci anni fa abbiamo avviato l’impresa che sta ormai per concludersi con la sua pubblicazione in formato libro, non avevamo idea di come l’avremmo chiamata. Vero è che eravamo troppo impegnati ad analizzare lo stato della poesia presente, soprattutto perché eravamo entrambi esuli da due esperienze in due riviste per noi molto significative, lui dal Cavallo di Cavalcanti, io da Il monte analogo. Al di là delle pubblicazioni individuali di nostre raccolte di versi, l’uscita da quei due luoghi, che avevano funzionato egregiamente come osservatorio importante sulla poesia, ci sembrò quasi l’esaurimento di un’ipotesi di vita poetica e letteraria e che interrogarci sul futuro fosse terribilmente necessario. Non ci volle molto per renderci conto che entrambi avevamo alle spalle una tensione tenuta per troppo tempo sotto traccia. Era quella della Storia. Quella con la S maiuscola, facendo un po’ nostra quella usata da Morante nel suo romanzo per sottolineare che la Storia è fatta dalla gente qualunque e non solo dai personaggi famosi o dagli eroi, vincitori. Sia io che Romanò intendevamo la Storia secondo criteri che ci provenivano dal pensiero critico maturato nella seconda metà del ‘900. Anzitutto il presente come storia. Facevamo nostra la lezione benjaminiana, partire dalle urgenze dell’attualità (Jetztzeit) tramite le quali narrare e ricostruire la Storia ma avendo lo sguardo rivolto al futuro. Ci premeva la moltiplicazione della Storia in storie, declinate a seconda delle soggettività espresse: la classe operaia fordista che ha fatto la storia democratica del nostro paese per tutti gli anni sessanta e settanta, il femminismo in tutte le sue anime, l’ambientalismo, le nuove tecnologie, le nuove frontiere della scienza, della psicanalisi critica, ecc. Il tutto dentro un coacervo di forme nuove di relazione tra Sapientes dettate dalle trasformazioni nel lavoro, dagli eventi più o meno imprevisti (come il virus o l’attuale guerra) e dal mutamento di mentalità con la scoperta di emozioni, sentimenti, sensibilità, passioni, legate verosimilmente anche alle nuove povertà, alla precarietà, al disagio espresso da giovani e anziani, all’impatto con immigrati e immigrate.
A dire il vero non stavamo inventando o scoprendo nulla di nuovo. Del resto noi stessi, scrittori di righe e di versi, avevamo già tracciato qualche percorso soprattutto in versi: Romanò compulsava la Storia nelle terre della Lunigiana e nel tempo della decadenza dell’impero romano, mentre personalmente recuperavo la memoria del lavoro manuale attraverso cui ero passato. E quando decidemmo di mettere alla prova le nostre riflessioni ci accorgemmo che intorno a noi i temi che volevamo richiamare all’attenzione erano già praticati da non pochi poeti e poete.
Restava il problema del nome della nostra impresa e si mostrò necessario fare i conti con due espressioni: poesia civile e poesia politica.
Come ho già scritto altrove, da insegnante ho sempre evitato di parlare di poesia civile. L’espressione, a partire dal ’68, ha finito con l’evidenziare una sua mascherata connotazione ideologica. Era un modo tartufesco per evitare di usare l’espressione ‘poesia politica’. Tuttora, nonostante il ’68 o forse proprio per questo, sostantivo e aggettivo non abitano affatto insieme. Trascuro la totale irrilevanza della poesia in generale, vero è piuttosto che se ad essa accostiamo il termine ‘politica’ si storcono i nasi dei più. Eppure da sempre esiste una poesia politica. Ma preferiamo chiamare anche Le ceneri di Gramsci un poemetto di poesia civile. E anche quello di Giuseppe Giusti ‘Sant’Ambrogio’. E il tono satirico di Montale in ‘Satura’ contro la società dei consumi non ha forse un passo da engagé?
Ciò che poi quella parola porta con sé appesantisce di molto. Porta con sé ‘partiti’ e ‘ideologia’. Ed è del tutto inutile sperare che ‘politica’ venga intesa solo come ciò che riguarda la polis, la collettività.
Lungi dall’essere innocente, la parola ‘civile’ nasconde ideologia e partiti. Giusti e Montale erano entrambi liberali e avevano entrambi il medesimo partito a cui riferirsi, a distanza di un secolo. Quanta ideologia stia dentro il neoliberismo attuale non mette conto parlarne qui.
Così ecco che, apparentemente lontano da partiti e ideologie, nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, salta fuori il ‘poeta vate’, che, col ruolo di maestro e guida, celebra invece proprio valori e ideali politici, così Carducci, Pascoli, D’Annunzio sono annoverati tutti tra i poeti civili.
A voler andare indietro si dovrebbero rivisitare alla luce di queste considerazioni decine di poeti: da Parini ad Alfieri, da Foscolo a Manzoni per arrivare a Ungaretti e Quasimodo e così via.
Uno degli intenti che ci hanno animato dunque era quello di recuperare all’attenzione un genere di poesia che accanto alla creativa riflessione psicologica, filosofica, morale di natura individuale e intima più tipica della poesia lirica trovasse spazio quella storica, sociale, antropologica., cioè in definitiva civile e politica. Abbiamo chiamato il tutto: Di Epica nuova.
C’entra la poesia epica? Non quella nota. Né quella di Omero, né quella di Ariosto, né quella degli eroi galattici. L’eccezione, inutile dirlo è Dante, maestro di epica lirica. Ma tutto il resto è un mondo arcaico. Vero è che le propaggini, e non solo propriamente quelle, del mondo patriarcale antico arrivano fino a noi.
Zeus fulmina gl’infedeli e stupra ogni giovinetto e giovinetta che incontra, mentre Giunone, votata alla fedeltà, si vendica appena può sugli/lle amanti e figl* di lui. Una normale vita di famiglia patriarcale divina da cui discendono noti effetti tra umani: sistemi appassionati di competizione, guerre, genocidi, devastazioni, fino al totale consumo dei viventi e dell’inorganico. Il tutto oggi sotto le regole di ferro del neocapitalismo liberale all’insegna di servitù e signorie.
In questo quadro per molti versi drammatico, nel quale le poesie si mettono tra loro in febbrile ricerca di una precisa identità, noi ci collochiamo, verosimilmente, per usare un’espressione di Pier Giorgio Bellocchio, ‘al di sotto della mischia’. Un po’ anche per evitare quello che Walter Benjamin chiama il ‘chiacchiericcio sulle cose vere’ di cui i social sono piuttosto responsabili.
Al di sotto dunque dei generi poetici (coi loro presunti canoni) e anche della parola non sessuata (il maschile considerato neutro universale), ma con ragioni buone: a noi sembra infatti che comunque poesie e autori e pubblico delle poesie stanno mutando, stanno trasformando toni e accordi, fiati e archi, modanature e nodi, chiavi di volta e perni e nessi in molteplici stringhe di mondi paralleli per ora poco visibili.
C’è stato un momento dopo un paio di anni di messa a punto dei temi che ci interessavano, in cui abbiamo cominciato a sentire la necessità di misurarci con la realtà che avevamo intorno. Abbiamo prima avviato incontri (tenuti perlopiù nella libreria Franco Angeli in bicocca a Milano) ma poi aperto un blog, dando inizio a un dibattito che è durato anni, ricco degli interventi critici ma anche dei versi che tutt* hanno voluto pubblicare.
Tutti gli interventi erano passati attraverso una premessa ufficiale nella quale dichiaravamo che eravamo agli antipodi della intenzione di fondare qualcosa che potesse assomigliare a un nuovo canone. Non abbiamo mai chiesto a nessuno alcuna adesione, ci è bastato arricchire il dibattito con presenze che a nostro avviso si avvicinavano a certi requisiti, quali si sono andati precisando nel corso del lavoro e che possono essere riassunti così:
1) l'assunzione di una tensione nei confronti della Storia declinata sia come memoria che come tensione col presente stesso in quanto storia ( soggettività più o meno impreviste come migranti, femminismo, virus...).
2) l'assunzione del conflitto tra soggettività poetante e il presente nelle sue molteplici declinazioni, come consapevole linea di demarcazione rispetto alle astrattezze liriche o meno.
Fuori da questa impostazione c'è una gran quantità di poesia bella. A noi però sembra che la critica segni il passo, al di là delle individuali sensibilità e competenze linguistiche, letterarie ecc. E anche al di là delle capriole sullo sperimentalismo linguistico, che per noi ha diritto a ogni cittadinanza a patto che non resti fine a se stesso.
A ridare vigore alla critica in fondo potrebbe anche servire un dimensionamento quale quello che proponiamo. Ma forse a noi serve semplicemente per rimanere in grado di riconoscere la poesia dentro la complessità stordente del presente, le sue superficialità, le sue fumisterie.
