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Scorze PDF Stampa E-mail
Giovedì 02 Dicembre 2021 10:53



di Adriana Perrotta Rabissi


Scorza : rivestimento esterno di piante, pelle di frutti, pelle di animali, soprattutto rettili, apparenza, aspetto esteriore di persone

Scorza


L’aveva conosciuta durante una gita scolastica al Museo del Deserto a Tucson, due ore di viaggio in autobus, una breve sosta all’ingresso e poi via tra sentieri costeggiati da jumping cholla, grande il divertimento di fronte agli sforzi di turisti imprudenti alle prese con i ciuffi  spinosi e dispettosi, all’inizio ridevano, dopo un po’ rimanevano sconcertati dal fatto di non riuscire a scuoterli via dalla stoffa, più si agitavano e più si riempivano, infine spazientiti e allarmati si guardavano le mani doloranti, piene di invisibile spini.
L’unico momento noioso della mattinata era previsto fosse la conferenza sui rettili nella sala grande del Teatro del Museo, tappa obbligata del viaggio di istruzione, invece il Mostro di Gila l’aveva incantato.
Appoggiato sul banco, molestato dal bastone brandito dall’erpetologa, che sollecitava i suoi lenti movimenti, lo rivoltava, lo pungolava per mostrare a un pubblico per metà affascinato e per metà disgustato la potenza delle mascelle, la lunghezza degli artigli arcuati, le squame della scorza dai brillanti colori aposematici, nero e giallo, con sfumature arancio.
Il Mostro così inerme di fronte a chi sghignazzava, chi mostrava orrore, chi lo irrideva, gli aveva fatto pena.

Gli risuonarono nelle orecchie per giorni le parole della donna che aveva illustrato la pericolosità del veleno, la presa dei denti incurvati, che si incastrano nella carne della vittima, senza che si riesca a  allentare il morso, che  aveva elencato, con un po’ di enfasi, a suo giudizio, il numero di persone morte per il veleno e quelle sopravvissute perché curate in tempo, ma a lungo in preda  a atroci dolori.Ne aveva parlato in casa, l’unico che l’aveva ascoltato con attenzione era stato il nonno, che ricordava i racconti sentiti da bambino dai vecchi della riserva nella quale era nato e cresciuto, storie popolate da Mostri di Gila che sputavano veleno contro i malcapitati che li incontravano, che uccidevano con il respiro chi passava accanto a loro senza accorgersi della presenza su un albero, sotto un cespuglio, dietro un cactus.
Ne aveva studiato sull’Enciclopedia il nome scientifico, Heloderma suspectum, l’habitat, le abitudini di vita, aveva scoperto con quante esagerazioni e inesattezze fosse stato presentato al Museo un animale timido, che sta spesso nascosto, difficile da incontrare se non di notte o di mattina presto. Non risultavano neppure persone morte a causa del suo veleno, unica verità il dolore acutissimo che provoca e lo stato di intossicazione che richiede terapie tempestive e intensive in ospedale.Negli anni si era convinto che il Mostro del Museo fosse un esemplare femmina, qualche volta immaginava che fosse fuggita dall’orrida erpetologa e si fosse rifugiata nel deserto circostante.

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Quattro righe e due versi per l’operaismo, una memoria di poca Storia PDF Stampa E-mail
Venerdì 19 Novembre 2021 15:21

di Paolo Rabissi

Tra memoria e Storia il resoconto di un 'quadro intermedio' della nascita di Potere operaio, 1969-1970

…se poi mi chiedi che sorte ha avuto la mia scrittura in versi nel periodo della nostra  partecipazione a ‘La classe’ e alla nascita di ‘Potere Operaio’, la risposta è molto semplice,  quella della talpa ( decisamente contestuale al ‘ben scavato…’, assunto dagli operaisti!). E come altrimenti? Non credere che io l’abbia sotterrata subito. Vero è che Oreste[1], appena sbarcato a Milano e appena conosciuti i miei (tiepidi) tormenti letterari in prosa, mi propose di aggiustare la faccenda con un semplice “… dopo i tuoi Proust Musil Kafka Joyce ecc che romanzi si possono ancora scrivere?” Ma lui veniva dalla rivista “Quindici” dove con Balestrini la decostruzione dei linguaggi compresi quelli poetici, era sin troppo avanzata. Il mio vero tormentone era in realtà quello dei versi. Sicché in una delle occasionali riunioni a casa nostra, più o meno primavera ’69, approfittando di un momento favorevole, ho letto davanti a tutti quelli che c’erano  dei versi di cui non ricordo quasi nulla tranne di averci prospettato una sorta di molteplicità dei percorsi che ritenevo avessimo davanti a rivoluzione imminente. L’accoglienza fu tiepida, Sergio[2] col quale avevo un po’ più di confidenza, abbozzò un sorrisino. Toni invece non ebbe alcuna esitazione e mi rispose argomentando intorno alla sua decisa simpatia verso l’Uno e non verso il molteplice. Tanto bastó, dopo quell’exploit la mia scrittura in versi l’ho davvero sotterrata. So quando è riemersa. Quando mi resi conto che il progetto che mi aveva legato direttamente all’operaismo milanese per me era concluso, dopo una stagione non brevissima, alla fine del 1970.

La riassumo qui oggi, a ottantun’anni suonati, per tanti di quei motivi che non ha senso provare ad enumerarli. Scelgo però il più vicino nel tempo. E’ stata la storia di Potere operaio dello storico, ex-militante di Potere operaio, Marco Scavino,[3] consigliatomi da Sergio, a spingermi a scrivere. Delle memorie personali, si sa, occorre avere la giusta diffidenza, il tempo sovrappone e sovrappone. Personalmente godo però di due vantaggi. Anzitutto quanto scrivo è filtrato anche dalla memoria di Adriana, mia compagna dal ’66. Inoltre ho conservato e salvato dalle vicende una delle mie agende del ’69-’70. 

La maggior parte dei protagonisti di quella vicenda, deceduti a parte, sono tuttora attivi[4]. I morti che ho nella mente e nel cuore sono Mario detto Marione e Primo[5]. Quando Mario scendeva da Torino a ragguagliarci sulla situazione delle lotte alla FIAT sembrava portarsi dietro l’intera Mirafiori, aveva così tanta aria intorno a sé e davanti alla Statale disegnava a braccia allargate la traiettoria delle lotte con la stessa calma e pazienza con cui avrebbe sopportato poi le ore di prigione. Primo è stato per me uno dei due, tre fratelli, maggiori, che la buona sorte mi ha regalato a Milano. Nella  sua libreria Calusca negli anni ottanta e novanta mi ha dato tutto lo spazio e l’ospitalità che desideravo per le mie righe e i miei versi.

