Ipernarrazioni e contaminazione di generi in poesia Stampa
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti
Mercoledì 26 Gennaio 2011 00:00

di Paolo Borzi

Il saggio di Borzi ripercorre gli snodi salienti nella poesia italiana del secondo  ´900, proponendo suggestioni e importanti proposte di superamento della antinomia avanguardia-tradizione. Pur manifestando un certo scetticismo per la possibilità di una terza via, in realtà il saggio la intravede nella possibilità originale di coniugare i metri tradizionali della poesia popolare italiana con la tensione poematica e il gusto tipicamente moderno del pastiche. Sullo sfondo le riflessioni di Gramsci e Pasolini sul folklore e altro.


Ipernarrazioni e contaminazioni di genere in poesia, ovvero, la vitalità dell’Avanguardia come “temperie”Paolo Borzi, foto di Annalisa Meloni


1. la poesia, l’acqua

In relazione all’uscita dell’ antologia “Nuova poesia modernista Italiana” di Giorgio Linguaglossa (Edilazio, 2010) mi è sorta una riflessione sulla fertilità della temperie avanguardista entro la linea della modernità attuale, in poesia e non solo. Fertilità a mio avviso decisa e potenzialmente decisiva, anche se voglio cominciare asserendo qualcosa di elementare e che sembra contraddire questa posizione: la poesia è un “bene” come l’acqua, qualcosa che c’è o non c’è in qualunque testo che voglia dirsi poetico. Merita-anzi, esige- tutto il bene ulteriore dell’intelligenza e della critica, ma può essere dentro qualsiasi poesia, e una poesia può essere definita (o meglio, avvertita) tale anche se confondibile o sovrapponibile a qualcosa di scritto cinquemila anni prima nel lato opposto del globo.

 

Marx stesso, del resto (e dietro di lui, con la parole e-o l’esempio, Gramsci e Pasolini), si chiese cosa ci fosse di tanto alto e inattingibile nei poemi omerici (ma ovviamente non solo), da poter emozionare in ogni tempo pur essendo figli d’un loro così lontano tempo... Qualcosa che probabilmente c’è, se non a prescindere, malgrado e forse addirittura a dispetto dei tempi di cui erano emanazione... Non ricordo se alla metà degli anni sessanta un evento come la distruzione di poemi cinesi tradizionali ad opera del maoismo, con la motivazione che fossero “immondizia feudale”, fu commentato dagli intellettuali d’ondata; se così fu, gli eventuali pur sdegnati “distinguo”  fra i due rami a sinistra dello sperimentalismo letterario italiano (“officiniani” e “Palermitani”), avrebbero segnato un’ulteriore passaggio della loro furente querelle. Querelle che proprio nel 93 segnò una conciliazione il cui totale completamento è a mio avviso materia apertissima.

 

2. marginalizzazione e “linea verticale” nell’ Avanguardia nuova nuova

Bene, nel 93, di cui quasi tutti parlano per lo meno maluccio e che per tale motivo attira sempre di più la mia attenzione, finirono di maturare due condizioni importanti: la marginalizzazione estrema, che per “nobiltà” Le si addice, della linea neoavanguardista, anche rispetto il già ormai emarginatissimo dibattito sulla poesia italiana in generale (inutile citare più di tanto eventi, muri, televisioni, reti, politica interna etc., i classici emblemi della c.d. “postmodernità”); e il suo confronto apertissimo con gli ex “nemici” officiniani, o meglio, con gli intellettuali assimilabili al solco dello sperimentalismo della sinistra non avanguardista. Ciò che ne emerse, tra l’altro (gli esperti e i protagonisti troveranno molte semplificazioni e dozzinalità in quanto dico, ma non posso fare  altrimenti, dovendo intessere fila che tra poco saranno tirate) fu la famosa “linea di demarcazione verticale” anziché orizzontale. Non fu un enunciato conclusivo, ma intanto lo si espresse, o lo si ribadì, rispetto chi già lo fece più silenziosamente trenta anni prima: non chiudiamo con la Tradizione ma rintracciamo le linee che ci appartengono da prima (dunque, canoni laterali, antilirici etc..). Ovvio, che così facendo, si passa dall’ Avanguardia a una adesione a una “linea barocca” che pure Giovanardi pone come opzionata a “ pendolo” da diversi secoli, in molte civiltà poetiche... in buona sostanza, altro è “semplicemente” scegliere ed aggiornare un canone “barocco”; altro è rivoluzionare tutto. Eppure...