Il nostro blog è tuttora vivo a questo link: www.diepicanuova.blogspot.it
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Venerdì 30 Giugno 2023 08:41 |
di Claudia Mazzilli Claudia Mazzilli legge la poesia di Gloria Anzaldua, poeta ancora poco nota in Italia, all'incrocio tra poesia epica e denuncia di sessismo, classismo, razzismo.Gloria Anzaldúa, Terre di confine / La frontera. La nuova mestiza, Black Coffee edizioni, 2022 [...] Cuando vives en la fronterala gente ti cammina attraverso, il vento ti ruba la voce, sei una burra, buey, capro espiatorio, anticipatrice di una nuova razza, mezza e mezza – sia donna che uomo, né l’una né l’altro –
un nuovo genere; [...]
Nelle Terre di confine sei il campo di battaglia dove i nemici sono parenti fra loro; sei, a casa, una straniera,
le dispute di frontiera sono state risolte
la raffica di colpi ha infranto la tregua sei ferita, dispersa in azione, morta, rispondi ai colpi; [...]
(Vivere nelle Terre di confine significa che, pp. 265-66)
Una scrittura radicata nella coabitazione di più mondi in continua transumanza, nei graffi e nelle ferite aperte dalle quasi duemila miglia di filo spinato tra Messico e Stati Uniti. Una narrazione di resistenza a qualsiasi stigma (razzismo, classismo, omofobia) ma anche una poesia della trasformazione psichica, del passaggio, dell’abbandono degli ormeggi, che dà coraggio a chi ha superato i confini di ciò che è presunto come “normale”. Una prosa-poesia intima ed epica insieme, che sa ripetere incantesimi per suscitare amore nella donna amata, ma sa anche fotografare lo sfruttamento, la povertà, le diaspore dei reietti tra le terre di confine, come sa perdersi nei vapori impalpabili ma non meno veri dell’immaginazione, quando recupera con orgoglio queer alcune suggestioni androgine dai miti dei nativi, o quando attinge alle simbologie arcaiche delle antiche divinità femminili precolombiane relegate in un’oscurità mostruosa e sinistra, prima dalla cultura azteca in fase di patriarcalizzazione, poi da quella cattolica dei conquistatori europei, che alle antiche dee ha definitivamente sostituito la Vergine di Guadalupe. E ogni volta che invoca le dee, Gloria intona un canto di resistenza alla cultura etero-patriarcale, suprematista, violenta e guerrafondaia, ma soprattutto si riconnette con le sue origini indie.
[...] L’ultima volta mi condannasti a questa pena: anni e anni di tua assenza. Che grande rinuncia mi hai chiesto. E ora per tutte le terre lacerata ti cerco. Antica, la tua figlia errante non può raggiungerti. Dammi un altro segno un’altra briciola della tua luce. La mia pelle in fiamme desidera conoscerti. Antica, mia dea, voglio nascere un’altra volta nella tua nerissima pelle. (Antigua, mi diosa, p. 257)
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Giovedì 02 Dicembre 2021 10:53 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Scorza : rivestimento esterno di piante, pelle di frutti, pelle di animali, soprattutto rettili, apparenza, aspetto esteriore di persone
Scorza
L’aveva conosciuta durante una gita scolastica al Museo del Deserto a Tucson, due ore di viaggio in autobus, una breve sosta all’ingresso e poi via tra sentieri costeggiati da jumping cholla, grande il divertimento di fronte agli sforzi di turisti imprudenti alle prese con i ciuffi spinosi e dispettosi, all’inizio ridevano, dopo un po’ rimanevano sconcertati dal fatto di non riuscire a scuoterli via dalla stoffa, più si agitavano e più si riempivano, infine spazientiti e allarmati si guardavano le mani doloranti, piene di invisibile spini. L’unico momento noioso della mattinata era previsto fosse la conferenza sui rettili nella sala grande del Teatro del Museo, tappa obbligata del viaggio di istruzione, invece il Mostro di Gila l’aveva incantato. Appoggiato sul banco, molestato dal bastone brandito dall’erpetologa, che sollecitava i suoi lenti movimenti, lo rivoltava, lo pungolava per mostrare a un pubblico per metà affascinato e per metà disgustato la potenza delle mascelle, la lunghezza degli artigli arcuati, le squame della scorza dai brillanti colori aposematici, nero e giallo, con sfumature arancio. Il Mostro così inerme di fronte a chi sghignazzava, chi mostrava orrore, chi lo irrideva, gli aveva fatto pena. Gli risuonarono nelle orecchie per giorni le parole della donna che aveva illustrato la pericolosità del veleno, la presa dei denti incurvati, che si incastrano nella carne della vittima, senza che si riesca a allentare il morso, che aveva elencato, con un po’ di enfasi, a suo giudizio, il numero di persone morte per il veleno e quelle sopravvissute perché curate in tempo, ma a lungo in preda a atroci dolori.Ne aveva parlato in casa, l’unico che l’aveva ascoltato con attenzione era stato il nonno, che ricordava i racconti sentiti da bambino dai vecchi della riserva nella quale era nato e cresciuto, storie popolate da Mostri di Gila che sputavano veleno contro i malcapitati che li incontravano, che uccidevano con il respiro chi passava accanto a loro senza accorgersi della presenza su un albero, sotto un cespuglio, dietro un cactus. Ne aveva studiato sull’Enciclopedia il nome scientifico, Heloderma suspectum, l’habitat, le abitudini di vita, aveva scoperto con quante esagerazioni e inesattezze fosse stato presentato al Museo un animale timido, che sta spesso nascosto, difficile da incontrare se non di notte o di mattina presto. Non risultavano neppure persone morte a causa del suo veleno, unica verità il dolore acutissimo che provoca e lo stato di intossicazione che richiede terapie tempestive e intensive in ospedale.Negli anni si era convinto che il Mostro del Museo fosse un esemplare femmina, qualche volta immaginava che fosse fuggita dall’orrida erpetologa e si fosse rifugiata nel deserto circostante.
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Sabato 21 Marzo 2020 21:50 |
di Paolo Rabissi
Cosma impiegato della multinazionale Nestlè. Capitolo secondo.
Come accade, Cosma aveva cominciato a sentirsi vivo solo dopo aver ottenuto il diploma di maturità a Milano, dove la famiglia si era trasferita. Non ebbe nessuna esitazione, cercò un lavoro e s’impiegò come contabile alla Locatelli, un’azienda casearia allora di proprietà della multinazionale Nestlè, con sede nella Torre Velasca. Un anno a fare conti, controllare conti, proiettare conti, neanche avesse alle spalle un diploma di perito contabile. Fuunanno di straordinaria euforia ma anche di malessere. Cosma cercava di raccapezzarsi tra la tentazione di integrarsi definitivamente nella società milanese, col suo diploma di prestigio e un mensile di tutto rispetto, e il fatto che la sua testa era costantemente rivolta alla letteratura, all’arte, alla storia, alla filosofia, alla scienza. Cioè a tutto quanto aveva superficialmente conosciuto al liceo ma verso cui provava grande attrazione. Ma il richiamo all’integrazione nella milanesità era irrrinunciabile. Dalla nascita a Trieste fino all’arrivo a Milano aveva vissuto e frequentato scuole in mezza dozzina di città e cittadine con l’ospitalità, non sempre generosa e disinteressata, di parenti o conoscenti. Già approdare alla sicurezza economica significava rompere con l’indigenza famigliare passata e quel nomadismo subìto, significava accomodarsi in una stanzialità a lungo desiderata. Tanto più la strada per quella integrazione sembrava ormai alla sua portata per via di quella assunzione negli uffici contabili della Locatelli, in quel grandioso grattacielo.
Non gli ci volle molto per rilassare la postura ingessata dei primi giorni, sciogliere le gambe sotto la scrivania, adoperare senza timore la macchina da scrivere nonché quell’oggetto infernale e rumoroso che era la macchina calcolatrice.
Lo stanzone aveva dei grandi tavoli dove erano al lavoro mezza dozzina di impiegati anche loro rumorosi e mai fermi, andavano e venivano dal centro meccanografico sotterraneo portando e riportando le schede perforate che contenevano i dati delle operazioni di vendita. Questo viavai sui rapidissimi ascensori del grattacielo si univa a quello di venditori, imprenditori, impiegati e dirigenti di altre aziende ospitate ai piani alti. Ogni tanto tutto si intasava e in ufficio c’era un alternarsi di argute osservazioni e finti sdegni sull’efficienza di uno dei massimi simboli della modernità milanese.
Un enorme fallo…! aveva commentato Matteo.
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Mercoledì 16 Ottobre 2019 15:58 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Sfocature
Così osserva Franco Romanò nella lettura di questi racconti che appare in coda ai testi: "Ellissi e rapidità della scrittura, periodizzazione secca e stringata - nella quale si sente a volte l'eco di Agotha Kristoff molto amata dall'autrice - repentini cambi di scenario creano intorno a queste concrezioni di senso un vuoto oppure delle sfocature, delle distorsioni. Tali concrezioni, tuttavia, sono a loro volta una mescolanza di elementi presi dalla realtà, dal sogno, dal libero flusso di pensieri."
