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Lunedì 22 Gennaio 2018 09:21 |
di Adriano Voltolin
Cinema e realismo
In un dibattito ormai di molti anni fa, era il 1977, Nanni Moretti, allora ventiquattrenne, accusava Mario Monicelli di fare film per il pubblico, per la cassetta e di non tenere conto invece della necessità di esplorare nuovi confini lasciandosi alle spalle il filone della commedia all’italiana. Monicelli replicava che anche Moretti, senza riconoscerlo, si rifaceva alla commedia all’italiana, genere che faceva parte di un grande filone cinematografico del dopoguerra iniziato con il neorealismo, dopo la Liberazione fino all’inizio del nuovo decennio e poi proseguito, nella prima metà degli anni cinquanta, con una serie di film nei quali erano ben individuabili elementi specifici del neorealismo, quali le storie ambientate nel mondo delle classi popolari e la scelta, per molti personaggi, di attori non professionisti. Come dirà Monicelli, la caratteristica che rende la commedia all’italiana un genere particolare, è il fatto di trattare in maniera umoristica e comica argomenti che, in quanto parlano della dura condizione di vita delle classi popolari sono di per sé tragici. Il genere riprende allora elementi sostanziali del neorealismo, ma li presenta in un modo più attento al paradosso e all’ironia popolare.
Moretti curiosamente, con l’immodestia che gli è peculiare, argomentava contro Monicelli ed i suoi film, con argomenti che pensava probabilmente nuovi e moderni, ma che purtroppo non erano affatto tali. La critica in effetti degli intellettuali che si occupavano di cinema negli anni cinquanta e che si poneva in linea con quella che era la critica militante del tempo, accusava il cinema dei primi anni cinquanta di aver abbandonato i temi forti del neorealismo a favore della popolarità e degli incassi. L’idea della critica militante, penso qui a Guido Aristarco e alla rivista Cinema nuovo, era quella per la quale il cinema progressista doveva trattare di temi che percorrevano la società contemporanea favorendo – era in fondo un’idea pedagogica dell’arte cinematografica – una riflessione che cogliesse le questioni più incandescenti del tempo; da qui l’ammirazione di Aristarco per Visconti e per Antognoni, ammirazione assolutamente condivisibile per la capacità dei due registi di porre la loro attenzione sia su temi che cominciavano ad apparire importanti all’affacciarsi degli anni sessanta del novecento, sia sulla capacità, di Visconti, di rileggere in modo critico alcuni snodi della storia italiana ed europea otto e nocentesca. La critica militante aveva un’idea del progresso storico e del proletariato monocorde e, insieme, ingenua e trionfalistica: l’arte cinematografica doveva rispecchiare quest’idea e questo processo: come faceva notare un tempo a chi scrive Mario Spinella, l’idea del proletariato e del suo riscatto che aveva il PCI negli anni successivi alla lotta di Liberazione, non era troppo dissimile da quella che ne aveva il realismo socialista e che può ben essere rappresentata dal celebre quadro di Pelizza da Volpedo. Aristarco fu in effetti un ammiratore del cinema di Giuseppe De Santis, regista che ci diede due mirabili lavori neorealisti, come Riso amaro nel 1947 e Roma ore undici nel 1952, senza peraltro mai raggiungere la capacità trasfigurativa e simbolica di Rossellini o De Sica, ma che fu anche l’autore di Italiani brava gente un film del 1965 sulla campagna di Russia delle truppe italiane; questa pellicola mantiene, nella tradizione neorealistica, l’ambientazione tra i popolani che costituivano il grosso delle truppe italiane di fanteria, ma ci propone una visione dell’Unione Sovietica e del socialismo reale che forse avrebbe imbarazzato un po’ anche Stalin.
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Venerdì 26 Gennaio 2018 16:33 |
di Franco Romanò
Lo scritto di Adriano Voltolin è un invito a fare i conti di nuovo con il sentire comune e la cultura di massa e ha stimolato in me molti ricordi assopiti che hanno a che fare non solo con il cinema.
