Che ritmo può avere un sogno. Una lettura dai “Canti orfici” di Dino Campana: Viaggio a Montevideo. |
Aree tematiche - Dopo il diluvio: discorsi su letteratura e arti |
Venerdì 11 Novembre 2011 00:00 |
di Paolo Rabissi Figlio del Novecento, Campana vive il dualismo esistenziale più drammatico, quello tra follia e poesia, tra follia e vita.
La poesia di Campana è quanto di meglio egli è stato in grado di strappare ai disturbi di natura psicotica ai quali finì con l'arrendersi trascorrendo oltre quattordici anni in manicomio. Qui Campana, sottratto e sottrattosi a ogni vita di relazione, venne 'punito' per la sua follia con l'elettroshock (al tempo non era usato come terapia) finché anche all'autismo lo strappò la morte. I Canti orfici, usciti nel 1914 poco tempo prima di essere internato, sono stati letteralmente strappati alle crisi di follia distruttiva con un'operazione costata all'autore un evidente sforzo drammatico. L'impeto distruttivo Campana riuscì a vincerlo dando orecchio alla sua vocazione. Tutte le sue energie vitali Campana dovette concentrarle nello sforzo di dare al suo verso la forma e il ritmo che gli spettava.
Figlio del Novecento, Campana vive il dualismo esistenziale più drammatico, quello tra follia e poesia, tra follia e vita. La poesia di Campana è quanto di meglio egli è stato in grado di strappare ai disturbi di natura psicotica ai quali finì con l'arrendersi trascorrendo oltre quattordici anni in manicomio. Qui, sottratto e sottrattosi a ogni vita di relazione, venne 'punito' per la sua follia con l'elettroshock (al tempo non era usato come terapia) finché anche all'autismo lo strappò la morte. I Canti orfici, usciti nel 1914, qualche anno prima di essere internato (1918), sono stati letteralmente strappati alle crisi di follia distruttiva con un'operazione costata all'autore un evidente sforzo drammatico. L'impeto distruttivo Campana riuscì a vincerlo dando orecchio alla sua vocazione. Tutte le sue energie vitali Campana le concentrò nello sforzo di dare al suo verso la forma e il ritmo che gli spettava. Che ritmo può avere un sogno? In ‘Viaggio a Montevideo’ è quello che può avere una nave che ‘batte la tenebra’ sull’oceano e in inquieti mari notturni. In questa poesia, ma forse è lecito dirlo per tutta l’opera poetica di Campana, tutto sembra organizzato per dimostrare al lettore che quel viaggio è stato un sogno. Eppure una mezza dozzina di passati remoto dicono chiaramente che non di sogno si è trattato. Dice il poeta ‘io vidi…i colli di Spagna svanire’, e ‘un giorno/ salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna//’, e ‘noi vedemmo sorgere…’ e ‘noi volgemmo fuggendo…’. Campana non ha dubbi o ha bisogno di confermare a se stesso che quel viaggio l’ha fatto davvero? Ma quanto tempo è durato? Un attimo, come si dice avvenga nel sogno, o un tempo indefinito e imperfetto? E non è appunto il tempo imperfetto il tempo classico per indicare situazioni irreali, di sogno, di favola? Il poeta dice: ‘Illanguidiva la sera celeste sul mare:/’, e ‘andavamo, andavamo, per giorni e per giorni:…’. Campana a Montevideo c’è arrivato. Del resto dal Registro dei passaporti del comune di Marradi risulta in modo inequivocabile che “Campana Dino, di Giovanni, ha ottenuto in data 7 settembre 1907, il passaporto, rilasciato esplicitamente per andare a Buenos Aires.” (Turchetta, 2003). I suoi famigliari lo hanno messo su una nave diretta a Montevideo. Una rotta da emigrante. Abbandonato il bastimento col quale attraversa l’oceano Campana sale su una nave più piccola, risale il corso del Rio della Plata e approda a Buenos Aires. Ma della sua permanenza in quei luoghi si danno versioni differenti, anche perché è Campana stesso che confonde le acque. Forse c’è rimasto pochi mesi, forse un anno, forse di più ( a sentire lui anche cinque sei anni). Ma è stato certamente il viaggio della sua vita. Lì ha potuto vivere, tra un mestiere e l’altro, da vero vagabondo. Così scrive nei ‘Canti orfici’: “io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito. Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio”. Quel tempo imperfettivo che evidenzia l'aspetto dello svolgimento, del ripetersi, del perdurare dell'evento introduce a una dimensione di tempo sospeso, indefinito e onirico. Ma non è l’unico aggancio a una realtà favolistica, onirica. Campana aggiunge dell’altro. Sa servirsi di altre connotazioni stilistiche altrettanto efficaci. Dentro la poesia qual è l’ora topica? Qual è l’ora del viaggio? Alla partenza è l’ora del crepuscolo. Subito dopo è la sera, la sera che ‘illanguidisce’. Poco oltre la nave varca l’oceano ‘battendo la tenebra’. Succede un breve intermezzo di giorno, ma in esso la luce è ‘incantata’ e la città intravista è ‘addormentata’. Poi ecco ancora ‘le ombre di un paese ignoto’ e ‘l’inquieto mare notturno’. E infine, in chiusura, il lume ‘limpido, fresco ed elettrico’ della sera. Tutto che introduce al tempo del sogno. E resterebbe da aggiungere come stilema l’uso dell’iterazione. Sull’uso della quale da parte di Campana molto è stato detto. Ma qui vale la pena sottolinearne l’effetto ipnotico, che introduce al dormiveglia, al sonnambulismo: “…battendo la tenebra/ coi nostri naufraghi cuori/ battendo la tenebra l’ale celeste sul mare./”. Ma eravamo partiti chiedendoci che ritmo poteva avere un sogno. ‘Viaggio a Montevideo’, sogno vero o realtà trasfigurata dalla memoria, è scandito dal mare, da un moto ondoso subliminale continuo e ripetuto, dal respiro profondo dell’oceano che culla la nave che ‘batte la tenebra’.
VIAGGIO A MONTEVIDEO Io vidi dal ponte della nave I colli di Spagna Svanire, nel verde Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando Come una melodia: D'ignota scena fanciulla sola Come una melodia Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola... Illanguidiva la sera celeste sul mare; Pure i dorati silenzi! ad ora ad ora dell'ale Varcaron lentamente in un azzurreggiare:.. Lontani tinti dei varii colori Dai più lontani silenzi Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d'oro: la nave Già cieca varcando battendo la tenebra Coi nostri naufraghi cuori Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare. Ma un giorno Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna Da gli occhi torbidi e angelici Dai seni gravidi di vertigine. Quando In una baia profonda di un'isola equatoriale In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno Noi vedemmo sorgere nella luce incantata Una bianca città addormentata Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti Nel soffio torbido dell’equatore: finché Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto, Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore Noi lasciammo la città equatoriale Verso l'inquieto mare notturno. Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente: Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina Una fanciulla della razza nuova, Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco selvaggia a la fine [di un giorno che apparve La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina: E vidi come cavalle Vertiginose che si scioglievano le dune Verso la prateria senza fine Deserta senza le case umane E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume, Del continente nuovo la capitale marina. Limpido fresco ed elettrico era il lume Della sera e là le alte case parevan deserte Laggiù sul mar del pirata De la città abbandonata Tra il mare giallo e le dune... |