Distorsioni
Impegnata a sistemare nel bagagliaio dell’auto una scatola tra valigie, sacche e borse, non si accorge dell’uomo fermo dietro di sé, immobile tranne che per il pomo d’Adamo che sale e scende in modo rapido. Si volta con un breve sorriso accompagnato da uno sguardo interrogativo, l’uomo si riscuote e passa oltre, senza parlare, come preso da urgenza. Tra una divagazione della mente e l’altra ripensa a quando ha rischiato di esporsi a sguardi indiscreto quell’azzardo sporadico, oscillante tra spavalderia e ritegno, di girare in minigonna senza slip. Ma forse l’ha immaginato, o l’ha sognato.
Al lavoro non ama distrazioni che non siano l’abbandono al fiume sotterraneo di pensieri-emozioni nel quale immergersi e nuotare, ogni tanto. Si racconta storie delle quali è protagonista, sorride o rabbrividisce durante la narrazione. Nessun disturbo o interruzione. D’all'esterno, osservando attraverso il vetro opalescente dell’ufficio, sembra si stia svolgendo qualcosa che non può essere interrotto. Quando riemerge constata con soddisfazione di aver ha ampliato per qualche tempo l’arco di vita.
Desidera con forza essere apprezzata, un po’ temuta anche, a volte si chiede quanto influisca sull’ammirazione che ricerca con meticolosità, l’aspetto fisico, o l’intelligenza esibita senza arroganza, la cortesia dimostrata nelle relazioni anche occasionali, la competenza nel suo lavoro
Non sa se preferisce gli uomini o le donne.
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Lunedì 13 Maggio 2019 12:49 |
Introduzione di Paolo Rabissi
Proponiamo, tratto da DEP. Deportate, esuli, profughe rivista telematica di studi sulla memoria femminile, numero 38 del novembre 2018, il contributo di Augusta Molinari "Superare i confini della scrittura. Corrispondenze femminili e rapporti coniugali in alcuni epistolari contadini della Grande Guerra". Presentazione di Paolo Rabissi e nota finale di Adriana Perrotta Rabissi
Augusta Molinari, insegna storia contemporanea all’Università di Genova. Si è occupata di storia delle migrazioni storiche italiane, di storia del lavoro, di storia delle donne. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Donne e ruoli femminili nell’Italia della Grande Guerra, Selene, Milano 2008; Les migrations italiennes au début du XXe Siécle. Le voyage transocéanique antre évenèment et récit, L’Harmattan, Paris 2014; Una patria per le donne. La mobilitazione femminile nella Grande Guerra, Il Mulino, Bologna 2014. E' tra i fondatori dell’Archivio ligure della scrittura popolare.
Il saggio si propone di cogliere il ruolo che ha avuto la Grande Guerra in Italia nel ridefinire le relazioni di genere e le gerarchie patriarcali nel mondo contadino. La familiarità con la pratica della scrittura acquisita durante la guerra da parte di donne scarsamente alfabetizzate riuscì a superare la staticità dei ruoli sessuali e incrinò il dominio patriarcale.
Nulla come la guerra capovolge i ruoli sociali tra uomo e donna, nulla come la guerra svela come falsa la presunta ‘naturalità’ della divisione dei ruoli. Quella che ospitiamo qui è una corrispondenza tra coniugi contadini durante la prima guerra mondiale e occorre subito dire che la corrispondenza femminile solo da poco è stata valutata di interesse come fonte storica (anche grazie all’opera dell’autrice). Questo scambio epistolare ci offre anzitutto l’immagine di donne che in assenza dell’uomo assumono con ‘naturale’ facilità compiti e responsabilità fin lì di pertinenza dell’uomo: amministrazione dei semi, dei raccolti, delle vendite al mercato, ecc. nonché la cura di tutte le relazioni sociali legate a queste attività. Ma paradossalmente oltre ai segni di una ‘mascolinizzazione’ dei modi di fare della donna, troviamo anche quelli di una ‘femminilizzazione’ dell’uomo che, piegato dalla quotidianità della guerra e spesso dal sentimento della prossima fine, apre la sua scrittura a manifestazioni di affetto e di amore la cui mancanza effettiva gli fa rimpiangere il calore del corpo e della sessualità della moglie. Sentimento nel quale anche lei viene coinvolta con una tensione sentimentale e appassionata che trasuda dalle righe di queste lettere. La parziale messa in crisi dei ruoli patriarcali, pronti ad essere recuperati alla fine della guerra, lascerà qualche segno nel futuro. Sia nel caso dell’uomo che della donna lo sforzo di comunicare tra loro con la scrittura li ha costretti a una ricerca febbricitante di espressioni di senso che dessero corpo ai loro sentimenti d’amore verso la propria unione, verso la vita e il proprio destino umano. Per tutte le coppie prese in esame, ma anche per quelle non presenti, un percorso quasi di autocoscienza e di liberazione di pensiero critico che non potrà non lasciare segni nella loro vita futura, se ci sarà stata. Ma non sarà certo il fascismo, fedele interprete delle strutture millenarie del patriarcato e di quelle rapinose del capitalismo, a raccogliere di lì a poco questi aneliti di libertà dai ruoli.
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La fatica della scrittura
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Domenica 04 Febbraio 2018 11:11 |
di Gianni Trimarchi
Il contesto del neorealismo
Nel dopoguerra italiano si erano riaperte le sale da ballo e i cinema, con grande partecipazione delle masse popolari che, dopo anni di austerità, ritrovavano il piacere di divertirsi. Se nelle sale imperavano le nuove danze americane, gli spettacoli cinematografici erano costituiti da pellicole americane, che importavano un nuovo modello di vita. I risultati furono imponenti: a Napoli 6.000 persone parteciparono alla prima de Il grande dittatore di Chaplin. A Firenze quasi 60.000 persone si recarono a vedere lo stesso film. Mentre prima del confitto si vendevano 138 milioni di biglietti all’anno, nel 1946, la vendita salì a 417 milioni.[1]
Si trattava però di un cinema di evasione, di origine hollywoodiana, destinato a mettere in atto l’adorazione dei divi e insieme del consumismo, facilmente riportabili all’American Way of Life. Questa trovava consensi nelle masse, che riconoscevano nel modello americano qualcosa di più evoluto rispetto al modo di vivere diffuso in Italia. Anche la classe dirigente era peraltro incline ad approvare questo modello, se non altro per i suoi contenuti a carattere implicitamente maccartista, che risultavano utili nella gestione del potere. Vedremo tuttavia che anche la sinistra storica ebbe curiose ambivalenze e sordità nei confronti della politica mediatica di quegli anni.
Una nuova definizione del cinema
In un contesto di grande fruizione cinematografica, c’era in Italia chi si poneva il problema di produrre, anche se le condizioni di lavoro erano difficili. Cinecittà era diventata un rifugio per gli sfollati e comunque i teatri di posa erano poco agibili, a causa della scarsità di energia elettrica che caratterizzò il dopoguerra. Diventava quindi una necessità il fatto di girare i film per le strade. Alcuni intellettuali italiani sentivano tuttavia la necessità di avere una poetica che giustificasse questa scelta, riscattando la dimensione spettacolare da un giudizio totalmente svalutativo, assai diffuso nell’Italia degli anni cinquanta.
Questo giudizio partiva da una definizione della mente molto vicina a quella dell’intelletto matematico, ignara del fatto che già in Kant l’immaginazione “schematizza senza concetto”, in Freud si parla di dinamica della regressione e in Vygotskij di catarsi. Varie elaborazioni in senso contrario erano tuttavia già state fatte sia in Francia che in Russia. Già un’ironica frase, scritta da Ejzenstejn negli anni trenta, sembra fare il punto sulla questione.
“Il contatto con l’arte porta lo spettatore a un regresso culturale. Infatti il meccanismo dell’arte si definisce come mezzo per distogliere la gente dalla logica razionale […] Fu Vygotskij a dissuadermi dal proposito di abbandonare questa “vergognosa” attività.”[2]
Certo non stupisce il fatto che Vygotskij, fenomenologo e fondatore, insieme a Lurija, della società psicoanalitica moscovita, conoscesse gli aspetti positivi della regressione e vedesse proprio nell’arte una loro applicazione significativa. I neorealisti fecero tesoro di questa lezione: il problema che si poneva loro era infatti quello di creare un cinema capace di dare un contributo alla vita sociale del paese svolgendo un’azione critica e non di evasione. Alla base delle loro riflessioni si trovava un sostrato culturale molto ricco, riferibile al naturalismo e al realismo francese, al verismo di Verga e al realismo socialista, da cui emergono spunti significativi. Vanno qui ricordati anche il saggio di Benjamin sull’opera d’arte che ne definisce le nuove funzioni e infine il realismo di Bazin.
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Venerdì 26 Gennaio 2018 16:04 |
di Franco Romanò
Lo scritto di Adriano Voltolin è un invito a fare i conti di nuovo con il sentire comune e la cultura di massa e ha stimolato in me molti ricordi assopiti che hanno a che fare non solo con il cinema.