Subito dopo la caduta del muro di Berlino, quando iniziò anche nel PCI l'operazione trasparenza che raggiunse il suo culmine con Occhetto, si seppe che nel partito c'erano delle cosiddette coperte, cioè iscritti che per il ruolo che svolgevano era bene tenere riservate. Il pensiero in questi casi corre naturalmente a uomini inseriti nell'apparato dello stato per cui la sorpresa fu grande quando si seppe che fra le tessere coperte c'erano quelle di Aldo Biscardi (proprio lui il decano dei giornalisti sportivi con il suo italiano fantasmagorico, recentemente scomparso) e un ex direttore della rivista Grand Hotel. Naturalmente fu Biscardi ad attirare su di sé le attenzioni e tutte le ironie del caso: si disse che erano tessere coperte per la vergogna di farlo sapere ecc. ecc. A ben vedere però la vera notizia è l'altra e cioè che ci fosse un direttore di Grand Hotel, l'antesignano di tutti i fotoromanzi e delle riviste più o meno dedicate ad amori improbabili; scampoli di quella cultura di massa generalmente catalogata con un certo disprezzo come stampa d’evasione, in particolare dagli intellettuali di sinistra, ma che merita invece maggiore attenzione.
Questo l’episodio relativamente recente, ma esso ha alle spalle una lunga storia e cioè l’origine del fotoromanzo come genere. Esso nacque nell’immediato dopoguerra proprio in Italia e da qui si diffuse in tutto il mondo. Un libro recente di Anna Bravo ricostruisce puntualmente la storia di questo prodotto made in Italy, niente affatto minore per impatto, ad altri ritenuti più paludati e degni d’attenzione: Il fotoromanzo 174 pag., Euro 12.00 - Edizioni il Mulino (L'identità italiana n.22) ISBN. Il libro di Anna Bravo ricorda le riunioni semiclandestine della casa editrice Universo (che con L'intrepido aveva già avvicinato il pubblico femminile al fumetto) e l'uscita - nel giugno del 1946 – proprio di Grand Hotel. Il libro di Bravo è uno strumento ricco e documentato per chi voglia ricostruire la storia di questa vicenda dal dopoguerra in poi. Per quello che riguarda questo mio intervento, ciò che maggiormente mi interessa mettere in evidenza, è l’atteggiamento schizofrenico del Pci e anche di riflesso della Dc, in parte, rispetto allo strepitoso successo di pubblico di Grand Hotel e al boom di imitazioni che furono immediate.
La prima fase. La diffusione del fotoromanzo si scontra con la doppia opposizione piuttosto accesa sia da parte cattolica sia comunista, con motivazione desolatamente ovvie: traviare i giovani spingendoli verso condotte di vita immorali, instupidire il proletariato distogliendolo dalla lotta di classe.
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Mercoledì 09 Novembre 2016 13:33 |
a cura della redazione
La nostra attenzione continua ad approfondire, anche nel solco di un postumanesimo, le radici materiali e simboliche del dominio patriarcale-capitalista, a partire dalla divisione sessuale del lavoro e dalla concezione neoliberista dell’individuo maschile, inteso come universale, come soggetto autosufficiente.
Our attention, also in the furrow of post humanism, continues to deepen both the material and symbolic roots of the patriarchal/capitalistic dominion, starting from the sexual division of labor and an illuministic view of the human beings (male in particolar) as self-sufficient monads.
Negli ultimi due numeri di OverLeft ci siamo soffermati su alcune questioni cruciali per la vita di donne e uomini nella fase socio-politica attuale, caratterizzata dalla progressiva espansione del sistema economico - e implicita cultura - neoliberista sia nei paesi arricchiti che in quelli impoveriti del mondo, espansione che genera guerre, distruzioni di risorse essenziali per la vita umana, movimenti migratori, impoverimento di fasce di popolazione sempre più ampie.