Del gruppo milanese Sergio è stato il protagonista ma tutti nell’insieme esprimevano ai miei occhi autorevolezza e competenza pari alla passione politica. Questa della passione, a dirla tutta, è uno dei tormentoni che mi accompagnano da sempre. Ho imparato a distinguere la passione viscerale dei sognatori da quella fredda dei visionari. La passione fredda, la passione lenta di questi ultimi è quella che accompagna l’organizzazione di un progetto, flessibile di fronte alle contraddizioni, rigida nell’applicazione del metodo. Sentii immediatamente che in costoro la passione politica non cedeva nulla al sogno, procedeva con metodo su

vignetta di Mario Dalmaviva

un percorso non semplice e pericoloso, capace di ripiegare su se stesso ma anche di cogliere le occasioni per moltiplicare le maglie della rete. C’erano nelle fabbriche europee, dall’inizio degli anni sessanta, dopo anni di subordinazione impotente di fronte ai piani del capitalismo che, per ristrutturarsi, voleva riforme costose soprattutto per gli operai, lotte che non avevano cittadinanza perché organizzate autonomamente fuori cioè dalle mediazioni sindacali e politiche. Bisognava leggerle, studiarle, comprendere dove volevano andare, sostenerle.

Per quanto fossi alle soglie della laurea e già coinvolto nella Storia del Risorgimento al punto che il prof. Franco Della Peruta mi aveva messo nelle mani l’archivio di un  ministro delle finanze della destra storica, il liberale moderato Raffaele Busacca, la storia del movimento operaio dal dopoguerra in avanti finì con l’attrarmi potentemente proprio perché, nella lettura che gli operaisti facevano di quelle lotte a me sconosciute (non solo a me dato che una certa vulgata anche di stampo marxista dava la classe operaia del tutto integrata nel sistema), sembravano aprirsi materiali possibilità di un progetto anticapitalistico, capace di intercettare l’antiimperialismo diffuso nella società e l’antiautoritarismo gestito dai movimenti studenteschi. Quel progetto sembrava poter dare reale consistenza a quel diffuso sentimento di rivoluzione in corso che nel ’68 agitava un po’ tutti. Qualcosa doveva succedere. Per me e Adriana che già insegnavamo ribaltare metodi e contenuti nella scuola sarebbe già stata una rivoluzione.

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Tre film tre bambine in fuga dagli adulti PDF Stampa E-mail
Venerdì 29 Ottobre 2021 10:36

di Adriana Perrotta Rabissi

 

Bambine costrette a maturare anzitempo trovano in se stesse la forza per affrontare e superare gli improvvisi eventi dolorosi



I film sono A Chiara, regia di Jonas Carpignano, Italia 2021; Petite maman, regia di Celine Sciamma, Francia 2021; L’Arminuta, regia di Giuseppe Bonito, Italia 2021.
Protagoniste quattro bambine, dagli otto ai quindici anni, che vivono in contesti molto diversi tra loro, per condizioni sociali e culturali, tutte a un certo punto devono fare i conti con eventi improvvisi e drammatici che sconvolgono il ritmo di vita condotta all’interno della propria famiglia, fino ad allora luogo sicuro e protettivo.

Dopo i primi momenti di smarrimento tutte trovano dentro di sé le risorse per affrontare la situazione imprevista, senza lasciarsi travolgere né dal carico di sofferenza che le colpisce, né dalla fragilità dimostrata nell’occasione dai genitori, incapaci di “proteggerle” perché troppo presi dai propri problemi e paure.
Diventa necessario, per ciascuna, intraprendere un percorso di ricerca condotto con gli strumenti propri delle età e delle condizioni sociali; raggiungeranno una maturità che le porterà ad “accettare” il distacco e la perdita, “perdonare” i cedimenti affettivi dei rispettivi genitori, e, nel caso delle due adolescenti,  accogliere le proposte di futuri  inaspettati, che comportano l’abbandono del loro ambiente familiare in cambio della speranza di vite migliori.Gli episodi che modificano le situazioni iniziali sono la morte della nonna per Nelly in Petite maman, la fuga improvvisa  del padre per sottrarsi all’arresto per A Chiara, e l’abbandono da parte dei genitori per L' Arminuta, che, a tredici anni è portata all’improvviso in una nuova famiglia, del tutto a lei sconosciuta, nella quale si trova addirittura senza la dignità del nome, lei è la Restituita (Arminuta nel dialetto abruzzese), come una cosa che non serve più, come un pacco. È proprio da questa constatazione  “non sono un pacco da spostare” grida alla madre, che inizia l’inchiesta che la porterà a scoprire la verità della propria condizione fino ad allora nascostale.



Chiara ha quindici anni, di fronte alla fuga notturna del padre e al silenzio della madre e della sorella maggiore, dei parenti e degli amici  comincia  l’inchiesta con testardaggine e determinazione, senza lasciarsi scoraggiare dalle ripetute sollecitazioni a non chiedere e non interessarsi a quello che accade, perché certe cose è meglio non saperle e non dirle.

Nelly ha otto anni, lo strumento a sua disposizione per fronteggiare la doppia perdita contemporanea della madre e della nonna è il gioco di ruolo, per mezzo del quale si immedesima nella nonna immaginando l’infanzia della madre, che l’ha appena abbandonata improvvisamente e provvisoriamente perché incapace di sopportare il dolore del lutto nella casa dove è cresciuta..


La loro condizione è paragonabile a quella di “un alieno”, per   riprendere la bella espressione che l’Arminuta  riferisce a sé, cacciata dal mondo conosciuto e amato, gettata in uno sconosciuto e estraneo, sia fisicamente che affettivamente.
Condizione comune, quella di vivere in un altro mondo, nella percezione di sé delle e degli adolescenti, almeno nel nostro occidente, ma qui aggravata da oggettive situazioni insolite.