Subito dopo la caduta del muro di Berlino, quando iniziò anche nel PCI l'operazione trasparenza che raggiunse il suo culmine con Occhetto, si seppe che nel partito c'erano delle cosiddette coperte, cioè iscritti che per il ruolo che svolgevano era bene tenere riservate. Il pensiero in questi casi corre naturalmente a uomini inseriti nell'apparato dello stato per cui la sorpresa fu grande quando si seppe che fra le tessere coperte c'erano quelle di Aldo Biscardi (proprio lui il decano dei giornalisti sportivi con il suo italiano fantasmagorico, recentemente scomparso) e un ex direttore della rivista Grand Hotel. Naturalmente fu Biscardi ad attirare su di sé le attenzioni e tutte le ironie del caso: si disse che erano tessere coperte per la vergogna di farlo sapere ecc. ecc. A ben vedere però la vera notizia è l'altra e cioè che ci fosse un direttore di Grand Hotel, l'antesignano di tutti i fotoromanzi e delle riviste più o meno dedicate ad amori improbabili; scampoli di quella cultura di massa generalmente catalogata con un certo disprezzo come stampa d’evasione, in particolare dagli intellettuali di sinistra, ma che merita invece maggiore attenzione. Questo l’episodio relativamente recente, ma esso ha alle spalle una lunga storia e cioè l’origine del fotoromanzo come genere. Esso nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto, ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione: Il fotoromanzo 174 pag., Euro 12.00 - Edizioni il Mulino (L'identità italiana n.22) ISBN.
Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L'intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l'uscita - nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. Per quello che riguarda questo mio intervento, ciò che maggiormente mi interessa mettere in evidenza, è l’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche di riflesso della Dc, in parte, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni che furono immediate.
La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.
Seconda fase. Cosa accadde nel giro di pochi anni per determinare un atteggiamento completamente diverso da parte comunista? Bravo lo ricorda e accenna a un dibattito interno assai riservato, in cui ebbero una parte attiva e alla fine vincente intellettuali come Cesare Zavattini, Damiano Damiani, Oreste Del Buono. Da quel dibattito nacquero imprese editoriali che approdarono direttamente nell’ambito politico durante la campagna elettorale del 1953 (Legge truffa), che fu combattuta anche a colpi di fotoromanzo, con grade panico da parte democristiana, che dovette correre ai ripari, vista l’efficacia del genere. Fra le chicche che si scoprono ripercorrendo questa vicenda ci sono anche Andreotti e Scalfaro impegnati nella proposta di fotoromanzi di carattere religioso. Infine, dulcis in fundo, a Cesare Zavattini si deve l’idea della rivista Bolero, Oreste Del Buono fu il primo a cimentarsi in una letteratura popolare i cui protagonisti fossero operai e contadini e Damiano Damiani scrisse le prime di queste storie. Tornando a Zavattini, il programma su cui nacque Bolero era molto chiaro: una rivista per le cameriere, rivolta a un pubblico femminile di lavoratrici e casalinghe. Il genere avrà una sua evidente vitalità fino agli anni Settanta e dei primi Ottanta, con storie che affronteranno temi come contraccezione e aborto.
La terza fase riguarda il cinema e dunque il saggio di Voltolin; ma a questo va aggiunto anche un altro aspetto della cultura popolare di quegli anni e cioè i cambiamenti che avvengono nell’ambito della canzone, della musica cosiddetta leggera.
La prima domanda che mi sono posto è come mai i vincenti Zavattini and company sul piano editoriale, venivano tenuti in palmo di mano dal Pci ed esaltati come intellettuali proletari, mentre i registi citati da Adriano Voltolin venivano bollati da Aristarco, anch’egli intellettuale di punta del partito, come pornografi dei sentimenti?
A mio giudizio le ragioni sono tre, relativamente autonome fra di loro.
La prima sta nella diffidenza che la cultura comunista italiana ebbe sempre, nei confronti delle avanguardie artistiche e della settima arte, specialmente in quegli anni. Non bisogna dimenticare che la cultura di fondo della dirigenza comunista era profondamente intrisa di cultura umanistica, molti sarebbero stati dei buoni professori di lettere e di latino. Il nume tutelare di quella cultura era Francesco De Sanctis, reinterpretato da Gramsci: nonostante le avanguardie sovietiche, sia nel cinema sia nella grafica avessero aperto le porte del 900 fra le prime e proprio nella Russia del primo decennio e poi nel decennio seguito la Rivoluzione Bolscevica, lo stalinismo aveva poi spazzato via tutto.
La seconda ragione sta nella nozione complessa e spesso ambivalente anche in Gramsci, di nazional popolare. Il dibattito che precedette la svolta del 1953 verteva su questo e sul modo di recepire quel concetto. Anche Pasolini, con la sua esperienza di direttore per un anno della rivista Vie Nuove, si pose questo problema e fu in sintonia con Zavattini e gli altri: la rottura sarebbe avvenuta dopo ed è assai interessante cogliere i diversi passaggi della riflessione pasoliniana che avvenne per tappe. Può sembrare strano ma il primo passo di questa rottura avvenne a metà degli anni 60 con la polemica sul festival di Sanremo, avviata da Calvino e Fortini cui aderì in un primo tempo Pasolini medesimo.
Tornando al cinema, la sua ricezione da parte della cultura comunista è molto più ambivalente di quanto sembri, come tutte le novità tecnologiche di quegli anni, televisione compresa. Il neorealismo duro dei primi anni del dopoguerra era del tutto conforme alla poetica del realismo socialista reinterpretato in chiave italiana e per questo fu accettato senza problemi; ma già con De Santis regista le cose non sono così semplici come sembrano. Voltolin non lo ricorda nel suo saggio ma ne abbiamo parlato diverse volte. Riso amaro suscitò un notevole scandalo nelle sezioni del Pci e Togliatti dovette impegnarsi personalmente in un giro d’Italia nelle sezioni per difendere la pellicola come grande opera sul lavoro. Qual era il motivo dello scandalo? Le cosce delle mondine, che per non bagnarsi gli abiti arrolotavano le gonne per poter svolgere il loro lavoro. Che differenza c’è fra quelle immagini e quelle dei fumetti o fotoromanzi che raccontavano storie spesso anacronistiche rispetto alla vita che facevano i loro lettori e le loro lettrici? La risposta sta anche nella differenza fra parola e immagine. Le storie popolari di Damiani o le vite di Bolero e Grand Hotel, erano pur sempre letteratura e ubbidivano a un’esigenza di alfabetizzazione di un popolo ancora in larga parte analfabeta che poteva trovare anche in quelle storie uno strumento efficace di acculturazione. Con il cinema del dopoguerra, libero dalle censure e dalla retorica progagandistica fascista, comincia un’altra storia che la cultura comunista cavalcò entusiasticamente con il neorealismo, cominciò a non capire più dalla metà degli anni sessanta in poi finendo per sottovalutarla e poi per subirla. Oppure reagì con una scissione schizofrenica. Da un lato ammiccare agli intellettuali e al pubblico colto osannando Antonioni e fingendo di capirlo, oppure difendendo la sua tradizione umanistica e popolare fatta di biblioteche delle sezioni tutt'altro che banali e di una lettaratura di massa di cui faceva parte anche il fotoromanzo; il tutto però, separato dalla cultura alta che andava per un’altra strada.
Nel mezzo si faceva strada, grazie al cinema, una cultura di massa che preparò molte cose fra cui i movimenti della fine degli anni sessanta, che infatti sorpresero del tutto la cultura comunista: dal quel momento inizia anche il declino politico del partito, nonostante i successi elettorali. Il declino culturale viene prima, con buona pace del nesso struttura sovrastruttura e riguarda proprio l’incomprensione delle dinamiche che andava prendendo la cultura di massa ed è qui che entra in scena un protagonista che sembra minore ma non lo è: la canzone. Il primo ad accorgersene fu Pasolini quando, prendendo le distanze dalla polemica sul Festival di Sanremo riconobbe che (cito a memoria) niente poteva rappresentare meglio l’estate del 1964 di Sapore di sale di Gino Paoli.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Mercoledì 09 Novembre 2016 14:55 |
di Franco Romanò
Partendo dall'analisi di un libro scritto da un gruppo americano, il Critical Art Ensemble, si esplorano le relazioni fra realtà virtuale e vita materiale.
Starting from the the analysis of a book written by the American group Critical Art Ensemble, are explored the relatiobnships between virtual reality and material life.
Premessa
Leggendo gli interventi delle femministe neo materialiste sulla necessità di mettere in crisi il concetto e l’idea di anthropos, allargando alla zoe il campo di riferimento, mi sono ricordato di un dibattito sorto durante gli anni ’90 dopo la pubblicazione da parte del gruppo americano Critical Art Ensemble, di un pamphlet edito in Italia da Castelvecchi (Sabotaggio elettronico) che parlava della rete informatica come di un Corpo senza Organi asettico e pulito, in grado di spostarsi ovunque, isomorfo e imprendibile; quintessenza, dunque, di una spiritualità assoluta, cui diedero anche il suggestivo appellativo/ossimoro di bunker nomadico. L’espressione usata dal gruppo nordamericano non ha nulla a che vedere con l’uso che della medesima espressione fanno Deleuze e Guattari, sebbene l’accenno che viene fatto nel pamphlet all’opera di Artaud faccia pensare che ne fossero a conoscenza.