Da più parti si levano allarmi sugli effetti collaterali dei processi messi in moto dal neoliberismo, rischiosamente distruttivi per persone, relazioni, qualità di vita anche nell’Occidente.
Molti economisti/e, politologi/ghe, e opinionisti/e prospettano soluzioni di breve e medio termine per mitigarne gli effetti più negativi di ordine sociale e ambientale, la cui efficacia spesso appare incerta.
Ben vengano politiche che aumentino il benessere e la vita di molte donne, e molti uomini, che permettano una più equa distribuzione di risorse e ricchezze, correggendo le ingiustizie macroscopiche e insopportabili, ma è chiaro che non cambiano il sistema nel quale viviamo, semmai lo modernizzano e migliorano i suoi effetti più deleteri. Noi pensiamo che accanto al sostegno a tutte le lotte condotte dalle persone oppresse e sfruttate nei luoghi di lavoro, nei luoghi di vita, nei luoghi del disagio più accentuato, volte a migliorare le condizioni materiali e simboliche di donne e uomini, sia anche importante approfondire le analisi e le teorie volte a cambiare il paradigma patriarcale-capitalistico alla base del sistema con un nuovo paradigma, che smantelli l‘originaria divisione sessuale del lavoro e tenga insieme nella teoria e nella pratica il lavoro produttivo e riproduttivo nell'organizzazione sociale e politica.
La nostra ipotesi è che se non si va alla radice dell’organizzazione materiale e simbolica del sistema patriarcale-capitalistico non se ne esce, se va bene lo si migliora, ma non lo si abolisce.
Il movimento femminista degli ultimi cinquant’anni ha tematizzato e criticato i presupposti fondamentali, a partire dalla divisione sessuale del lavoro, probabilmente creata dal patriarcato, che assegna funzioni, ruoli, compiti specifici agli uomini e alle donne, una divisione sulla quale sono stati costruiti la nostra civiltà, la storia, i saperi, i linguaggi disciplinari e l’organizzazione materiale della nostra vita. Senza voler trovare universalità generalizzanti, ma tenendo conto delle ricerche antropologiche diacroniche e sincroniche degli ultimi anni, registriamo possibili costanti, in particolare il fatto che l’uso degli strumenti stessi della produzione è stato in generale negato o controllato per le donne, con vari mezzi, più o meno violenti, 1 con l’alibi di proteggerle, difenderle nella loro funzione essenziale, naturalizzata, della riproduzione sessuale, biologica, affettiva, psicologica, funzione legata ai due ruoli fondamentali di madre e donna seduttiva (amante, prostituta, moglie provvisoria, a seconda dell’organizzazione sociale della collettività in cui si trova). Il paradosso è che proprio la tecnologia dell’homo sapiens, che ha dato inizio alla civiltà che conosciamo, è stata messa a punto dalle donne (tessitura, raccolta di frutti e semi, costruzione di cesti per la raccolta….) in regime pre-patriarcale.
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Mercoledì 09 Novembre 2016 14:28 |
Questo articolo è composto da due parti, la prima che riguarda il tema del confine tra umano e macchina, di Adriana Perrotta Rabissi, la seconda che riguarda postumanesimo e conflitto sociale di Franco Romanò
I parte
Nei tre saggi che compongono il Manifesto Cyborg Donna Haraway indaga il rapporto tra scienza tecnologia e identità di genere. In contrasto con le posizioni essenzialiste di parte del femminismo adotta la metafora del Cyborg come figura in grado di sovvertire l’ordine del discorso patriarcale e mettere in crisi l’epistemologia maschile.
In the three essays composing the Cyborg Manifesto Donna Haraway investigates the relationship between science technology and gender identity. In opposition to the essentialist positions taken by part of the feminist movement,she takes cyborg metaphor as a figure able to subvert the order of speech and consequently putting in crisis male epistemology.