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Miss Marx PDF Stampa E-mail
Sabato 17 Aprile 2021 06:25

di Franco Romanò

Raramente ci s’imbatte in un film che cattura l’attenzione dello spettatore prima ancora che esso cominci, cioè quando scorrono i titoli iniziali. L’impatto assai forte, oltre che dalla grafica, è dato dalla colonna sonora che può risultare spiazzante, almeno come prima sensazione; ci si renderà poi conto di quanto sia importante – invece – la scelta musicale compiuta dalla regista Susanna Nicchiarelli nell’economia della pellicola. Sarà proprio la musica a scandire alcuni momenti decisivi del film, insieme a una scelta registica di tipo ellittico, che focalizza la narrazione sui punti chiave. Questo potrà suscitare qualche incomprensione in chi non conosce la storia o la conosce poco, ma l’opera ne risente positivamente. Quando cessa il sonoro e si passa all’immagine, abbiamo un primo piano molto intenso di Eleonor Marx, che sfuma in piano medio: siamo in un cimitero e proprio il giorno della sepoltura di Karl. Ci sono tutti i compagni e le compagne di una famiglia allargata e di fronte a loro Eleonor legge il frammento di una lettera di Karl a Jenny von Westfahlen.

Nella casa in cui vivono o girano un po’ tutti e prima di ogni altro Engels ed Helene Demuth, vive anche il nipote, il figlio preadolescente di Jenny Marx, morta poco prima del padre. Il ragazzino viene continuamente lasciato da qualche parte perché la zia Eleonor deve partire per tenere le redini del movimento comunista: comizi, convegni, tutto quello che è necessario fare, ma su cui Nicchiarelli non si sofferma più di tanto, se non in alcuni passaggi chiave. Sono tre: una prima fase in cui Eleonor appare come la semplice continuatrice dell’opera di suo padre e le altre due, l’ultima in particolare, in cui la teoria si colora d’immagini e proposizioni che sono sue. Questo l’andamento della vicenda da un punto di vista politico. Tuttavia è solo una parte del film, perché parallelamente a queste vicende scorre la vita personale di Eleonor, che si lega a Edward Aveling, un discreto commediografo capace solo di dilapidare patrimoni e di nascondere dietro la cortina fumogena del libero amore e dell’adesione al socialismo la sua irresponsabilità sentimentale. Eleonor, pur acquisendo sempre più la consapevolezza che si tratta di una relazione malsana, non riesce a liberarsi del suo sogno d’amore, finché non decide di togliersi la vita. Il film evita del tutto di occuparsi dei sospetti intorno a quel suicidio e delle conseguenze del gesto e cioè del teatrino che lo precede e lo segue.1 L’importanza del film sta in altro e la potenza delle scene finali, in cui ancora una volta è la colonna sonora a recitare un ruolo di primo piano, permette alla regista di proiettare nel futuro Eleonor Marx, un futuro nel quale le parole del padre, che sono state le sue e solo quelle per lungo tempo, ne alimentano altre che sono soltanto sue. Noi che osserviamo, abbiamo una frase che viene a fior di labbra più volte, uno slogan: il personale è politico e questo va oltre la difficoltà di Eleonor nel rompere la relazione con Edward. Poteva dirlo storicamente? No, poteva solo vivere tutte le tappe che l’avrebbero portata - seppure tragicamente - a intuire il problema della subordinazione della donna anche nell’ambito socialista. Non condivido perciò le critiche che vedono nel film un eccessivo sbilanciamento sulla vita sentimentale di Eleonor, fra l’altro definita in qualche recensione matrimoniale pur mancando qualsiasi matrimonio (anzi, a dire il vero ce ne sono troppi) – a scapito della vicenda politica. Fra le due storie che scorrono parallele vi è invece una simmetria, ma anche una relativa autonomia. Non corrono alla stessa velocità e dunque possono essere viste e considerate separatamente senza cercare intrecci che raramente ci sono, tranne in un caso: la sofferenza che Eleonor avverte costantemente rispetto al nipote, di cui ha voluto farsi carico, ma cui non riesce poi a dedicare tutto il tempo che vorrebbe.

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Di pandemia, di riflessioni, di conflittualità possibili PDF Stampa E-mail
Sabato 26 Settembre 2020 10:53

di Paolo Rabissi

Non sono in molti, né in molte, coloro che sul comportamento di massa durante la fase più critica della diffusione del virus, gettano uno sguardo meno pessimista e fuori dagli schemi. Ci prova a mio parere anche Raffaele Sciortino nell’articolo comparso su Sinistrainrete (https://www.sinistrainrete.info/globalizzazione/18721-raffaele-sciortino-crisi-pandemica-e-passaggi-di-fase.html) il 21 settembre 2020.

Non mi soffermo sulla complessità delle sue analisi (interessanti i commenti dei lettori) che sono peraltro un’articolazione approfondita dei temi svolti nei suoi due libri precedenti[1], mi basta qui prendere in considerazione le sue riflessioni conclusive quando analizza appunto il comportamento medio della massa durante la diffusione del virus.Il trionfo della morte, Pieter Bruegel il vecchio

La prima: “…una parte della classe sfruttata e oppressa, minoritaria ma sostenuta da un senso comune assai più ampio, non è scesa in campo per interessi particolari ma ha in un certo senso lottato contro se stessa come elemento del capitale, ha contrapposto, pur inconsapevolmente, la riproduzione sociale a quella sistemica, ha cozzato, senza volerlo, con i limiti della propria condizione proletaria particolare, interna al capitale, come limiti alla riproduzione della comunità umana.”

Quel ‘pur inconsapevolmente’ e quel ‘senza volerlo’ sono intanto una spia linguistica che merita a mio parere un approfondimento per quello che sottende.

La seconda riflessione: “In secondo luogo, [la massa] ha dimostrato di saper concretamente disconnettere, sia pure per una breve parentesi, la riproduzione della vita dalla riproduzione del capitale.”

Questa è un’affermazione davvero singolare a prima vista. La sua apparente semplicità rimanda invero a una temperie culturale del nostro tempo che a mio parere chiama in causa la presenza del femminismo e delle sue lotte. Perché si può anche far finta che l’espressione sia quello che è, l’affermazione cioè che vivere bene senza malanni è la prima necessità, il primo desiderio dell’umanità. Pensa alla salute! sembra dire… il lavoro è importante certo ma la salute viene prima perciò fermati e vedi di fermare anche gli altri che ti stanno vicino.