Del Critical Art Ensemble mi ero occupato anni fa con un testo rimasto inedito dopo varie vicissitudini e che qui propongo per la prima volta, con pochissime modifiche o ulteriori specificazioni su alcuni esempi che mi sembravano datati. Lo propongo nella rubrica Dopo il Diluvio poiché, pur essendo legato alle problematiche trattate su questo stesso numero nelle altre rubriche, gli esempi prevalenti e il punto di vista che ho scelto per la mia riflessione critica, riguardano la letteratura e le arti.
IL CORPO SENZA ORGANI.
Finché gli esseri umani saranno dotati di un corpo fisico e di una vita emozionale, nel solo virtuale non potranno esaurirsi le relazioni sociali e neppure quelle interpersonali. L’esplicarsi totale delle relazioni all’interno del circuito nomadico virtuale da parte di Corpi senza Organi, così come viene ipotizzata dal gruppo nordamericano Critical Art Ensemble, sarebbe possibile solo se noi fossimo davvero dei viventi virtuali; ma anche gli esempi notissimi di Second life o altro, si limitano ad aggirare il problema, trasportando semplicemente nel virtuale le parti scisse e non integrate di un soggetto che rimane dotato di un corpo fisico; parlo naturalmente degli utenti che si affidano a Second Life e non agli omini di burro che gestiscono il network e il business.
Una tendenza non piccola della cultura e della letteratura del ‘900 sembra prefigurare un esito simile. La grande arte è sempre un po’ profetica e allora sarà bene rivolgerci anche a queste avventure della narrativa e del teatro novecenteschi, ma anche di coglierne il sostrato ideologico. Potrà sembrare sorprendente che in questo elenco manchi La Metamorfosi di Kafka, ma ciò è dovuto alla diversa motivazione del grande praghese rispetto agli autori citati qui di seguito.
La parabola dell’opera di Samuel Beckett, per esempio, da Waiting for Godot fino a Happy days e Endgame, disegna un futuro abitato da una natura umana diversa da quella che conosciamo; oppure, addirittura, un mondo in cui la vita prende strade differenti e la nostra non diviene altro che un residuo in via di estinzione. L’inanità dei personaggi nei romanzi di Beckett è il segno palese di un’impotenza che diviene metafora dell’incapacità occidentale a trovare un senso al proprio percorso di civiltà, cui fa da contraltare un catastrofico delirio di onnipotenza che si manifesta nei confronti della natura così come dei popoli e delle culture altre. Spacciata per troppo tempo come cultura o letteratura critica, l’opera di Beckett ci mostra invece fino in fondo i limiti di una criticità che, se spinta fino a questo estremo, si rivolge nel suo contrario, trasformandosi in una più o meno involontaria apologia dell'esistente, oppure in una narcisistica contemplazione della sua fine. L'Occidente riflette al proprio interno e riversa sugli altri il proprio senso di morte, la letteratura e il pensiero nichilisti lo registrano come se fossero i notai di questa civiltà in declino e non è davvero un caso che a pochi decenni di distanza da queste opere, i nuovi guru della tecnologia attraverso progetti quale il Genoma1 facciano balenare lo spettro di un'umanità mutante e quello della fuga dal pianeta ormai inservibile: mi riferisco ai progetti di costruzione di navi spaziali in orbita lunare che dovrebbero contenere decine di migliaia di persone. Lo stesso rischio, tuttavia, lo corrono anche coloro che vedono nella tecnologia informatica qualcosa di totalmente nuovo. Intendo dire che qualsiasi innovazione tecnologica, dall’invenzione delle prime tecniche agricole fino alle ultime frontiere, è sempre stata sentita da alcuni come una minaccia catastrofica, oppure accolta acriticamente. È una storia vecchia quanto il mondo. Ricordiamo tutti le parole allarmate ma anche ingenue di Platone all’avvento della parola scritta che avrebbe arrecato danni enormi alla memoria.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Martedì 10 Novembre 2015 13:36 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Il romanzo di Paola Masino Nascita e morte della massaia è una feroce demitizzazione del ruolo della massaia considerato l'essenza naturale del femminile. Scritto in una lingua sorprendentemente moderna a distanza di quasi settant’anni costituisce una lettura imperdibile ancora oggi.
Birth and death of the housewife, a novel written by Paola Masino, is a ferocious demystification of housewife role, which is considered the natural essence of female attitude. The novel is written in a surprisingly modern language: although it was writeen 70 years ago, it constitutes must-read still nowadays.
Geburt und Tod der Hausfrau ist ein Roman von Paola Masino. Das Buch ist eine grausam Entmythologisierung der Hausfrau Rolle, dass die naturalisch Wesen der Frauen erwogen ist. Das Roman in einem außerordentlich modern Sprache geschrieben ist. Obwohl das Roman seit 70 Jahren geschrieben war, ist noch heute ein Muss.
Paola Masino scrisse dal 1938 al 1940 il romanzo Nascita e morte della massaia, che dopo una uscita a puntate su un periodico fu pubblicato nel 1945 . Il libro è suddiviso in nove capitoli, che costituiscono le tappe di un romanzo di formazione femminile. Quando uscì apparve dissacrante, tanto che per la pubblicazione sul giornale Masino dovette adattarsi ad alcune modifiche lessicali, perché non fossero identificati ruoli pubblici e il paese di svolgimento della storia. Il romanzo riscosse consensi e successo nell’ambito della critica letteraria, ma non divenne certo un best seller. Anche nella mia lunga esperienza di insegnante di Storia della Letteratura italiana non ho visto citare l'autrice in nessun manuale scolastico, a differenza di altre scrittrici del Novecento, sempre troppo poche, rispetto alla pletora di scrittori indicati.
L’ho scoperta, come lettrice, tardi e ho anche sperimentato la difficoltà - più di una volta ho interrotto la lettura del romanzo, per riprenderla tempo dopo.- la difficoltà di proseguire speditamente nella lettura di un testo non lungo, scritto in una lingua che resta sorprendentemente moderna nella struttura sintattica e nelle scelte lessicali a distanza di quasi settant’anni, un racconto ricco di visioni, immagini inedite, a volte disturbanti, caratterizzato da cambi di registro e di generi letterari all’interno di uno stesso capitolo, una narrazione nella quale si alternano senza preavviso un io narrante e una narratrice esterna, provocando spaesamenti e disorientamenti che rendono la lettura imprevedibile.
Nel 1982 è stato riproposto da una casa editrice femminista, anche allora ha suscitato sorprese e consensi, è stato oggetto di studi e convegni da parte di studiose, ne sono stati riconosciuti il valore letterario e la carica eversiva, ma sebbene si fosse in tempi, costumi e sensibilità mutate rispetto al momento della prima uscita, il libro e l’opera complessiva di Masino sono restate letture di nicchia, amatissime da pochi/e, ignorate dai e dalle più.
Uno dei meccanismi fondamentali adottati da Masino consiste nel rovesciamento in negativo, a volte parodico, di tutte le fantasie e le aspettative di una donna legate al ruolo femminile socialmente e storicamente determinato di perfetta padrona di casa.
Un’ansia di perfezione ossessiva spinge la massaia a tentare di assolvere le varie funzioni legate al ruolo nel modo più accurato possibile, secondo il modello imparato osservando altre donne, ascoltando discorsi.
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Mercoledì 19 Luglio 2023 06:23 |
Di Franco Romanò
Premessa
La morte di Cormac McCarthy, a poca distanza dall’uscita in Italia del suo ultimo romanzo, sembrerebbe conferire ad esso il ruolo di testamento spirituale. In realtà, le cose non stanno così perché la casa editrice Einaudi ha in programma la pubblicazione di Stella Maris il prossimo settembre. Fra i due romanzi c’è un nesso che viene dichiarato anche nella presentazione de Il passeggero. La tentazione di attendere anche la seconda opera è stata forte, ma la lettura del libro e un’intervista rilasciata poco prima della morte, mi hanno convinto a scriverne subito. Il romanzo è da un lato un compendio di tutto quello che McCarthy ha scritto; in secondo luogo, come afferma nell’intervista concessa alla fine del 2022, quest’ultima opera è anche il distillato di una riflessione su scienza, antropologia e tecnologia che lo hanno visto impegnato nelle discussioni del Santa Fe Institute, fondato dall’amico fisico e premio Nobel Murray Gell-Mann. Dell’associazione fanno parte altri scienziati che discutono proprio sui temi più scottanti e attuali che riguardano il rapporto fra le scienze e la società. Il solo scrittore a far parte del gruppo è stato McCarthy. Mi è sembrato che nel romanzo ci sia proprio una eco di queste riflessioni recenti, che ne fanno un’opera in qualche modo definitiva. Il romanzo è costruito intorno a due diversi nuclei narrativi, a loro volta stratificati al proprio interno, che si alternano di capitolo in capitolo. Il primo nucleo, sempre in corsivo, inizia con una premessa, la scena del ritrovamento di un cadavere. Il secondo nucleo, scritto invece in tondo, comincia da uno spunto narrativo più immediatamente decifrabile: Bobby Western – nome quanto mai evocativo –1 sommozzatore di recupero di navi affondate, durante un’immersione vede un aereo che giace su un fondale con nove uomini morti a bordo. Bobby comincia ad avere dei sospetti, ma nel proseguimento del capitolo e nella conversazione fra lui Oiler - un altro sommozzatore - e Campbell, con cui discute dei suoi dubbi, le ragioni di tali preoccupazioni sono indicate in modo vago. La conclusione però è repentina e drastica: Bobby decide che è bene sparire.