Preferisco essere cyborg che dea (Donna Haraway), di Adriana Perrotta Rabissi
Negli anni Novanta del secolo scorso Donna Haraway, filosofa e biologa statunitense, che si dichiara socialista e femminista, si è interrogata sul rapporto scienza, tecnologie e identità di genere e ha scritto tre saggi pubblicati in italiano nel libro, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie, e biopolitiche del corpo, Introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano, 1995.1
Si tratta di un testo importante, ma in Italia purtroppo ha avuto circolazione e diffusione minori che altrove, forse proprio per l’ambivalenza nei confronti dei temi affrontati, e anche perché contrastava le posizioni essenzialiste elaborate dal femminismo della differenza sessuale, egemone nei media italiani.
Haraway è fermamente contraria a ogni concezione essenzialistica della soggettività e a ogni rappresentazione bionaturalistica dei corpi, che vanno considerati nel loro intreccio di materia e pratiche culturali di significazione.
Le ricerche di Haraway costituiscono la base sulla quale si è sviluppato il pensiero del femminismo postumanista e antispecista contemporaneo, inoltre si collocano all’origine di riflessioni che diventano oggi quanto mai attuali, soprattutto alla luce della recente convergenza tra pulsioni neoliberiste e pulsioni neofondametaliste, che pongono l’accento sulla dimensione sessuata del corpo, naturalizzando i parametri comportamentali stabiliti all’interno del discorso patriarcale.
Haraway scriveva trent’anni fa di possibilità che molt* di noi conoscevano solo nell’ambito della letteratura fantascientifica, mentre lei parlava dal paese più avanzato in scienza e tecnologia; nel frattempo si sono intensificate scoperte e invenzioni che in qualche modo ci hanno strett* tra sogni di onnipotenza e incubi, tra la speranza che le biotecnologie migliorino la vita delle persone, eliminando patologie, disabilità, contingenze che ci ostacolano nel quotidiano, aiutandoci per di più a ampliare le possibilità di azione dei nostri corpi concreti, e il timore di superare limiti etici e sociali e perdere in umanità e relazionalità tra le persone.
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Mercoledì 09 Novembre 2016 14:55 |
di Franco Romanò
Partendo dall'analisi di un libro scritto da un gruppo americano, il Critical Art Ensemble, si esplorano le relazioni fra realtà virtuale e vita materiale.
Starting from the the analysis of a book written by the American group Critical Art Ensemble, are explored the relatiobnships between virtual reality and material life.
Premessa
Leggendo gli interventi delle femministe neo materialiste sulla necessità di mettere in crisi il concetto e l’idea di anthropos, allargando alla zoe il campo di riferimento, mi sono ricordato di un dibattito sorto durante gli anni ’90 dopo la pubblicazione da parte del gruppo americano Critical Art Ensemble, di un pamphlet edito in Italia da Castelvecchi (Sabotaggio elettronico) che parlava della rete informatica come di un Corpo senza Organi asettico e pulito, in grado di spostarsi ovunque, isomorfo e imprendibile; quintessenza, dunque, di una spiritualità assoluta, cui diedero anche il suggestivo appellativo/ossimoro di bunker nomadico. L’espressione usata dal gruppo nordamericano non ha nulla a che vedere con l’uso che della medesima espressione fanno Deleuze e Guattari, sebbene l’accenno che viene fatto nel pamphlet all’opera di Artaud faccia pensare che ne fossero a conoscenza.
Del Critical Art Ensemble mi ero occupato anni fa con un testo rimasto inedito dopo varie vicissitudini e che qui propongo per la prima volta, con pochissime modifiche o ulteriori specificazioni su alcuni esempi che mi sembravano datati. Lo propongo nella rubrica Dopo il Diluvio poiché, pur essendo legato alle problematiche trattate su questo stesso numero nelle altre rubriche, gli esempi prevalenti e il punto di vista che ho scelto per la mia riflessione critica, riguardano la letteratura e le arti.
IL CORPO SENZA ORGANI.