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USA, note sullo stato delle cose PDF Stampa E-mail
Mercoledì 05 Agosto 2020 14:57

di Franco Romanò

C'è chi sostiene che il capitalismo è proprio morto.1 Più modestamente noi ci domandiamo: fino a quando gli Usa saranno in grado di continuare a scaricare i costi della loro egemonia imperiale? Partiamo dalle sommosse seguite all’assassinio di George Floyd per andare indietro nel tempo e anche per confrontare questo movimento con quelli precedenti, ma di questi ultimi vent’anni. La differenza è grande, perché il contesto è radicalmente cambiato e perché è diverso anche il movimento. Il numero di chi ha perso il lavoro e non sa se e quando potrà riaverlo ammonta a una metà degli occupati stabilmente. In secondo luogo, ci sono contemporaneamente la pandemia e un crollo verticale della domanda interna, in terzo luogo è cresciuta la radicalità del movimento mentre Occupy wall street, per esempio, era la coda annacquata delle prime esplosioni No global, nato in un momento in cui l’egemonia liberal era ancora forte, mentre il movimento era in crisi dopo i fatti di Genova. Tanto annacquata da avere in Hilary Clinton addirittura un simbolo femminista: fu facile per i democratici convogliare quel movimento nei comitati elettorali pro Obama e poi mandarlo a casa una volta eletto il presidente. Non sarà per niente facile farlo questa volta e basta osservare gli slogan che si sono visti un po’ dappertutto e alcune interviste. Partiamo da Seattle, guarda caso proprio lì. Una parte della città è stata occupata e dichiarata città libera dalla polizia e autogestita; ma ancora più stupefacente nel servizio andato in onda persino alla tv italiana è che la polizia locale partecipa al movimento perché durante la pandemia ha collaborato con le reti solidali per la consegna di cibo e medicinali; questo però significa che le barriere si erano già incrinate prima dell’assassinio di Floyd!

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Manifesto della nuova rivista Officina Primo Maggio PDF Stampa E-mail
Giovedì 30 Aprile 2020 00:59

Pubblichiamo il Manifesto della redazione della nuova rivista 'Officina Primo Maggio' in occasione dell'uscita del primo numero. Come viene detto nel Sommario: "...una rivista ma anche e soprattutto un luogo di confronto e di dialogo, un’operazione politico-culturale, una “officina” di esperienze concrete di azione sociale e di ricerca militante, nata dal desiderio di ripensare collettivamente che cosa ha lasciato l’esperienza della rivista Primo Maggio, che cessava le sue pubblicazioni nel 1989." La rivista, che avrà anche una versione cartacea, è in rete a questo link https://www.officinaprimomaggio.eu

Manifesto – Officina Primo Maggio 

Tutto era pronto, il primo numero impacchettato, il manifesto rivisto e limato. Stavamo per andare in stampa e ci siamo ritrovati – come tutta Italia, come mezzo mondo – nel bel mezzo dell’emergenza da Covid-19, con tutte le sue conseguenze sanitarie, economiche, sociali e culturali. Per il primo numero sono stati necessari piccoli ritocchi e qualche aggiustamento. Gli obiettivi e i metodi del progetto, invece, ci sono sembrati ancora più necessari.

Il lavoro capitalistico, il lavoro per conto terzi nelle sue molte forme è ancora il rapporto sociale fondamentale, la base delle disuguaglianze. Non si può parlare di società oggi senza tenere in considerazione lo squilibrio tra chi vende la propria forza lavoro e chi la acquista, senza cogliere le mille forme di sfruttamento, autosfruttamento, diseguaglianza negli interstizi della produzione e della riproduzione sociale. Da qui la necessità di superare questo squilibrio ricorrendo alle forme praticabili di conflitto con molteplici tipologie di coalizione.

Officina Primo Maggio è un progetto politico-culturale di parte, consapevolmente volto a esplorare le condizioni che rendono praticabile il conflitto, inteso come capacità di attivarsi da parte dei soggetti direttamente coinvolti nei processi produttivi, distributivi, insediativi ecc. Pur consapevoli che alcune delle modalità in cui si è espressa la conflittualità sociale nel fordismo sono divenute obsolete, restiamo convinti/e che sul terreno del lavoro molto resti ancora da fare e da sperimentare, se teniamo conto non solo del conflitto dispiegato ma anche di quello tacito, intrinseco, latente, e delle sue possibilità di espressione nell’universo digitale. La domanda a cui tenteremo di volta in volta di rispondere è: come e dove produrre conflitto oggi, in particolare nei rapporti di lavoro e nelle prestazioni di natura tecnico-intellettuale.

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La vita oltre la pandemia PDF Stampa E-mail
Giovedì 30 Aprile 2020 00:11

 

di NONUNADIMENO, Roma


Qualcosa si muove tra le macerie della pandemia. Siamo separate, ma oggi più di prima congiunte dal desiderio di cambiare tutto. Un evento devastante come il Covid-19 richiede risposte potenti e un’ambizione
smisurata. L’epidemia ha messo a nudo che la riproduzione della vita è incompatibile con il progetto neoliberale di estendere la logica del mercato a ogni ambito dell’esistenza. Ripartiamo dai saperi e dalle pratiche
femministe e transfemministe che proprio della riproduzione sociale hanno fatto il terreno di conflitto prioritario. Ripartiamo da un tessuto collettivo e situato, mutevole nelle alleanze trasversali in cui prende sempre
nuovo corpo. Perché se il presente è catastrofico, il futuro non è ancora scritto e le nostre lotte dovranno determinare le forme della convivenza dopo la pandemia.

Per trovare risposte potenti a eventi devastanti torniamo all’«arcano della riproduzione», ossia a quell’insieme di attività che rigenerano la vita umana in una determinata formazione storico-sociale: oltre la
riproduzione delle generazioni, le cure psico-fisiche e sanitarie di tutt*, adult*, bambin* e anzian*, la gestione degli spazi e dei beni domestici, l’educazione e la formazione, l’accesso alla cultura, ai servizi, lo svago,
le relazioni sociali. Sono stati i movimenti femministi a svelare la centralità del lavoro riproduttivo: condizione di esistenza della società tutta, della sua prosecuzione nel tempo.