La fuga
Tale scelta permette al narratore di costruire intorno al cliché del genere giallo una trama assai complessa e di chiamare a raccolta, in una ideale rappresentazione totale che spazia dal cinema, al teatro, al circo, i personaggi dei suoi romanzi precedenti. Se ci sono proprio tutti lo vedremo alla fine. Alcuni altri sono invece nuovi perché le tipologie più note - specialmente quelle maschili - della narrativa di McCarthy, vestono la fisionomia del tempo storico che hanno attraversato: allora ecco comparire un professore di fisica coinvolto nel progetto Manhattan - forse lo stesso Oppenheimer o addirittura il padre di Western medesimo. La costruzione del primo ordigno nucleare statunitense fu la sintesi novecentesca di quel male assoluto che accompagna dalle origini la narrativa dello scrittore. Alcuni altri personaggi sono strani poliziotti o agenti dell’agenzia delle entrate: cercano Bobby, gli fanno delle domande in momenti diversi, gli perquisiscono la casa, senza tuttavia arrestarlo e infatti la vicenda iniziale - quel velivolo sul fondale con nove morti a bordo e un decimo probabilmente sopravvissuto - sfuma nell’indeterminatezza. Questo nucleo narrativo è fatto di molteplici incontri, di dialoghi dalle diverse temporalità, visto che si tratta di personaggi che riprendono a parlare con quelli odierni: John Sheddan, Borman, Oiler, Kline, lo stesso Bobby, la nonna, una trans di nome Debussy. Proprio durante uno dei primi dialoghi con Sheddan e poi fra quest’ultimo e un personaggio femminile di nome Bianca, il ritratto di Bobby Western assume qualche contorno più preciso:
… Mi piace il tuo amico, disse Bianca. Bel culo.
Fai un buco nell’acqua mia cara.
Perché, è gay?
No. È innamorato.
Peccato.
Peggio ancora.
Cioè?
È innamorato di sua sorella.2
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Lunedì 17 Aprile 2023 13:02 |
Dopo la vita da impiegato contabile a Milano e dopo il periodo di lavoro manuale a Colonia (capitoli primo e secondo) nel nuovo capitolo inizia la storia di Cosma e Corinna.
Quando si sono conosciuti Cosma e Corinna portavano con sé quasi a pelle marchi invisibili di una ricerca inedita e universale di nuove libertà. Portavano con sé le lotte di liberazione dei paesi colonizzati, portavano con sé le lotte di liberazione dei neri, portavano con sé le lotte di liberazione femministe. Antirazzismo, anticolonialismo, antisessismo. Non dobbiamo dire più ‘negro’ perché è il termine adoperato per indicare la schiavitù. Non dobbiamo più dire ‘colonie’ perché i popoli colonizzati si stanno liberando dall’oppressione politico militare economica d’Europa e d’America. Non dobbiamo più dire ‘uomo’ per dire una ‘umanità’ che non comprende la donna. Libertà da secondo Novecento, senza nazifascismo, senza gulag, senza dittature, senza imperialismi. Tutto ciò poteva anche appartenere al sogno e al desiderio, eppure il progetto non era una semplice questione di diritti civili. Le guerre di liberazione dei paesi colonizzati dal Vietnam all’Africa e poi le lotte dei neri e delle femministe negli USA, almeno quelle di cui si cominciava a sapere in Europa quasi ancora solo oralmente o in opuscoli di diffusione limitata, tutte quelle lotte per la libertà ponevano il problema non solo e non tanto per il rispetto verso le cosiddette differenze. In molti si faceva strada la consapevolezza che quei problemi nati dall’oppressione e dal soffocamento delle libertà era possibile superarli solo con il superamento del sistema economico e politico legato all’esaltazione dei consumi, al basso valore dato al lavoro, alle gerarchie sociali e alle classi sociali stesse considerate un prodotto naturale. Una diffusa presa di coscienza che nasceva come reazione al silenzio dell’educazione familiare, al silenzio dei programmi scolastici che finivano con l’alba del Novecento. Nella maggior parte dei casi poi di quella coscienza in erba faceva parte una certa diffidenza verso il sistema dei partiti che governavano il paese. Di quest’ultima non erano sicuramente incolpevoli i genitori di Cosma e Corinna che da un lato non nascondevano le loro simpatie per il passato regime ma dall’altra, avendone vissuta e patita la sconfitta, suggerivano nella loro educazione dispetto e diffidenza verso tutti i partiti della repubblica democratica, fatta eccezione per il Movimento Sociale che si muoveva in maniera all’apparenza inconsistente.
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Lunedì 01 Novembre 2021 09:17 |
Di Franco Romanò
Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano: il biennio 1939-40 offrì al filosofo l’occasione propizia per renderle pubbliche. Perché riprenderle oggi? Anche noi ci troviamo in un passaggio epocale e da questa considerazione è nata l’idea di una riflessione su di esse, cercando di leggerle per così dire contropelo, cioè dal lato che sembra più improbabile per uno scritto così estremo e disperato: il lato della speranza.1
Benjamin parte da una critica radicale dello storicismo.
Dalla Tesi settima. Traduzione da L’ospite ingrato. Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medioevo era il fondamento della tristezza. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. … L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno … Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominato ridi oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato … Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.
L’identificazione con tutti i vincitori fa propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.2 La sua non è soltanto una critica del modello eroico. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile.
STORIA E PROFEZIA
Friederich Schelegel: Der Historiker is ein rückwärtsgekehter Prophet (Lo storico è un profeta rivolto all’indietro).
È possibile rintracciare nelle Tesi una luce, seppure flebile, che permetta di ricostruire una speranza concreta? Si può farlo e articolarlo intorno ad alcune domande ed alcuni exempla di Benjamin. Nella parte finale della seconda Tesi egli scrive:
… esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni altra generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.
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Sabato 04 Gennaio 2020 12:57 |
di Paolo Rabissi
Burattino 'per bene' in carne e ossa anche Pinocchio è lavoratore autonomo di secondo Ottocento precario senza mutua. Una lettura fuori dagli schemi disneyani e del nostrano realismo accomodato.
Il film Pinocchio del regista Matteo Garrone è attualmente nelle sale. E’ un film glaciale. Il critico Mereghetti sul CorriereTV dice meglio ‘una fredda illustrazione’, meglio perché aggiunge illustrazione. Dicono Sabatini Colletti del termine nel loro dizionario: Figura, disegno, fotografia che accompagna un testo a scopo esplicativo, documentario o ornamentale: i. in bianco e nero. Colori non mancano nel film, rimandano all’ocra delle terre toscane. E la fotografia accompagna magistralmente lo scopo esplicativo e documentario del libro di Collodi. Che resta però glaciale. Il Pinocchio che conosco è invece per me crudamente caldo. Mi sono interrogato sui motivi della scelta del regista. Ma ho lasciato perdere, mi sono invece piuttosto preoccupato del fatto che un Pinocchio così possa piacere ai bambini.
Il caldo crudo del libro di Collodi viene dalle avventure e dalla lingua, ricca di umori contadini e artigiani toscani. Sulle avventure non mi soffermo, sulla lingua aggiungo solo che Manzoni non l’avrebbe amata, scoppiettante di toscanismi com’è. Lui si sa con i dialetti non voleva averci a che fare. Collodi invece è spirito libero e scrive di seguito. Scrive libri per la scuola. Scrive per i ragazzi poveri com’era stato lui, ai quali qui un messaggio lo manda chiaro e forte: fate i matti finché potete ma fate presto, l’unico futuro che avete davanti è nella vostra capacità di trovarvi un lavoro. Perché nell’Italia degli anni ottanta (il libro esce tra il 1881 e il 1883) di lavoro se ne trova poco e semmai occorre inventarselo. Come oggi. Come ieri, ai tempi di Pinocchio, quando l’industria è ancora poca cosa e lo Stato non fa nulla.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Lunedì 21 Ottobre 2019 15:45 |
di Franco Romanò
Premessa
Antigone è tornata d’attualità durante questa estate e inizio d’autunno: prima Karola Rakete e poi anche Greta Thunberg sono state paragonate all’eroina classica in articoli di giornali, sui blog e in riflessioni più o meno estemporanee. Sono i casi più recenti, ma è pur vero che negli ultimi quindici anni sono stati pubblicati saggi ben più importanti che ripercorrono interpretazioni tradizionali della sua figura, insieme ad altri - ancor più interessanti - che ne offrono di nuove. I paragoni estivi mi sembrano superficiali, ma ciononostante da considerare, perché interpretano senz’altro un sentire comune diffuso, dal momento che sono stati riproposti più volte.