Finché gli esseri umani saranno dotati di un corpo fisico e di una vita emozionale, nel solo virtuale non potranno esaurirsi le relazioni sociali e neppure quelle interpersonali. L’esplicarsi totale delle relazioni all’interno del circuito nomadico virtuale da parte di Corpi senza Organi, così come viene ipotizzata dal gruppo nordamericano Critical Art Ensemble, sarebbe possibile solo se noi fossimo davvero dei viventi virtuali; ma anche gli esempi notissimi di Second life o altro, si limitano ad aggirare il problema, trasportando semplicemente nel virtuale le parti scisse e non integrate di un soggetto che rimane dotato di un corpo fisico; parlo naturalmente degli utenti che si affidano a Second Life e non agli omini di burro che gestiscono il network e il business.
Una tendenza non piccola della cultura e della letteratura del ‘900 sembra prefigurare un esito simile. La grande arte è sempre un po’ profetica e allora sarà bene rivolgerci anche a queste avventure della narrativa e del teatro novecenteschi, ma anche di coglierne il sostrato ideologico. Potrà sembrare sorprendente che in questo elenco manchi La Metamorfosi di Kafka, ma ciò è dovuto alla diversa motivazione del grande praghese rispetto agli autori citati qui di seguito.
La parabola dell’opera di Samuel Beckett, per esempio, da Waiting for Godot fino a Happy days e Endgame, disegna un futuro abitato da una natura umana diversa da quella che conosciamo; oppure, addirittura, un mondo in cui la vita prende strade differenti e la nostra non diviene altro che un residuo in via di estinzione. L’inanità dei personaggi nei romanzi di Beckett è il segno palese di un’impotenza che diviene metafora dell’incapacità occidentale a trovare un senso al proprio percorso di civiltà, cui fa da contraltare un catastrofico delirio di onnipotenza che si manifesta nei confronti della natura così come dei popoli e delle culture altre. Spacciata per troppo tempo come cultura o letteratura critica, l’opera di Beckett ci mostra invece fino in fondo i limiti di una criticità che, se spinta fino a questo estremo, si rivolge nel suo contrario, trasformandosi in una più o meno involontaria apologia dell'esistente, oppure in una narcisistica contemplazione della sua fine. L'Occidente riflette al proprio interno e riversa sugli altri il proprio senso di morte, la letteratura e il pensiero nichilisti lo registrano come se fossero i notai di questa civiltà in declino e non è davvero un caso che a pochi decenni di distanza da queste opere, i nuovi guru della tecnologia attraverso progetti quale il Genoma1 facciano balenare lo spettro di un'umanità mutante e quello della fuga dal pianeta ormai inservibile: mi riferisco ai progetti di costruzione di navi spaziali in orbita lunare che dovrebbero contenere decine di migliaia di persone. Lo stesso rischio, tuttavia, lo corrono anche coloro che vedono nella tecnologia informatica qualcosa di totalmente nuovo. Intendo dire che qualsiasi innovazione tecnologica, dall’invenzione delle prime tecniche agricole fino alle ultime frontiere, è sempre stata sentita da alcuni come una minaccia catastrofica, oppure accolta acriticamente. È una storia vecchia quanto il mondo. Ricordiamo tutti le parole allarmate ma anche ingenue di Platone all’avvento della parola scritta che avrebbe arrecato danni enormi alla memoria.
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Domenica 04 Febbraio 2018 11:11 |
di Gianni Trimarchi
Il contesto del neorealismo
Nel dopoguerra italiano si erano riaperte le sale da ballo e i cinema, con grande partecipazione delle masse popolari che, dopo anni di austerità, ritrovavano il piacere di divertirsi. Se nelle sale imperavano le nuove danze americane, gli spettacoli cinematografici erano costituiti da pellicole americane, che importavano un nuovo modello di vita. I risultati furono imponenti: a Napoli 6.000 persone parteciparono alla prima de Il grande dittatore di Chaplin. A Firenze quasi 60.000 persone si recarono a vedere lo stesso film. Mentre prima del confitto si vendevano 138 milioni di biglietti all’anno, nel 1946, la vendita salì a 417 milioni.[1]
Si trattava però di un cinema di evasione, di origine hollywoodiana, destinato a mettere in atto l’adorazione dei divi e insieme del consumismo, facilmente riportabili all’American Way of Life. Questa trovava consensi nelle masse, che riconoscevano nel modello americano qualcosa di più evoluto rispetto al modo di vivere diffuso in Italia. Anche la classe dirigente era peraltro incline ad approvare questo modello, se non altro per i suoi contenuti a carattere implicitamente maccartista, che risultavano utili nella gestione del potere. Vedremo tuttavia che anche la sinistra storica ebbe curiose ambivalenze e sordità nei confronti della politica mediatica di quegli anni.