A partire dagli anni Settanta il movimento Salario al lavoro domestico ha documentato come la stessa transizione al capitalismo, agli albori della modernità, sia stata possibile solo attraverso l’occultamento, la
naturalizzazione e dunque la svalutazione del lavoro di riproduzione. Senza le attività di cura e domestiche che assicuravano la sussistenza dell’operaio, non si sarebbe data forza lavoro. Senza forza lavoro, non
si sarebbero dati né fabbrica né profitto. Eppure, la riproduzione è stata misconosciuta come lavoro, ascritta all’ambito delle risorse naturali disponibili all’appropriazione. Così si è giustificata, e ancora si giustifica,
l’estorsione di un’immane fetta di ricchezza. È questo il filo rosso che lega il lavoro gratuito delle donne all’interno delle case e l’espropriazione delle risorse del pianeta.

E, come sottolineato dalle femministe afro-americane e antirazziste, lavoro domestico e riproduttivo ed espropriazione delle risorse sono sempre stati attraversati dalla linea del colore. Le donne migranti e
razzializzate continuano a farsi carico di estenuanti attività di cura dentro e fuori l’ambito della famiglia; le popolazioni e i territori indigeni sono, ieri come oggi, prese d’assalto dalla violenza predatoria del
capitalismo. Questa, l’eredità della storia schiavista e coloniale.
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Cosma impiegato contabile della multinazionale Nestlè, capitolo secondo. Cosma a Colonia, capitolo terzo. PDF Stampa E-mail
Sabato 21 Marzo 2020 21:50

di Paolo Rabissi

Cosma impiegato della multinazionale Nestlè. Capitolo secondo.

Come accade, Cosma aveva cominciato a sentirsi vivo solo dopo aver ottenuto il diploma di maturità a Milano, dove la famiglia si era trasferita. Non ebbe nessuna esitazione, cercò un lavoro e s’impiegò come contabile alla Locatelli, un’azienda casearia allora di proprietà della multinazionale Nestlè, con sede nella Torre Velasca. Un anno a fare conti, controllare conti, proiettare conti, neanche avesse alle spalle un diploma di perito contabile. Fuunanno di straordinaria euforia ma anche di malessere. Cosma cercava di raccapezzarsi tra la tentazione di integrarsi definitivamente nella società milanese, col suo diploma di prestigio e un mensile di tutto rispetto, e il fatto che la sua testa era costantemente rivolta alla letteratura, all’arte, alla storia, alla filosofia, alla scienza. Cioè a tutto quanto aveva superficialmente conosciuto al liceo ma verso cui provava grande attrazione. Ma il richiamo all’integrazione nella milanesità era irrrinunciabile. Dalla nascita a Trieste fino all’arrivo a Milano aveva vissuto e frequentato scuole in mezza dozzina di città e cittadine con l’ospitalità, non sempre generosa e disinteressata, di parenti o conoscenti. Già approdare alla sicurezza economica significava rompere con l’indigenza famigliare passata e quel nomadismo subìto, significava accomodarsi in una stanzialità a lungo desiderata. Tanto più la strada per quella integrazione sembrava ormai alla sua portata per via di quella assunzione negli uffici contabili della Locatelli, in quel grandioso grattacielo.

Non gli ci volle molto per rilassare la postura ingessata dei primi giorni, sciogliere le gambe sotto la scrivania, adoperare senza timore la macchina da scrivere nonché quell’oggetto infernale e rumoroso che era la macchina calcolatrice.

Lo stanzone aveva dei grandi tavoli dove erano al lavoro mezza dozzina di impiegati anche loro rumorosi e mai fermi, andavano e venivano dal centro meccanografico sotterraneo portando e riportando le schede perforate che contenevano i dati delle operazioni di  vendita. Questo viavai sui rapidissimi ascensori del grattacielo si univa a quello di venditori, imprenditori, impiegati e dirigenti di altre aziende ospitate ai piani alti. Ogni tanto tutto si intasava e in ufficio c’era un alternarsi di argute osservazioni e finti sdegni sull’efficienza di uno dei massimi simboli della modernità milanese.

Un enorme fallo…! aveva commentato Matteo.

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La speranza possibile: riflessioni rapsodiche sulle Tesi di Benjamin PDF Stampa E-mail
Lunedì 01 Novembre 2021 09:17

Di Franco Romanò

Le tesi sulla storia sono un testo estremo, scritto di getto, eppure in sintonia con una riflessione che viene da lontano: il biennio 1939-40 offrì al filosofo l’occasione propizia per renderle pubbliche. Perché riprenderle oggi? Anche noi ci troviamo in un passaggio epocale e da questa considerazione è nata l’idea di una riflessione su di esse, cercando di leggerle per così dire contropelo, cioè dal lato che sembra più improbabile per uno scritto così estremo e disperato: il lato della speranza.1

Benjamin parte da una critica radicale dello storicismo.

Dalla Tesi settima. Traduzione da L’ospite ingrato. Foustel de Coulange raccomanda, allo storico che vuole rivivere un’epoca, di togliersi dalla testa tutto ciò che sa del corso successivo della storia. Meglio non si potrebbe  designare il procedimento con il quale il materialismo storico ha rotto. È un procedimento di immedesimazione emotiva. La sua origine è l’ignavia del cuore, l’acedia, che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica autentica, che balena fugacemente. Per i teologi del Medioevo era il fondamento della tristezza. La natura di questa tristezza diventa più chiara se ci si chiede con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: con il vincitore. … L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno … Chiunque abbia riportato fino ad ora vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominato ridi oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato … Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatta, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento alla barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare la storia contropelo.

L’identificazione con tutti i vincitori fa propria la finzione di scorporare il cosiddetto patrimonio culturale dalle condizioni materiali e di oppressione che lo hanno reso possibile. Tale finzione si avvale dell’immedesimazione emotiva con il vincitore e dell’acedia, cioè l’ignavia del cuore.2 La sua non è soltanto una critica del modello eroico. Affermare che ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie, rompe qualsiasi sudditanza basata sulla continuità storica e, pur sapendo egli stesso che non è possibile raggiungere questo obiettivo in senso assoluto (Il materialista storico quindi, ne prende le distanze da esso nella misura del possibile), questa è l’unica strada che permette di creare uno spazio mentale vuoto o quasi vuoto, nel quale collocare l’ipotesi di una speranza possibile.