 

3. considerazioni “frettolose” sul 93 e sue decise potenzialità

Non può avere tutti i torti chi ha visto difficilmente battibile una terza via rispetto il rifare il 63 o non fare Avanguardia in senso estremo e dunque, “stretto” (tendenziosità “forte” dell’allegorismo e adesione a canoni barocchi, da soli, non dovrebbero suscitare scandali formali così devastanti...). Con ciò, i molti e pazienti studi sull’allegoria come fantasia-pensiero politicamente tendenziosa (che libera in un colpo il fantastico dall’evasione e il politico marxianamente orientato dal realismo), e i principi di scrittura “materialista” che ne sono derivati, da soli rappresentano un impegno critico tanto pregevole e stimolante quanto poco, e a scopo spesso svalutativo, citato dagli “Organi Ufficiali”. La “Scrittura Materialista” sottintende una fantasia concettuosa, lussureggiante  e discorsiva che riproduca da una parte la “logica del vivente”, e che dall’altra sia mossa da una costatazione “materialista”  dell’abisso di macerie e di orrori provocato dalle dinamiche di accaparramento-sfruttamento tra uomo e uomo, che non può essere superato da automatismi “dialettici” (storicisti) di sorta ma solo con un forte intervento sull’esistente, da parte dell’attivista, dell’’intellettuale e anche dunque l’artista... che pur nell’ Era della riproducibilità meccanica, trasformatosi da Artefice a produttore, non manca di indossare così una nuova aura di messianesimo (e riferendoci a Benjamin, l’espressione non è così azzardata e provocatoria come sembra).  Chi sfugge a quell’orrore e ripropone le morfine sacrali dell’Arte aureolata, ne è più o meno coscientemente complice. La nettezza di questa posizione, per cui non starebbe bene un rivoluzionario che a latere produca, che so, inni neo orfici; unita spesso alla professione di “materialismo” non solo storico ma anche naturalistico, col solito portato di contumelie rivolte alla religiosità e spiritualità non solo confessionali ma tout court, sono fattori che rafforzano gli arroccamenti e favoriscono l’assenza di dialogo con chi già è poco interessato a dialogare, non capendo per niente cosa possa fare una Avanguardia dopo quella del 63 ed essendo più che bastanti gli ipotetici danni da essa provocati. Accade così che alla Neoneo Avanguardia non venga riconosciuta nemmeno una “temperie” del tutto insostituibile per chi, pur relativamente “estraneo” come il sottoscritto, senta molto, circa i temi dibattuti, i seguenti problemi.

 

4. ipernarrazione, epica e pastiche moderno contro il collage postmoderno

L’ipernarrazione viene spesso associata al Moderno, e giustamente, perché le moltitudini e le divagazioni del “montaggio” rappresentano un disperato tentativo di salvare una unità credibile, non compatta non dogmatica (saremmo nell’Antico) ma con netta avversione per le “rotte libere” del postmoderno, che lasciano al Mercato l’evacuazione dei suoi Mostri, guarda caso prodotti da gente che le libertà degli altri mostra di gradirle sempre di meno. Mi chiedo se il punto in poesia su questa questioncella possa interessare al dibattito.

Un poema ipernarrativo moderno è Horcynus Orca, ma è fatto in prosa e mostrato alle stampe alle soglie di specifiche derive postmoderniste, per cui ha avuto pochi o punti riscontri nella narrativa (uno, indegnissimo, qualcuno dice sia  mio) e figuriamoci in poesia, dove il clima era quello che se sapevi tenere centinaia di versi in metrica producendo narrati coerenti e dotati di relativa atmosfera, dovevi vergognarti in quanto “tronfio versificatore” (Italo Borzi, mio padre, dantista e critico letterario, 1980: “non te ne uscire con quella roba che ti prendono per il kulo...” così ci ho messo un quarto di secolo per fare “capoccetta”, operando riduzioni di cui sono mezzo pentito... ora magari sarei antologizzato persino da Linguaglossa). Udite, non so se l’ Epica “pura” stia rinascendo qui in Italia, ma intanto chiamo a raccolta chi sapesse tenere il verso come sopra: garantisco loro che troveremo luoghi idonei per confrontarci e parlarne, senza l’intenzione di “schiacciare la testa” ai fulminati da multiformi lirismi, ma nemmeno sentendo come un difetto ciò per cui saremmo portati, e che tanto fa parte del nostro dna, anche  e soprattutto di “semplici” uomini, prima che di presunti poeti.