La sorella opaca
L’esaltazione di Antigone non mi ha mai convinto del tutto. Il personaggio è certamente fra i più affascinanti inventati dall’arte di Sofocle ed è, come tutti quelli classici, poliedrico, perché ritorna in scena più volte, in contesti, tragedie e narrazioni diverse. Antigone, in Edipo a Colono, per esempio, è un personaggio assai diverso e altrettanto grande, rispetto a quello più celebrato nella tragedia che porta il suo nome. Probabilmente, gioca a favore del testo sofocleo una maestria compositiva che tocca in Antigone (come in Edipo re) i suoi livelli più eccelsi: Hegel la definì, cito a memoria, la tragedia perfetta; mentre in Edipo a Colono la materia si diluisce di più.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Sabato 19 Maggio 2018 17:03 |
di Franco Romanò.
Il libro contro la morte è un atto di resistenza contro la facilità con cui si dà per scontata la sua natura. Secondo Canetti sarà così quando solo quando le cause non naturali della morte saranno eliminate, prima di tutto la guerra.
The book against death is an act of resistance against the easiness of considering it as a matter of fact. According to Canetti this will be possibile only when all unnatural causes of death are eliminated, first of all war.
El libro “Contra la muerte” es un acto de resistencia contra la facilidad con que se da por descontada su naturaleza. Según Canetti, esto será así hasta que las causas no naturales de la muerte no sean eliminadas, antes de nada, la guerra.
L'ultimo libro di Elias Canetti pubblicato in Italia ha un titolo ovvio se si pensa a gran parte della sua opera: un incessante lavorio attraverso miti, aforismi, sentenze fulminanti, narrazioni, tutti rivolti a una non accettazione della morte. Questo tema è presente anche nei momenti più apparentemente leggeri dell'Autobiografia. Ciò non toglie che di fronte a tale perentorietà non si rimanga ugualmente sconcertati e la critica, forse per imbarazzo, ha trovato diversi modi per aggirare il problema o tenerlo sullo sfondo senza renderlo troppo minaccioso. Il merito dell’edizione italiana, curata da Ada Vigliani, è invece proprio quello di prendere il toro per le corna. Il saggio di Pater von Matt, postfazione al testo, colma una lacuna e apre nuove prospettive alla critica canettiana. Il suo merito sta nel prendere l’autore sul serio e alla lettera, accettando il confronto con questo apparente assurdo che è il proposito di non cedere alla morte, di non accettarla, anzi di avanzare l'utopia di un'umanità che prima o poi riuscirà a liberarsene. Matt evita di parlare di metafora, parola che ormai serve spesso come passpartout quando si vuole scansare un argomento spinoso. Canetti, peraltro, è impregnato di cultura ebraica, pur essendo critico di molti suoi aspetti; in quella cultura il ruolo della metafora non ha la preminenza che ha in altre. La predilezine di Canetti per l’aforisma, la sentenza breve che ha alle volte anche forti connotati narrativi, pesca a piene mani proprio in quella tradizione: dalla storiella più o meno comica, alla parabola. Se mai a volte compare la similitudine.
L’idea di un libro dedicato interamente a questa tematica, peraltro, accompagnò Canetti per l’intera vita. Peter von Matt scrive di taccuini pieni di appunti e centinaia di matite consumate, tanto che l'inedito di Canetti sembra assumere le dimensioni del famoso baule di Pessoa dal quale continuano a uscire scritti, come peraltro conferma la figlia Johanna in una recente intervista dove parla del rapporto del padre con la religione:«Elias Canetti non era credente, ma dedicò alla religione molte delle sue riflessioni, circa 1.500 pagine. Nel 2019 verrà pubblicato un libro con le più importanti». Ma a quante pagine ammontano in totale gli appunti canettiani mai pubblicati? «Tra le dodici e le quindicimila»
In realtà, poi, Canetti lo ha lasciato incompiuto il suo libro sulla morte, probabilmente volutamente e anche in questo paradosso occorre andare a leggere.
Il saggio di von Matt cerca di collocare l’opera e l’intento di Canetti accennando ad altre imprese letterarie altrettanto ardue, ma a un certo punto della sua disamina, consiglia il lettore di non seguire oltre un certo limite lo scrittore nel suo proposito e di dedicarsi piuttosto alla ricchezza del testo. Si tratta di un consiglio ragionevole, ma solo in ultima istanza perché la curiosità rimane per quello che sembra un vero e proprio enigma. Una domanda ovvia si pone: perché un progetto così radicale e apparentemente irricevibile nella sua concretezza fattuale? Siamo di fronte alla reincarnazione di un Orfeo impazzito che vuole sbarrare le porte dell’Ade e farli ritornare tutti in vita? Oppure Canetti pensa forse alla scienza (non dimentichiamoci che fu pur sempre un chimico mancato), oppure bisogna cambiare radicalmente il tipo di domanda se si vuole tentare di capire? Von Matt stesso dice che forse occorre allontanarsi dal perché ed è quello che ho tentato di fare, abbandonando io stesso la domanda che mi sono posto per prima.
Una grande scrittura contiene sempre in sé anche la scelta felice di un punto di vista particolare sul mondo o su di sé o su qualsivoglia cosa, cioè un luogo da cui lo scrittore parla e scrive e che in qualche caso è stato addirittura il primo a scoprire.
Mi è venuto in mente, allora, un gioco molto semplice: proviamo a pensare a qualche grande autore, per esempio i primi che sono venuti in mente a me, ma ognuno può metterci quelli che crede. Da dove parla e scrive Baudelaire? Facile dirlo: dalle viscere di Parigi, da una città notturna o raramente albeggiante, dalle sue strade più malfamate o dal camerino dove scrive al lume di una lampada a petrolio, più o meno in compagnia dell’oppio. Insomma se abbiamo bisogno di dialogare con lui, perderemmo un po’ di tempo ma sapremmo dove trovarlo ed è stato il primo a scoprire la poeticità della grande città tentacolare. Quanto a Jane Austen non può che essere nel salotto di casa o in quello di un'amica con cui si intrattiene bevendo il te. Per non parlare di Hegel: anche quando dorme non può che essere alla sua scrivania, oppure in strada, lungo le poche centinaia di metri che lo separano dall'aula universitaria.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Venerdì 26 Gennaio 2018 16:33 |
di Franco Romanò
Lo scritto di Adriano Voltolin è un invito a fare i conti di nuovo con il sentire comune e la cultura di massa e ha stimolato in me molti ricordi assopiti che hanno a che fare non solo con il cinema.
Subito dopo la caduta del muro di Berlino, quando iniziò anche nel PCI l'operazione trasparenza che raggiunse il suo culmine con Occhetto, si seppe che nel partito c'erano delle cosiddette coperte, cioè iscritti che per il ruolo che svolgevano era bene tenere riservate. Il pensiero in questi casi corre naturalmente a uomini inseriti nell'apparato dello stato per cui la sorpresa fu grande quando si seppe che fra le tessere coperte c'erano quelle di Aldo Biscardi (proprio lui il decano dei giornalisti sportivi con il suo italiano fantasmagorico, recentemente scomparso) e un ex direttore della rivista Grand Hotel. Naturalmente fu Biscardi ad attirare su di sé le attenzioni e tutte le ironie del caso: si disse che erano tessere coperte per la vergogna di farlo sapere ecc. ecc. A ben vedere però la vera notizia è l'altra e cioè che ci fosse un direttore di Grand Hotel, l'antesignano di tutti i fotoromanzi e delle riviste più o meno dedicate ad amori improbabili; scampoli di quella cultura di massa generalmente catalogata con un certo disprezzo come stampa d’evasione, in particolare dagli intellettuali di sinistra, ma che merita invece maggiore attenzione.
Questo l’episodio relativamente recente, ma esso ha alle spalle una lunga storia e cioè l’origine del fotoromanzo come genere. Esso nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto, ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione: Il fotoromanzo 174 pag., Euro 12.00 - Edizioni il Mulino (L'identità italiana n.22) ISBN. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L'intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l'uscita - nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. Per quello che riguarda questo mio intervento, ciò che maggiormente mi interessa mettere in evidenza, è l’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche di riflesso della Dc, in parte, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni che furono immediate.
La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Lunedì 22 Gennaio 2018 09:21 |
di Adriano Voltolin
Cinema e realismo
In un dibattito ormai di molti anni fa, era il 1977, Nanni Moretti, allora ventiquattrenne, accusava Mario Monicelli di fare film per il pubblico, per la cassetta e di non tenere conto invece della necessità di esplorare nuovi confini lasciandosi alle spalle il filone della commedia all’italiana. Monicelli replicava che anche Moretti, senza riconoscerlo, si rifaceva alla commedia all’italiana, genere che faceva parte di un grande filone cinematografico del dopoguerra iniziato con il neorealismo, dopo la Liberazione fino all’inizio del nuovo decennio e poi proseguito, nella prima metà degli anni cinquanta, con una serie di film nei quali erano ben individuabili elementi specifici del neorealismo, quali le storie ambientate nel mondo delle classi popolari e la scelta, per molti personaggi, di attori non professionisti. Come dirà Monicelli, la caratteristica che rende la commedia all’italiana un genere particolare, è il fatto di trattare in maniera umoristica e comica argomenti che, in quanto parlano della dura condizione di vita delle classi popolari sono di per sé tragici. Il genere riprende allora elementi sostanziali del neorealismo, ma li presenta in un modo più attento al paradosso e all’ironia popolare.
