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Martedì 11 Giugno 2024 14:18 |
di Paolo Rabissi
“Ciascuno di noi dovrebbe certamente stanarla innanzitutto in se stesso; non aspettare di riconoscerla dalle sue grandi epidemie storiche...”, così Robert Musil, nella sua conferenza tenuta a Vienna l’11 e il 17 marzo 1937, su invito della Lega austriaca del Lavoro, col titolo: Sulla stupidità [1]. Inutile essere o meno d’accordo con il dovere di stanare la stupidità anzitutto in se stessi (così come voglio evitare di interrogarmi troppo sul motivo per cui il libro ha preso improvvisamente a occhieggiare da uno scaffale alto), a me sembra che la seconda parte della frase crei un problema ben più importante. Musil premette con prudenza di essere consapevole che l’iniziativa di parlare della stupidità potrebbe anche essere interpretata come presunzione ma poi sembra più deciso a richiamare a una vera posta in gioco: non si può aspettare di veder dilagare la stupidità come una epidemia, occorre riconoscerne da subito questa potenzialità partendo da quella che alligna in noi stessi. A quale scopo? Cosa sottintende Musil? Non viene forse da domandarsi da dove gli proviene l’urgenza di avvisare pacificamente i suoi concittadini che quanto stanno vedendo intorno a sé di stupido è già sufficientemente diffuso da essere ormai quasi un’epidemia?
Essendo il nostro potere e il nostro sapere di umani limitati, argomenta lo scrittore, siamo di fatto costretti a dare giudizi precipitosi, imprecisi, anche nelle scienze, anche se la pratica ci ha insegnato a contenere questo errore e magari anche a correggerlo con un esercizio di umiltà. Perché non è poi così semplice individuare e marchiare la stupidità. Ecco allora una prima conclusione possibile: “...Questo è uno dei punti importanti: oggi le condizioni della vita sono tali – così complesse, difficili e confuse – che le stupidità occasionali dei singoli possono diventare facilmente stupidità costituzionale della collettività.” E quando ciò avviene siamo allora ormai dentro una di quelle grandi e temibili ‘epidemie storiche’
Cosa succede a Vienna, nelle sue strade, nei giorni della conferenza dello scrittore?
Vienna e l’intera Austria non sono ormai più in grado di opporsi alle pressioni della Germania nazista volte all’annessione. Isolata in Europa anche a causa dell’avvicinamento tra Italia fascista e Germania, abbandonata alla sua sorte, mancano pochi mesi all’Anschluss, che vedrà le truppe tedesche sfilare per Vienna. Come Musil possa aver vissuto quel periodo possiamo immaginarlo. Quando nel ’33 Hitler aveva preso il potere a Berlino lo scrittore aveva abbandonato la città con la moglie Martha, di origine ebraica, per Vienna. Nel marzo del ’38 all’arrivo dei tedeschi riuscirà da lì a fuggire attraverso l’Italia verso la Svizzera, dove morirà qualche anno dopo.
Il saggio Sulla stupidità travalica questi avvenimenti. Infatti, parla comunque anche a noi oggi. Ma con la scrittura di Musil ci si trova sempre bene. Lo ascolteresti come una voce familiare per un tempo indefinito, magari perdendo proprio il tempo reale della vita intorno. Così a leggere L’uomo senza qualità. In questo saggio però sembra arrivare in qualche modo un turbamento, una preoccupazione (che non è sicuramente quella che a Ulrich procura l'inquieta sorella Agathe!) che spinge alla prudenza del dire. Anzitutto lo scrittore ci invita alla modestia come metodo di avvicinamento alla questione, perché, ci spiega, a guardare bene, siamo tutti un po’ stupidi: “come poeta - ci tiene a precisare - la stupidità è una mia vecchia conoscenza”, e ribadisce poco dopo “del resto colui che di solito chiamiamo ‘un bello spirito ’ è al tempo stesso ‘un bello stupido’". Poi per convincerti articola in numerosi percorsi il suo messaggio fin dentro la psicologia, la psicanalisi, la sociologia, la linguistica, la poesia appunto... ma confessando di sé sin dall’inizio che di fronte alla stupidità: “...sono in posizione d’inferiorità, perché non so cosa sia. Non ho scoperto nessuna teoria della stupidità con cui accingermi a salvare il mondo”.