 

Un poema epico (tradizionale ma pure) moderno è giocoforza ipernarrativo: le stratificazioni in cui si deve imbattere, per “salvarne” coralità ed enciclopedismo in una coesione anche tematica che provi a passare il “vaglio critico” della modernità, senza farne un “pastiche” d’arte contemporanea (“debole” o “forte” che sia, che starebbe bene ma è un’altra cosa), giustificano da sole la particella “iper”; vie più motivata dal “disperato” tentativo di unificazione anche ideale e ideologica, che è propria del Moderno. Qui non parliamo di micio micio baubau vestiti da Pippi Calzelunghe, ma di “semplici” poemi epici all’antica con impianto “estetico ideologico” presentabile nel Moderno; eppure, almeno fino ad ora, si riscontrano comprensioni e sponde (oltre fortunatamente straordinari liberi battitori che non nomino) proprio da intellettuali legati all’anno 93, tanto per restare al filo unitario di questo saggio e sottolineare quanto “astruso e inutile” fu quel momento e quella ondata, invero fertilissimi e quanto mai “in prima linea” (mi si consenta una certa “obiettivazione” del mio interessato punto di vista ;-) ).

 

Certo, poema epico “moderno” con forma tradizionale, specie se in ottave, richiama di più il filone “nazionalpopolare” (nel senso che le ottave sono tutt’ora frequentate in limitate ma differenziate aree della Nazione; e poemi rinascimentali in materia sviluppano temi popolarmente “universali” e fanno parte di letteratura Nazionale assai “esposta” nei programmi scolastici... almeno sulla carta). Ma nel più volte citato “93” una conciliazione con questo filone, fatto salvo un quoziente di sperimentazione garantito, è stato per lo meno significativamente accennato. Laddove l’ottava (o il sonetto) neoavanguardisti furono montati e smontati “a scassaquindici”, lavorando su rime e assonanza interne vuoi per forte sperimentalismo semiologico (Sanguineti) o per c.d. “ontologia linguistica” (Zanzotto), lo sperimentalismo “nazionalpopolare mitigato” può lavorare sullo “sbobinamento” cinematografico di dette ottave, internamente a “sceneggiature” snellite e pregne di visività e visionarietà proprio come nel Cinema (non sviluppo l’esempio di Campana, che al respiro delle ottave si avvicinò-vedi esordio di Genova-facendo “cinematografia sentimentale”... ma occorrerebbe un saggio ben più esteso di questo). Mi chiedo, può interessare un ritorno al poema cavalleresco DOPO la lezione del Cinema, che proprio nella sua fase “nazionalpopolare” (quella buona) ha a sua volta attinto a piene mani dall’ Epica? Se qualcuno in ottave debitamente (anche se “solo” espressivamente-narrativamente) svecchiate e riformate si rioccupasse, che so, del Paladino Orlando, avendo nella penna e nell’anima l’esempio di un Kurosawa, tanto per dire,  interessa alla poesia Modernista? Certo, se coloro che vedono in essa un segno latamente “lirico” dicono poi che l’Avanguardia poco o nulla avrebbe da dire, non mi resta che sperare (o non CI resta, dato che si parla di cose “comuni” ai temi trattati, e che può riguardare il talento e la progettualità di molti), non CI resta che sperare che tale sterilità dell’Avanguardia sia solo apparente e che CI possa accogliere nel suo dialogo interno. Altrimenti, si prova “a tentonare” QUASI da soli.

 