Moretti curiosamente, con l’immodestia che gli è peculiare, argomentava contro Monicelli ed i suoi film, con argomenti che pensava probabilmente nuovi e moderni, ma che purtroppo non erano affatto tali. La critica in effetti degli intellettuali che si occupavano di cinema negli anni cinquanta e che si poneva in linea con quella che era la critica militante del tempo, accusava il cinema dei primi anni cinquanta di aver abbandonato i temi forti del neorealismo a favore della popolarità e degli incassi. L’idea della critica militante, penso qui a Guido Aristarco e alla rivista Cinema nuovo, era quella per la quale il cinema progressista doveva trattare di temi che percorrevano la società contemporanea favorendo – era in fondo un’idea pedagogica dell’arte cinematografica – una riflessione che cogliesse le questioni più incandescenti del tempo; da qui l’ammirazione di Aristarco per Visconti e per Antognoni, ammirazione assolutamente condivisibile per la capacità dei due registi di porre la loro attenzione sia su temi che cominciavano ad apparire importanti all’affacciarsi degli anni sessanta del novecento, sia sulla capacità, di Visconti, di rileggere in modo critico alcuni snodi della storia italiana ed europea otto e nocentesca. La critica militante aveva un’idea del progresso storico e del proletariato monocorde e, insieme, ingenua e trionfalistica: l’arte cinematografica doveva rispecchiare quest’idea e questo processo: come faceva notare un tempo a chi scrive Mario Spinella, l’idea del proletariato e del suo riscatto che aveva il PCI negli anni successivi alla lotta di Liberazione, non era troppo dissimile da quella che ne aveva il realismo socialista e che può ben essere rappresentata dal celebre quadro di Pelizza da Volpedo. Aristarco fu in effetti un ammiratore del cinema di Giuseppe De Santis, regista che ci diede due mirabili lavori neorealisti, come Riso amaro nel 1947 e Roma ore undici nel 1952, senza peraltro mai raggiungere la capacità trasfigurativa e simbolica di Rossellini o De Sica, ma che fu anche l’autore di Italiani brava gente un film del 1965 sulla campagna di Russia delle truppe italiane; questa pellicola mantiene, nella tradizione neorealistica, l’ambientazione tra i popolani che costituivano il grosso delle truppe italiane di fanteria, ma ci propone una visione dell’Unione Sovietica e del socialismo reale che forse avrebbe imbarazzato un po’ anche Stalin.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Domenica 07 Febbraio 2016 10:07 |
di Franco Romanò
La terza parte del saggio è un'indagine intorno al desiderio maschile. I comportamenti di Lucio, il protagonista de L'asino d'oro, e di Cupido vengono analizzati alla luce del libro di de Rougemont l'Amore e l'occidente. Sullo sfondo il mito di Tristano e Isotta e la musica di Wagner.
The third part of the essay is about male desire. The behaviour of Lucius, the protasgonist of The Golden Ass (Asinus Aureus) or Metamorphoses by Lucio Apuleio and Cupid, are analyzed with a critical concern with Love in the Western World by Denis De Rougemont. On the backstage, the myth of Tristan and Iseult and Wagner.
IL DESIDERIO MASCHILE
È venuto il momento di abbandonare i due amanti, per ritornare alle Metamorfosi e al rispecchiamento fra le peripezie del protagonista e la storia di Amore e Psiche; è su Lucio e su Cupido che ci soffermeremo, sorvolando sul fatto che il primo è una creazione letteraria (forse autobiografica), l'altro una divinità del Pantheon classico. Per noi, sono due esseri umani di genere maschile, che ci lasciano intravedere qualcosa sul modo in cui si muove il loro desiderio.
Sono giovani, si stanno affacciando alla vita: entrambi sono un po' picari, avventurosi e gaglioffi. Venere definisce il figlio uno scapestrato senza scrupoli, quanto a Lucio, alcuni tratti del carattere vengono delineati da Apuleio nelle primissime pagine del libro.
Egli vuole essere iniziato a una spiritualità superiore. L'iniziazione è cosa seria e Lucio sembra consapevole della severità della prova: ma quando incontra Photis dimentica tutti i suoi propositi e cade preda di un amore cieco. Egli se ne rende conto, ma è incapace di resistervi. L'errore più grave che commette, però, non è questo per Apuleio, ma ciò che fa successivamente quando viene a sapere che la ragazza è al servizio di una famosa maga: Panfile. Egli crede di avere trovato la scorciatoia che gli permetterà di mantenere la sua relazione con Photis ed elevare al tempo stesso la propria anima alla spiritualità superiore. Non si possono mischiare le due cose: secoli più tardi, il Commendatore che apparirà a Don Giovanni nella scena finale del banchetto risponderà “Chi si pasce di cibo celeste non si pasce di cibo mortale.”
La superficialità di Lucio è evidente ed è questa che viene sanzionata nel libro come una grave colpa: essa rivela un comportamento altrettanto avventato quanto quello di Cupido che, non appena vede Psiche, decide di pungersi e quindi di innamorarsi di lei, ma senza pensare alle conseguenze e alla sua capacità di farvi fronte.
Lucio chiede a Photis di rubare l'unguento per poter diventare un uccello, animale che rappresenta bene il volo dell'anima verso le altezze cui lui aspira; la ragazza, però, sbaglia la boccetta ed egli si ritrova trasformato in un asino. L'iniziazione non può essere delegata ad altri!
Da quel momento, cominciano le sue peripezie, che sono altrettante storie, incatenate l'una nell'altra, che segnano il suo peregrinare nel mondo. Lucio è un asino che non perde del tutto le sue caratteristiche umane: per esempio, può ascoltare e vedere ciò che accade intorno a lui e raccontarlo.
Da un'avventura all'altra, quasi senza rendersene conto, egli compie la propria parziale e inconscia formazione, attraverso il dolore e la sofferenza, sue e degli altri in cui s'imbatte. La grande spiritualità non si può raggiungere a buon mercato, con qualche formuletta new age. La condizione asinina, (la stessa che secoli dopo Collodi immortalerà in Le avventure di Pinocchio), è il punto massimo di caduta, prima di poter di nuovo riconquistare la condizione umana. Quella dell'asino-Lucio è dunque una quest, cioè un viaggio iniziatico, che gli permetterà - alla fine - di potere entrare nel cerchio degli adepti del culto di Iside: sarà questo il tema dell'epilogo, che Apuleio aggiunge alla trama del canovaccio di origine greca.
Lucio e Cupido hanno, in ogni momento, un'attitudine calcolante, che spesso, tuttavia, nasce da un pensiero fisso, oppure, nel caso del primo, nel cercare di sfruttare in modo opportunistico la situazione. Sembrano mancare entrambi di pensiero laterale. Inoltre, agiscono sempre d'istinto, come Pinocchio mellenni dopo: i loro propositi si scontrano sempre con qualcosa di estemporaneo che li devia dalla strada intrapresa.
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Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
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Martedì 10 Novembre 2015 10:36 |
di Franco Romanò
La poesia di Audre Lord, pur affondando le sue radici nel blues, porta nel testo la ribellione della popolazione nera americana, le istanze del femminismo e dell'orientamento sessuale lesbico, piuttosto che i toni malinconici.
Although her poetry is rooted in blues tradition, Audre Lorde transfers inside the text the rebellion of afroamerican people, the instances of feminism and her lessbian choice, rather than the melhancoly mood of blues soul in music.
Die Dichtung von Audre Lord ist in blues Tradition verbindet. Ins seine Gedichte, bringt die Afroamerikanische Dichter den Aufruhr des Afroamerikanischen, die Anspruchen der Fraubewegung und seine lesbische Wahl.
Leggendo di seguito le poesie della poeta afro americana, senza fermarsi troppo sul singolo testo o verso, ma lasciandosi prendere dal ritmo e dal suono, l'eco del blues emerge dal profondo. È una costante della poesia afroamericana, fin dai loro classici del '900: Countee Cullen, Gwendolyn Brooks, Langston Hughes. Solo che, nel caso di Audre Lord, insieme a questa eco se ne impone presto un'altra. Il blues è naturalmente associato a un sentimento struggente, la malinconia, una specie di spleen o di saudade, mentre in Audre Lord sono la rabbia, l'indignazione e l'orgoglio a increspare il verso.
...I learned to be at home with children's blood
with savored violence
with pictures of black broken flesh
used, crumpled, and discarded
lying amid the sidewalk refuse
like a raped woman's face...
… Ho imparato ad essere a casa con il sangue dei bambini
con la violenza assaporata
con immagini di carni nere spezzate,
usate, raggrinzite e gettate nelle discariche
in mezzo ai rifiuti del marciapiede
come il volto di una donna stuprata...
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