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Lunedì 10 Giugno 2024 16:44 |
L’invito dello storico Sergio Fontegher Bologna a richiamare alla memoria le criminali campagne di guerra di Mussolini per rinnovare il senso della Resistenza e dell’antifascismo dei nostri giorni, lo raccogliamo con queste sue riflessioni. Con l’avvertenza che il suo è un documento che sfiora soltanto la grande Storia e s’inserisce nel noto filone della Public History, per la precisione nel filone della Public Archaeology. [per aprire i video copiate e incollate i link indicati nel vs. browser].
di Sergio Fontegher Bologna
Più? o meno tutti sappiamo cos’é? la Public History, non so quanti di noi conoscono la Public Archaeology, io per esempio l’ho scoperta in questi giorni per caso navigando su Youtube. Ne parlo perché? si collega a quel mio discorso sulla memoria delle criminali campagne di guerra di Mussolini, che, a mio avviso, andrebbero riportate alla memoria ogni volta che si celebra la Resistenza.
Cominciate a guardare questo video https://www.youtube.com/watch?v=GN2pSF7dK2o e scoprirete che le campagne di scavi archeologici, oltre che dal CNR e chissà da quali altri enti scientifici e accademici, sono finanziate anche da associazioni d’arma tipo i Paracadutisti e i Reduci della Folgore. I quali hanno trovato sia quattrini che centinaia di volontari per una campagna di scavi nell’immenso teatro di guerra, in territorio egiziano, dove si svolse la battaglia di El Alamein nel 1942. Con la collaborazione scientifica e l’assistenza tecnica dell’Università di Padova e in particolare del prof. Aldino Bondesan, che mi risulta essere associato di Geografia Fisica e Geomorfologia presso quella che fu anche la mia Università e anche di Toni Negri, Luciano Ferrari Bravo, Mario Isnenghi e di tante/i altre/i. Ma non e? questa la ragione per cui ho aperto quel video. La campagna del Nordafrica e? quella dove ho perso un parente, lo zio Giorgio, fratello di mia madre, arruolato nei carristi, caduto il 9 maggio 1943 e i cui resti riposano nell’Ossario dei caduti d’Oltremare di Bari.
Teoricamente avrebbe dovuto essere anche lui a El Alamein, ma non so quando fu arruolato. Andiamo avanti. La campagna archeologica consiste nello scavare buchi nella sabbia per scoprire i buchi precedenti. La linea di difesa italiana era lunghissima e consisteva in migliaia di postazioni, costituite sia da trincee con camminamenti protetti da sacchi di sabbia, sia postazioni di tre/quattro soldati con mitragliatrice, sia postazioni singole. Tutti ficcati dentro le buche.
Perché? questa campagna di scavi è partita in tempi recenti? Perché l’Egitto di Al Sisi vuole costruire sul sito una new town da 2 milioni di abitanti e occorreva salvare il salvabile. Nella galleria del patriottismo italico gli episodi della seconda guerra mondiale che vengono più evocati sono la ritirata di Russia e la campagna del Nordafrica. Ma mentre la Russia evoca una catastrofe, la campagna di Egitto-Libia-Tunisia è esaltata per la valorosità delle truppe italiane, che ebbero in certi casi l’onore delle armi da parte del nemico. Quindi quella campagna è un topos del reducismo, del militarismo nostalgico, superiore di gran lunga alla leggenda della X Mas, che è troppo connotata politicamente. La campagna d’Africa è guerra di popolo, è l’Italiano che sa combattere, l’Italiano guerriero. Siamo noi.
Se si guarda il secondo video https://www.youtube.com/watch?v=opW-tyIX2VM (su logistica militare) la narrazione che esce da questa operazione di Public Archaeology è tutt’altro che celebrativa, anzi, gli scavi hanno permesso di mettere in luce visivamente l’agghiaccinate impreparazione militare italiana, negli equipaggiamenti, nelle dotazioni d’arma, nei mezzi mobili, in presenza oltretutto di una sempre piu? schiacciante superiorità nemica nell’aria e sul mare, che tagliava i rifornimenti fino a bloccarli del tutto.