Una nuova definizione del cinema
In un contesto di grande fruizione cinematografica, c’era in Italia chi si poneva il problema di produrre, anche se le condizioni di lavoro erano difficili. Cinecittà era diventata un rifugio per gli sfollati e comunque i teatri di posa erano poco agibili, a causa della scarsità di energia elettrica che caratterizzò il dopoguerra. Diventava quindi una necessità il fatto di girare i film per le strade. Alcuni intellettuali italiani sentivano tuttavia la necessità di avere una poetica che giustificasse questa scelta, riscattando la dimensione spettacolare da un giudizio totalmente svalutativo, assai diffuso nell’Italia degli anni cinquanta.
Questo giudizio partiva da una definizione della mente molto vicina a quella dell’intelletto matematico, ignara del fatto che già in Kant l’immaginazione “schematizza senza concetto”, in Freud si parla di dinamica della regressione e in Vygotskij di catarsi. Varie elaborazioni in senso contrario erano tuttavia già state fatte sia in Francia che in Russia. Già un’ironica frase, scritta da Ejzenstejn negli anni trenta, sembra fare il punto sulla questione.
“Il contatto con l’arte porta lo spettatore a un regresso culturale. Infatti il meccanismo dell’arte si definisce come mezzo per distogliere la gente dalla logica razionale […] Fu Vygotskij a dissuadermi dal proposito di abbandonare questa “vergognosa” attività.”[2]
Certo non stupisce il fatto che Vygotskij, fenomenologo e fondatore, insieme a Lurija, della società psicoanalitica moscovita, conoscesse gli aspetti positivi della regressione e vedesse proprio nell’arte una loro applicazione significativa. I neorealisti fecero tesoro di questa lezione: il problema che si poneva loro era infatti quello di creare un cinema capace di dare un contributo alla vita sociale del paese svolgendo un’azione critica e non di evasione. Alla base delle loro riflessioni si trovava un sostrato culturale molto ricco, riferibile al naturalismo e al realismo francese, al verismo di Verga e al realismo socialista, da cui emergono spunti significativi. Vanno qui ricordati anche il saggio di Benjamin sull’opera d’arte che ne definisce le nuove funzioni e infine il realismo di Bazin.
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Martedì 07 Febbraio 2017 14:31 |
Sciopero generale : un giorno senza donne
General strike: a day without woman
La chiamata allo sciopero internazionale delle donne – 8 marzo 2017 di Ni una Menos ci sembra che possa diventare un fatto epocale per estensione della mobilitazione e radicalità dei contenuti.
Fino allo scorso Ottobre gli scioperi di donne che sono stati proclamati sono state iniziative confinate nei loro paesi, poco conosciute, perché i mezzi di comunicazione di massa le hanno trascurate. Dallo sciopero delle donne in Polonia contro la legge che voleva cancellare la possibilità di abortire a quello dello stesso mese in Argentina, contro le violenze degli uomini sulle donne, lo strumento dello sciopero di tutte le attività di produzione e riproduzione svolte dalle donne è entrato nell'agenda dei movimenti di oltre trenta Stati, grazie anche alla tempestività e alla puntualità delle notizie circolanti nella rete e grazie ai contatti sperimentati in gennaio per organizzare la Women's March.