STORIA E PROFEZIA

Friederich Schelegel: Der Historiker is ein rückwärtsgekehter Prophet (Lo storico è un profeta rivolto all’indietro).

È possibile rintracciare nelle Tesi una luce, seppure flebile, che permetta di ricostruire una speranza concreta? Si può farlo e articolarlo intorno ad alcune domande ed alcuni exempla di Benjamin. Nella parte finale della seconda Tesi egli scrive:

… esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come a ogni altra generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.

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cronache berlinesi PDF Stampa E-mail
Martedì 22 Giugno 2021 06:28

di Paolo Rabissi

La memoria, le mutande, il Caos

Giordano Bruno: "Mi par cosa ridicola il dire che extra il cielo sia nulla. Di maniera che non e? un sol mondo, una sola terra, un solo sole: ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose."

Nato a Nola, bruciato a Roma sul rogo il 17 febbraio 1600. C'è ancora. Lì a Potsdamer Platz, temevo che la furia ricostruttrice su Berlino est dopo la caduta del muro si portasse via la bella grande scultura a testa in giù di Giordano Bruno. E' lì, come se quella fosse la sua posa naturale con quella testa schiacciata che lo assomiglia a ET del film di Spielberg. Giusto così. Intellettuali e poeti e poete e scienziati e scienziate, non in pochi né in poche, sono spesso a testa in giù, vanno contro, vengono da un altro mondo. Godono tutti e tutte di un trattamento speciale soprattutto se mettono in discussione ruoli e poteri, allora gli si scatenano contro chiese religiose e laiche, i fascismi, gli stalinismi, i razzismi, i sessismi. Allora li-le ammazzano e prima li-le torturano. Così è capitato a Giordano Bruno. Gli hanno inchiodato la lingua al palato con un solo grosso chiodo perché non parlasse.

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Impressionante qui a Berlino l'esercizio quotidiano della memoria, non puoi sfuggirgli, anche se sei in vacanza. Come a Milano non puoi sfuggire alla pubblicità delle mutande, soprattutto delle donne, qui non sfuggi alla memoria del nazismo. Postadamer platz è attualmente tappezzata di foto di polacchi deportati e condannati al lavoro forzato dopo il '39.

La città si dilata su una superficie otto volte superiore a quella di Milano. Tre milioni e mezzo di abitanti, pochi se pensiamo che sulla stessa superficie a NYC ce ne stanno più di dieci. Le strade non sono stressate dal traffico, ma anche quando frotte di turisti si disseminano frastornate sempre in cerca di qualcosa raramente fanno resse tipo quelle di piazza del Duomo a Milano. Unter den Linden, la strada usata dai nazisti per le adunate lunga un chilometro e mezzo e poi famosa per il muro dal 1961, è larga sessanta metri: non tutte sono così larghe ma, aggiungendo i marciapiedi che sono larghissimi, la sensazione resta quella di un territorio di pianure estese che devi conquistarti gambe in spalla. Altrimenti ti perdi tutto. In realtà ci sono le Ubahn, metropolitane sotterranee che ti portano ovunque, e poi ci sono le Sbahn che sono come le Ubahn solo che viaggiano in superficie ma su percorsi sopraelevati o comunque protetti dunque veloci come le prime. Non puoi pensare di andare da un quartiere a Ovest a uno a Est a piedi, ti va via la giornata. Da un quartiere all'altro invece si va in metro anche con la bici. Grandi biciclette che nei vagoni occupano grandi spazi e devi stare attento a non esserne infilzato.

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L’intreccio tra lingua e politica PDF Stampa E-mail
Venerdì 26 Marzo 2021 08:31

di Adriana Perrotta Rabissi

L'androcentrismo della lingua italiana colloca le donne in una posizione di subalternità agli uomini nell'ordine simbolico. Questa svalorizzazione costituisce il primo gradino verso l'interiorizzazione della dipendenza.

 

La lingua è soprattutto una questione politica, come sanno bene politici/che, opinion maker e autorità varie, ma quando le innovazioni linguistiche relative alle trasformazioni di ruoli e funzioni pubbliche delle donne fanno il loro ingresso nel mondo della comunicazione, la loro adozione è mal sopportata in nome dell’ eleganza fonetica, oppure criticata in ragione dell’inutilità di cambiare termini consolidati dall’uso e universalmente  accettati, da ultimo rifiutata in nome della  libertà di espressione. Eppure l’uso politico della lingua è ben conosciuto dalle classi dominanti di tutto il mondo, a partire dall’imposizione della propria lingua alle popolazioni vinte e sottomesse  da  parte dei vincitori, pratica ben conosciuta dai popoli colonizzati. Ancora oggi  nei regimi totalitari gruppi di popolazione sono costretti a rinunciare alla propria lingua pena l’arresto.

In ambito democratico l’operazione è più sottile, la lingua è impiegata per educare la comunità ai cambiamenti che si intendono portare nella sfera sociale e politica, senza provocare resistenze o opposizioni.

Così ad esempio abbiamo assistito all’ introduzione nell’ordinamento scolastico di espressioni quali crediti e debiti formativi, dirigenti, piani di offerta formativa dall’ultimo decennio del secolo scorso, quando si è iniziato a  trasformare la scuola da luogo educativo  a luogo formativa dei ragazzi e delle ragazze per adeguarli/e alle esigenze del mondo del lavoro, nella prospettiva dell’aziendalizzazione completa della società.

Analogamente funziona lo stravolgimento della Costituzione Italiana attraverso l’introduzione di definizioni tratte da altri sistemi politici: Governatori di Regioni invece che Presidenti, per accentuarne il potere decisionale, Premier o Primo Ministro per sminuire la dimensione collegiale della Presidenza del Consiglio, figure queste che non sono previste dalla nostra Costituzione, ma che, usate costantemente dai mezzi di comunicazione di massa, nascondono l’operazione di modifica materiale  di ruoli e poteri  per renderli  analoghi  a quelli presenti in ordinamenti politici diversi dal nostro, ordinamenti che si intendono far adottare.

La lingua costituisce i binari su cui viaggia il pensiero, è il luogo nel quale si formano le soggettività delle donne e degli uomini, perché è il deposito collettivo dei valori e degli ideali della comunità dei parlanti e delle parlanti, ci trasmette giudizi su ciò che è buono o cattivo, giusto o  ingiusto, lecito o illecito, normale o anormale, bello o brutto.