E qui c’è quella storia dei contenitori del carburante che merita da sola la visione del video. La benzina gli italiani la ricevevano in bidoni da 2 quintali, che a spostarli ci voleva il doppio di uomini, i britannici avevano delle lattine leggere ma fragili, i tedeschi avevano fabbricato delle meravigliose taniche facili da trasportare e resistentissime, di cui regalarono generosamente qualche migliaio agli italiani, costretti a questo punto a sottrarre forze dal fronte per travasare il carburante dai bidoni alle taniche. Le bombe Molotov erano l’arma italiana più efficace, oltre alle mine magnetiche che dei poveracci acquattati in una buca ricoperta di frasche dovevano appiccicare al fondo del carro armato nemico mentre questo passava sulla loro testa. Eroismo, coraggio, sangue freddo, certo, ma come non trovare grottesca la situazione. Un grottesco che raggiunse il culmine quando a rinforzo degli italiani arrivò Rommel. Il quale era fissato con la guerra di movimento, divenuto una leggenda per le sue rapide fulminee avanzate e per le sue altrettanto rapide ritirate strategiche, ossessionato dal Blitzkrieg quanto certi spedizionieri di oggi sono ossessionati dal just-in-time. Lui che si muoveva avanti e indietro su dei mezzi mobili, come avesse il verme solitario e i soldati italiani a stargli dietro a piedi, arrancando con scarponi bucati e fagotti inservibili. Un’immagine di cui puoi dire proprio: non so se ridere o piangere! Come si può costruire una narrazione epica e celebrativa di un simile miserabile spettacolo? E’ quello che continua a stupirmi dei miei connazionali, come si può inghiottire merda e leccarsi i baffi....? Poi mi si para davanti l’immagine di Mussolini che dal balcone annuncia la guerra e c’è quell’urlo della folla che ti gela il sangue e penso che mio padre avra? esultato anche lui in ascolto alla radio. Allora mi coglie lo sconforto e capisco perché si trovano soldi e volontari per scavar buche in cerca di altre buche e non si trovano per insegnanti di sostegno. Allora cerco d’immaginarmi come sarà la nuova El Alamein da due milioni di abitanti, faranno un Museo coi pochi reperti, un paio di pezzi arrugginiti, qualche sacco sabbia rimaso intatto? Ci sarà alla periferia della città un immenso parco archeologico a cielo aperto? E i turisti potranno infilarsi nelle buche o ci saranno dei cordoni rossi attorno per impedirglielo? E poi la Public Archaeology organizzerà ogni anno dei re-enactment della battaglia di El Alamein, dove divise e equipaggiamenti saranno ricostruite filologicamente? Anche con le taniche identiche a quelle originali? E per assistere allo spettacolo i tour operator organizzeranno voli low cost dalle navi di crociera ormeggiate lungo la costa? E chissà quanti ragazzi usciranno da Padova con laurea in geomorfologia della guerra d’Africa o in urbanistica di El Alamein, la new town affacciata sul deserto! Faranno gli stagisti presso l’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia (ANPd’I).
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Lunedì 15 Aprile 2024 15:36 |
Sul festival della letteratura working class, è uscito sul sito Milano in movimento questa riflessione di Demetrio Marra. Le rilanciamo in Ol come contributo a un dibattito che auspichiamo continui.
La redazione di overleft
Cambiare paradigma: il Festival di letteratura working class alla ex GKN di Firenze.
Dal 5 al 7 aprile scorso a Campi Bisenzio c’è stato il secondo Festival di letteratura working class, organizzato dal Collettivo di fabbrica della ex GKN di Campi Bisenzio (Firenze) e dall’editore indipendente Alegre, con la direzione artistica dello scrittore Alberto Prunetti (autore, recentemente, di Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class per minimum fax). Il programma, fittissimo (che trovate qui), ha coinvolto non solo autori e autrici, studiosi e studiose da tutto il mondo come Brigitte Vasallo ed Eugenia Prado Bassi, per esempio, che hanno dialogato con Giusi Palomba e Sara Farris sul tema “Le subalterne possono parlare?”; o Antony Cartwright, che ha presentato il suo Come ho ucciso Margareth Thatcher (ultimo testo della collana working class di Alegre); non solo si è attraversata la scrittura del nord Europa con Magnus Nilsson ed Henric Johansson; o si è letta poesia operaia anni ’70 e poesia operaia cinese contemporanea. Il programma ha soprattutto rimesso al centro il racconto della lotta. In altre parole, il Festival ha voluto ricordare che la letteratura può continuare l’azione politica, che non è intrattenimento, ma volontà di cambiare; che la classe operaia può costruire il proprio paradiso qui, e che non va da nessuna parte.