Circa il prosimetro meglio mi sento, soprattutto se gli “involucri” non sono solo “racconti” ma anche montaggi da generi letterari parecchio diversificati. Eppure, già la Vita Nova ne presentava almeno 3: racconto (in senso vasto)-silloge lirica-trattatistica (teorizzazione poetica, lode a Sanguineti e alla encomiabile “Garzantina”). E lo stesso dicasi per Boezio, potendo anzi aggiungere il poema-trattato filosofico... Il Prosimetro allargato al teatro, alla novellistica, senza rinuncia alla silloge lirica, sarebbe una bella sfida del Moderno contro il Postmoderno, se un simile “montaggio” fosse abitato da una “unificazione dei saperi”, meglio se estesi ma non è necessario (più importante siano organici e il “sangue” che irrora tra i connettivi). Inoltre, udite udite, potrebbe essere una propulsione favorente le stesse unità liriche interne agli involucri (questo già vale per il poema in ottava, dove la stessa può fungere da improvviso “microsonetto interno” tra le sorelle). Circa gli “involucri” sarebbero essi stessi “poetici” e non solo “pretesti narrativi”, anche se già questi ultimi sarebbero sufficienti a un “rimescolamento” di prospettive, decentrando l’ego (nominabile o meno... il narcisismo è sovente il grimaldello dei narcisisti, non è un grande problema, mi si dice sentito specialmente in Italia, nota patria anche di narcisi) moltiplicando oggetti e correlativi, coralizzando dettato e contenuti. L’idea che mi viene, se il termine non fosse ancora più sputtanato di “Barocco” (non dai fautori del 93), è “gotico” nell’accezione architettonica, dove elementi portanti a loro volta decorativi “incorniciano” pregevoli opere-sarebbe l’obiettivo- squisitamente autonome. Il raffronto mi piace anche per un interesse (anche questo non certo solo mio) per la pre-modernità, forse suggeritrice armi preziose per la difesa della parabola moderna finale (Eliot docet), contro la decomposizione (che poi può sempre essere mutata in fertilizzante agricolo) della postmodernità. I suggerimenti linguistici, poi, derivanti da quell’epoca (quella di Dante) e le immediatamente successive, sono fin troppo facilmente identificabili in una trattazione come questa (lingua nazionale con intensità e vitalità dialettali etc.). Il pluritonalismo (spinto, dico...), preferito al plurilinguismo spinto, la fusione dei generi letterali in forma macrotestuale piuttosto che tra arti diverse, pongono gli stessi problemi in coda al capoverso precedente, di dialogo coi tonali, i dodecafonici, con uno tra essi o nessuno. E così anche una proposta di “prosimetro” come da sovra esposto.

 

5. folklore, democrazia “non agnostica” e conclusioni

Con “democrazia non agnostica” intendo qualcosa che può essere riferito sia al dominio politico che a quello poetico. Che mi ritenga tutt’altro che “agnostico” in entrambi i sensi risulterebbe da quanto già detto. Democratico, poeticamente, mi è un po’ più difficile, perché, ha ragione Linguaglossa, le forti implicazioni filosofiche di una poetica (e di una degna critica poetica) tendono, nella profondità di ciascuno, a delegittimare sostanzialmente le altre se non a detestarle (non è fortunatamente il mio caso). Gli è però che poesia e filosofia non sono esattamente la stessa cosa (ma dai...), almeno che la Prima non sia un compimento definitivo della Seconda (avremmo il Rg Veda del 3° millennio, d.c., e non ci sarebbe più nulla da discutere, e forse è meglio che non venga).

 

Gli è, in particolare, che le poetiche vengono adottate anche per “affinità vitale”, per proprio stile, e dunque quella COSA come l’acqua può gocciolare in qualsiasi poetica, e nessuna puntuta analisi critica può nulla, volesse gettare acido in quella venatura vitale, per finalità diverse dalla onesta critica. Oltre a eventuali interessi di “cordata”, l’orgoglio e la vanità in queste cose la fanno da padrone, e lo si sa benissimo. Un mezzo poeta non diventa tre quarti (e falcidiare gli interi per restare solo e incensare solo quelli accovacciati e proni dentro il perimetro della sua ombra) se è un buon critico, ma “solo” un intellettuale più utile e prezioso, forse più del poeta “intero” stesso (se si comporta bene).

 

Ciò sottolineo, perché i preziosi stimoli di Giorgio Linguaglossa vengono da un “ambidestro” sontuoso che non deve “dimostrare” nulla... Parlo con riferimento a una stagione critica che come Linguaglossa auspico e che anche grazie a Linguaglossa potrebbe essere più vicina. Mi limito allora, preventivamente, come i “kornuti”, a sottolineare come gli strumenti della Critica (puntuti quanto mai basta) diventino asce per cruente cannibalizzazioni, senza l’ onestà. Onestà, ovviamente, anche nel riceverne, di critiche, ché la “scusa” siano sempre mosse per loschi motivi è altrettanto aimé facile e deprecabile.

 

La figura di Umberto Bellintani, citata emblematicamente da Franco Romanò nel dibattito sullo stesso libro, mi porta a collegare la Democrazia non agnostica al Folklore come “Cultura della Natura”: per l’alto civismo del personaggio, l’amore per la terra e una certa visionarietà espressionista, tenuta nel garbo di una forma curatissima ma sfociante talvolta in visioni mito-apocalittiche. Il Folklore è una faccenda che curiosamente può riguardare più poetiche, forse perché ci riguarda tutti come individui in parte coattamente “mutati”; prescindendo dal cincinnatismo, che piace a tutti, ma che tradotto in poetica diventa elegia, ormai una parolaccia quasi per tutti; chi scrive compreso... a meno di fatidiche “gocce” vitali.