Ciò che non ha nome nella nostra lingua per noi non esiste, con fatica riusciamo a immaginare qualcosa che non sappiamo nominare.

Le lingue non registrano proprietà intrinseche della natura, bensì le categorie di percezione e classificazione del nostro mondo interno ed esterno, e della nostra relazione con esso,  categorie sedimentatesi  nel corso del tempo e  proiettate sulla natura stessa.

Osserva un linguista francese: “Parlando il mondo le lingue […] lo reinventano”.

Ad esempio le distinzioni che percepiamo tra oggetti e  processi esistono per noi perché abbiamo nomi specifici atti a indicarle nella nostra lingua, ma l’appartenenza a una serie o all’altra non è universale, dipende dalla formulazione che ne danno le diverse lingue: quelli che per noi sono oggetti in altre lingue sono eventi o azioni, come hanno messo in luce studi comparati tra varie lingue uma­­ne.

Per alcune popolazioni la divinità non è un essere, ma un processo espresso da un verbo; in alcune lingue poi non esiste il concetto di futuro e conseguentemente non c’è il tempo del futuro; in altre non esiste il colore verde essendo il verde il mondo abitato dalla comunità dei/delle parlanti.

L’uso poi di nominare molte sfumature di uno stesso colore, necessario all’organizzazione di vita di una comunità, affina la capacità di percepirne le differenze, infatti i/le parlanti di certe popolazioni distinguono un numero di sfumature molto più alto di quello percepito da chi non appartiene  alla comunità.

Le differenti categorie linguistiche segnalano le differenze delle categorie logiche ed epistemologiche di una società, la distanza tra le visioni del mondo è più grande quanto più distano popolazioni nel tempo e nello spazio, lingue di analoghi sistemi culturali sono più vicine tra loro.

È stato possibile pertanto che alcuni studiosi considerassero dotate di menti infantili, e in quanto tali incapaci di astrazione, comunità di parlanti  che non disponevano di un termine generale per indicare complessivamente le specie animali necessarie alla loro vita, ma che invece ricorrevano a molti termini per designare i singoli individui, distinti in base a tratti caratteristici. Questo è certamente un universale umano, le particolarità di una lingua sono ancorate ai bisogni quotidiani di una collettività di parlanti.

La funzione modellizzante della lingua comporta il fatto che la costruzione interiore del mondo reale si forma in gran parte nell’inconscio, sulla base delle abitudini linguistiche apprese dalla nostra entrata nel mondo, così che le rappresentazioni sociali in essa sedimentate si traducono, a livello del senso comune, in forme obiettive di conoscenza.

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Cura, una parola politica PDF Stampa E-mail
Martedì 19 Gennaio 2021 09:10

 

  1. di Adriana Perrotta Rabissi

 

E' matura l’esigenza di un effettivo cambiamento del modello neoliberista dominante di produzione e riproduzione in modo che siano poste al centro di ogni interesse e di ogni pratica la qualità e la dignità delle persone, piuttosto che il profitto. E’ in questo panorama che la cura assume nuova valenza semantica, si propone come nuovo modello di convivenza, il momento è favorevole perché è cambiato il clima culturale, sono maturate le coscienze di molti e molte, grazie alle lotte degli ultimi decenni.

 

qui tra sterpaglie e tappi di bottiglie

si affacciano conchiglie

 

Storia  di una parola controversa

quando negli ultimi decenni il termine “cura” è uscito dall’ambito medico-terapeutico per entrare in quello sociale, parlare di cura suscita sentimenti contrastanti di rifiuto o di consenso. Rifiuto quando la si legge come comportamento indotto dalla presunta attitudine delle donne a farsi carico del benessere dei familiari, segno di amore nei loro riguardi, quando cioè richiama una funzione storicamente determinata, ma  naturalizzata come tratto caratteristico dell’essere femminile e come tale considerata immodificabile.

Consenso quando la si considera in chiave politica per  denunciare l’obbligo sociale  delle donne a svolgere una serie di attività e a erogare una quantità di servizi domestici e affettivi non pagati, se svolti in famiglia, sottovalutati e poco remunerati, se svolti nel mercato del lavoro, a vantaggio sia del sistema di produzione-consumo nel quale viviamo, sia della massa di uomini che se ne avvalgono.

La mossa politica –impensabile - operata dal movimento delle donne negli anni Settanta del secolo scorso fu il collegamento del termine cura al termine lavoro, cosa che ha fatto arricciare il naso, e continua ancora oggi, a molti e molte: “mia madre, moglie…. non lavora, è casalinga”, anche però  a studiosi/e del lavoro nei suoi aspetti economici, politici, storici, filosofici, antropologici, sociologici, da un lato, dall’altro a chi ritiene riduttivo ricorrere al concetto di lavoro in riferimento a compiti intesi appunto come dono d’amore verso i propri cari.

Nel 1991 fu pubblicato dal Centro di studi storici sul movimento di Liberazione della donna in Italia, che operò a Milano dal 1979 fino al 1994, Linguaggiodonna. Primo thesaurus di genere in lingua italiana (1), uno strumento per l'indicizzazione del patrimonio documentario relativo al femminismo degli anni Settanta, raccolto dal Centro studi.

Fu necessario trovare uno strumento adeguato all’indicizzazione dei libri e dei documenti dell’archivio perché i sistemi di classificazione tradizionali, ritenuti neutri rispetto ai generi, si erano rivelati inutilizzabili per descrivere i contenuti prodotti dalle analisi, dalle pratiche esperite e dalle teorizzazioni femministe. La costruzione del thesaurus fu accompagnata da numerosi incontri, Seminari e Convegni nazionali e internazionali, con documentaliste delle realtà analoghe italiane e europee, tutte alle prese con lo stesso problema di messa a punto di strumenti efficaci e efficienti per la rappresentazione semantica dei documenti dei rispettivi archivi e biblioteche.

In Linguaggiodonna si è adoperato il descrittore Lavoro di cura, collocandolo contemporaneamente nei due microthesauri Lavoro e Riproduzione corredandolo della seguente nota:

Da intendersi in senso lato come lavoro di accudimento a soggetti inabili, anziani e minori sia all’interno che all'esterno della famiglia".