In molte aree del mondo si stanno svolgendo assemblee e incontri preparatori comuni tra donne dei diversi paesi, impegnate nell'organizzazione dello sciopero globale delle donne l'8 Marzo, sulla base della piattaforma formulata dal Manifesto di proclamazione dello sciopero proposto dalle donne argentine, che qui sotto presentiamo.
Ai nostri occhi la caratura politica di questo documento è destinata a promuovere altre riflessioni e pratiche di movimento al di là della riuscita dello sciopero, che in ogni caso comincia col rompere la tradizionale ritualità a base di fiori e concerti nelle piazze dell'otto marzo ,che servono solo a depotenziare la critica, In particolare la nostra attenzione è attirata da due punti:
1) l'identità tra lotta femminista e lotta anticapitalistica. Non è certo la prima volta che abbiamo documenti del genere però, a parte che il documento viene dall'America latina e questo fa rilfettere, nell'analisi vengono messe in rilievo condizioni effettive di lotta ugualmente maschili e femminili anche dovute alle trasformazioni tecnologiche più recenti (lavoro di cura, lavoro digitale, lavoro gratuito ecc.). Contro l’attuale attacco generalizzato alla qualità di vita di donne e uomini condotto dalle istituzioni politiche e sociali patriarcali e neoliberiste, sia nei paesi arricchiti che in quelli impoveriti, ci sembra che lo sciopero globale possa tornare ad essere uno strumento di lotta politica efficace.
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Mercoledì 09 Novembre 2016 12:50 |
di Lea Melandri
Il corpo della donna, nel modo in cui compare sulla scena sociale è già altro da sé. È essenzialmente forza lavoro produttrice di figli, di lavoro domestico e di piacere per l’uomo. Questo costituisce l'originaria violenza sessista patriarcale. The woman's body, in the way how it appears on the social stage, is from the beginning somethin else: it is essentially labour force producing children, housework and pleasure for the man. All that constitutes the original, sexsist, patriarchal violence.
Riportiamo un capitolo di un testo fondamentale di Melandri, pubblicato in prima edizione nel 1977, perché riteniamo che l'analisi della originaria violenza sessista nei confronti della donne in epoca patriarcale, sia un elemento da tenere in considerazione, soprattutto oggi, in presenza di una certa confusione e una inedita alleanza tra istanze neo-liberali e istanze fondamentaliste all'interno dei femminismi italiani.
Dal capitolo Lo scarto irriducibile, pagg. 32-35 (Lea Melandri, L'infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica, Roma, Manifesto libri 1997)
L’economicismo e l’idealismo sono vizi che la sinistra marxista ha ereditato dalla borghesia, ma sono anche evidentemente il prolungamento di un più antico privilegio patriarcale. La confusione tra economia/economicismo, bisogni individuali/individualismo, sessualità/intimismo, nasce, in una forma di cui solo oggi riusciamo a vedere la contraddittorietà, nelle analisi di Marx e Engels.
Prendiamo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato.
Engels ricostruisce la storia della famiglia, del rapporto uomo-donna, servendosi delle stesse categorie interpretative che Marx aveva usato per l’analisi dello sfruttamento economico.
Quando si dà per sottinteso che non esiste una differenza specifica uomo-donna, relativa alla sessualità, e che la sessualità femminile coincide col desiderio dell’uomo, l’equivalenza donna=proletario diventa fin troppo facile. Il corpo della donna, nel modo in cui compare sulla scena sociale è già altro da sé. È essenzialmente forza lavoro produttrice di figli, di lavoro domestico e di piacere per l’uomo.
Il predominio maschile non nasce dunque con la proprietà privata e con la famiglia monogamica, come dice Engels, ma si situa all’origine del rapporto tra i due sessi in un atto di espropriazione che solo ora comincia ad affiorare alla coscienza.
Con il predominio della sessualità maschile si instaura anche il primato, materiale e ideologico, delle relazioni economiche su tutti gli altri rapporti sociali.
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