 

Dunque, il Folklore è “democratico” perché ci riguarda quasi tutti: e al di là del cincinnatismo si pone il problema anche integralmente “salutistico” dei danni che può aver provocato una eradicazione di certo più rapida d’una genomica che si è strutturata in millenni. Quanto dei suoi riti e schemi emozionali e cognitivi può essere salvato (e in che traduzione e tradizione) al di là della sua organica collocazione magico-agricola, sarebbe già materia d’una trattazione socio-antropologica, in pericoloso-starei per dire inevitabile- avvicinamento verso le nostre.

 

Una indagine di questo tipo potrebbe interessare, certo, Officiniani e simili per linea gramsciana-pasoliniana; Neoavanguardisti per dialogo coi primi e per una certa pulsione “all’originario” anche se in chiave barocco-vitalistica e non neoromantica o peggio mitomodernista (magari anche incontro-confronto-scontro tra  allegoresi e fabula); i mitomodernisti, appunto, per motivi che diamo evidenti. Gli Orfici (ma forse più attenendoci alla connotazione storico-religiosa della categoria) perché l’ Orfismo è un fenomeno bifronte (misteri-folklore). Ritengo anche “i nuovi modernisti” di Linguaglossa, o molti di essi, poiché assai presente è la percezione apocalittica della “erosione del basilare” dovuta alla postmodernità come Truffa globalizzata guerrafondaia e geicida (sempre più spesso nel nome di Dio, come non bastasse).

 

Non si tratta di fare informi ammucchiate, o adottare gli anelli di Tolkien come sofisticata attrezzatura per onanismi romanticoidi. Credo che chi abbia “chiara” in mente una letteratura fortemente razionale e tendenziosa, in cui l’emotività sia “inglobata” senza (eccessivi) scivolamenti “irrazionali e privatistici”, abbia tutto da guadagnare dal dialogo e dal non impallinare sempre anche le aureole sgangherate degli artisti da strada, dei cantastorie, degli inguajati in sinapsi che sputano aforismi da brivido, funamboli e clown, ....e sì “ clown, sciamani e sacri Buffoni sono fascisti”, e l’irrazionale assolve sempre  il reale, etc. etc.... occorre forse un po’ di duttilità e magari accogliere di più la lezione di De Martino, che ci dice appunto essere intorno a noi quel mondo che abbiamo sepolto, e che se non trova una risoluzione energetica dentro il presente si irrivola in fossati di pazzia e sterilità. Credo che l’importante per una poetica sia la sua floridezza, piuttosto che la delegittimazione astiosa di tutte le altre. Altrimenti, non restano alternative all’emarginazione (nobilissima ma avulsa) o all’ingigantimento mediante dinamiche di potere.

 

Concludendo, non si è inteso qui questionare su esclusioni particolaristiche (di persone o temi tanto laterali da rasentare la bizzarria) nel prezioso lavoro di Giorgio Linguaglossa. Infatti, si è parlato di cose normalissime, tanto normali da essere incluse anche nelle opere di tanti  autori e amici antologizzati, alcuni anche di decisa temperie avanguardiastica o addirittura poematico-avanguardista. Penso ad Amorese, Attolico, Ciammaruconi, Giannotta, Gargiulo ed altri meno sensibili a quella temperie ma comunque assai validi. Tali cose normalissime non possono che essere: strutture, divagazioni, contaminazioni. Tanto però cresce la loro misura e il “contatto” tra le parti (Linguaglossa sa e insegna bene dove portano misure minime e staccate... non si intendono pur legittime sillogi “arlecchinate”, insomma), tanto più la plastica e la plasmica delle composizioni cambiano volto, rendendo figli figliastri o figliacci di Laura o del Triperuno (o Petrarca e Dante, per farci sopra il solito discorsetto manicheo). E mi stanno bene entrambi. Se e quanto un “nuovo modernismo” possa accettare in misure e vitali distorsioni strutture, divagazioni e contaminazioni (e le opere, ripeto, cambiano di molto in plastica, composizione e argomentazione, e anche molte prospettive), è un punto direi non da poco che si pone, altrimenti la neoneo Avanguardia, che non ha bisogno dei miei riconoscimenti,  avrebbe comunque, per lo meno, tale campo fertile e libero; e tutti i meriti e i diritti per candidarsi come avanguardia (letteralmente) nel e dell’attuale moderno.