L’espressione “lavoro di cura” entrò poi a far parte del Thesaurus del Nuovo Soggettario della Biblioteca Nazionale di Firenze, che indica come fonte del termine proprio Linguaggiodonna.

Il descrittore sembra riassuma bene quell’esigenza che emergeva dalla nuova coscienza delle donne, quasi mezzo secolo fa, di mettere sotto critica la separazione tra produzione e riproduzione, base della divisione sessuale del lavoro sulla quale si è costruita la nostra civiltà.

Allora sembrò azzardato, ma il concetto fece strada.

Sono anni, almeno dalla fine del secolo scorso conclusosi sotto l'egida della Conferenza Mondiale di Pechino nel 1995, che si è riconosciuta e anche quantificata in termini monetari, la ricchezza prodotta dal lavoro di cura delle donne, e si sono moltiplicati gli inviti alla valorizzazione oltre che nella sfera del privato familiare in quella del pubblico.

E' difficile per molte e molti cogliere la violenza strutturale sottesa all'esaltazione della funzione salvifica delle donne in tutti i campi delle attività umane, esaltazione destinata a compensare seppure immaginariamente, l’ insignificanza reale.

 

Cambiare la parola?

Negli ultimi cinquanta anni il mondo del lavoro è cambiato, grazie allo sviluppo tecnologico -automazione di molte fasi dei processi produttivi, nuove tecnologie della comunicazione, dell’informazione e del trasporto- Il capitalismo neoliberale ha incrementato  la tendenza all’ accumulazione illimitata,  ha ottenuto la possibilità di adeguare la forza lavoro alle necessità dei mercati in tempo reale, e, favorito dall’ideologia e dalle politiche neoliberiste, ha costruito una società dominata dalle leggi economico-finanziarie, alle quali sottomettere le vite e i corpi di uomini e donne, il che gli ha consentito il riassetto dei modi di produzione, riproduzione e consumo a livello planetario.

Così mentre si sono mantenute in aree dell’Occidente, almeno in parte, le fasi meno faticose e dannose dei processi di lavorazione e distribuzione di merci e beni, la globalizzazione ha accentuato lo sfruttamento a danno di popolazioni del resto del mondo, popolazioni gravate da fame, guerre e miserie, da catastrofiche prospettive di degrado ambientale, dal consumo di risorse indispensabili alla vita umana animale e vegetale, di acqua, aria, terra, con conseguenze che si risentono necessariamente anche da noi.

In Occidente si è intensificato il lavoro di natura impiegatizia e manageriale, si è accentuata la competitività tra le imprese per far fronte alla concorrenza crescente in tempi di crisi.

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OPM: Uprising/sollevazione-voci dagli USA, postfazione PDF Stampa E-mail
Martedì 16 Giugno 2020 17:24

La Postfazione di Sergio Bologna, che qui riproduciamo, conclude l’opuscolo, per ora solo on line, dell’Officina Primo Maggio intitolato Uprising/sollevazione – voci dagli USA https://www.officinaprimomaggio.eu/uprising-voci-dagli-usa/ . Pubblicato a tempo di record dal team di Officina Primo Maggio a ridosso della sollevazione delle città statunitensi, in occasione del brutale omicidio di George Floyd a Minneapolis, comprende in apertura la testimonianza della scrittrice Rachel Kushner cui seguono i saggi di Bruno Cartosio, Mattia Diletti, Alessandro Portelli, Ferdinando Fasce, Ferruccio Gambino, e l'intervista a Rick Perlstein (C.Antonicelli).

 

Scrivevamo nel nostro Manifesto pubblicato un mese e mezzo fa:

Officina Primo Maggio è un progetto politico-culturale di parte, consapevolmente volto a esplorare le condizioni che rendono praticabile il conflitto, inteso come capacità di attivarsi da parte dei soggetti direttamente coinvolti nei processi produttivi, distributivi, insediativi ecc. Pur consapevoli che molte delle modalità in cui si è espressa la conflittualità sociale nel fordismo sono divenute obsolete, restiamo convinti che sul terreno del lavoro molto resti ancora da fare e da sperimentare, se teniamo conto non solo del conflitto dispiegato ma anche di quello tacito, intrinseco, latente e delle sue possibilità di espressione nell’universo digitale.

Oggi chi ci legge può legittimamente chiedere: avete evocato la parola “conflitto” che era un po’ passata di moda e sostituita da altre (per esempio “diseguaglianze”) e ora vi trovate dinanzi a una forma di conflitto che rasenta la guerra civile. Come vi ponete di fronte a questi avvenimenti? Rientrano nella vostra idea di conflitto?

Certo che rientrano, ma per capirci meglio sarà necessario fare una precisazione.

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Nota redazionale PDF Stampa E-mail
Giovedì 30 Aprile 2020 00:28

Pubblichiamo due analisi che riteniamo significative per profondità e ampiezza sui modi e le condizioni della produzione e della riproduzione in questo tempo di neoliberismo messo sotto scacco dalla pandemia in tutto il mondo.

L'emergenza sanitaria, finanziaria, economica, sociale, politica e culturale resasi visibile non è solo il segno della crisi della nostra organizzazione di vita e lavoro, ma anche il luogo dal quale ripartire per confrontarsi nelle teorie e nelle pratiche al fine di evitare, una volta superato il momento critico, tutto sia riassorbito nelle forme di produzione e riproduzione consuete.

Di Non Una Di Meno, La vita oltre la pandemia (https://nonunadimeno.wordpress.com/2020/04/28/la-vita-oltre-la-pandemia/). Di Sandro Moiso, Sulla centralità del lavoro e il necessario conflitto che l'accompagna. (www.carmillaonline.com).

 
Sulla centralità del lavoro e il necessario conflitto che l'accompagna PDF Stampa E-mail
Venerdì 24 Aprile 2020 16:49

di Sandro Moiso

Rilanciamo con piacere questa lucida e completa analisi su lavoro capitalismo e coronavirus da www.carmillaonline.com

Sandro Moiso è studioso e autore di testi sulla musica, la cultura e la storia americane, ma anche polemologo e docente di Storia. Ha scritto per “L’Indice dei libri del mese” e fa parte del collettivo redazionale di “Carmilla”. Quest’anno ha festeggiato il cinquantesimo anniversario di una militanza radicale iniziata all’età di quindici anni, un po’ per scelta e un po’ per caso.

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
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Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.

Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.

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