Che il Festival sarebbe stato un successo forse l’avremmo potuto capire dagli sforzi propagandistici e concreti di farlo fallire. Parlo degli attacchi pretestuosi ai messaggi di supporto nei giorni prima del festival (per esempio quello di Elio Germano), e del tentativo di alimentare l’idea che il Collettivo stesse sfruttando il suolo della fabbrica per attività a scopo di lucro (ma come possono non capire cosa si faccia davvero lì, quale sia il punto?), certamente. Oppure parlo dell’atto intimidatorio e mafioso che ha colpito la fabbrica la notte tra lunedì e martedì: soggetti non identificati sono entrati e hanno staccato la corrente, costringendo l’organizzazione a immaginare un festival diverso a pochissimi giorni dall’inizio. Non finisce qui: durante tutta la settimana, investigatori privati – con droni – hanno sorvegliato e documentato tutti gli eventi. Immaginiamo certamente per conto di chi sia stato fatto, ma tacciamo perché la reticenza è più forte delle parole, l’invisibilità più forte della visibilità
Nonostante questo, il festival c’è stato ed è stato indescrivibile. Per numerose ragioni, tutto è stato organizzato fuori dal cancello principale, su uno spazio regolarmente concesso dal Comune di Campi. Dopo l’accesso, un corridoio di attività dal basso e cooperative sociali preparavano alla piazza ricolma di persone, tra la libreria working class (con una scelta non soltanto dal catalogo di Alegre, ma da tutti gli editori che pubblicano, occasionalmente o programmaticamente, scritture working class) e il palco. Due tendoni bianchi con sotto non so quante sedie, almeno due centinaia, anticipavano il palco. Per ogni evento centinaia di persone, ben oltre la capienza dei posti a sedere, rimanevano in ascolto, partecipavano, applaudivano, si commuovevano. In alcuni momenti, era persino difficile spostarsi.
Mi è rimasto impresso, e ci penso ancora, a ciò che ha detto Brigitte Vasallo (autrice, tra le altre cose, di Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe per Tamu), col sole appena calato: che, nella sua lucidità estrema, quasi terribile, la letteratura working class non è un tema, ma un cambio di paradigma. È essa stessa lotta.
In certi momenti seguivo gli eventi (per esempio quello condotto da RedActa, il sindacato dei lavoratori e delle lavoratrici dell’editoria, che è uno dei settori meno regolamentato, quasi integralmente fondato sul lavoro gratuito o mal pagato, sugli stage e sui contratti precari, sulle collaborazioni occasionali e sulle partite IVA, nonostante sia una delle industrie continuamente in crescita negli ultimi anni), in altri momenti attraversavo lo spazio e mi rendevo conto di come – davvero –, con i compagni e le compagne, divenisse sempre di più spazio di comunità, un luogo in cui sentirsi in sé e contemporaneamente proiettat* verso l’altr*. Una comunità di apprendimento (come scrisse in Insegnare il pensiero critico bell hooks). Essere lì dava una forza inedita, nonostante all’inizio i pensieri sull’essere fuori posto avrebbero potuto sconfiggere chiunque. Come dice Valentina Baronti in La fabbrica dei sogni (sempre uscito per la collana working class di Alegre) si fa presto a capire – anche se non è facile – che la forza che noi traiamo dalla lotta dei lavoratori della ex GKN è una forza che possiamo restituire: è possibile attivare uno scambio, diventare corpo collettivo.
Per questo il momento più intenso è stato il corteo dalla fabbrica fino al centro di Campi Bisenzio. In migliaia abbiamo riempito le strade, investito l’intero paese di un’energia inedita. Abbiamo cantato, fatto sentire la voce di tutt*, dimostrato l’importanza di quel presidio, che la fabbrica è di chi la vive, di chi la abita, di chi la difende, non certo di chi specula sul suo valore, non sicuramente delle istituzioni. Per questa ragione il collettivo ha lavorato su una legge regionale sui consorzi industriali, di iniziativa popolare. Se la politica non fa nulla, anzi è sottomessa ai meccanismi del neoliberismo, è nostro compito lottare.
L’ultimo giorno, con l’energia del corteo, il Festival è continuato, registrando molto più di cinquemila accessi complessivi (chi conosce il mondo editoriale, sa che sono numeri fuori dal comune), quasi il doppio dell’anno precedente. Dopo l’incontro conclusivo Dario Salvetti, portavoce del collettivo di fabbrica, ha preso il microfono per annunciare l’ennesimo atto gravissimo, inaccettabile. Con il fiato sospeso abbiamo temuto un’altra intimidazione. E invece Salvetti ha annunciato che il rumore che abbiamo sentito durante il festival, per tutto il tempo, proveniva dal luogo in cui alcuni compagni stavano montando dei pannelli solari. Nelle ultime ore sarebbe tornata la luce: il sabotaggio di ignoti ha accelerato ciò che il collettivo ha sempre voluto per il futuro della fabbrica, cioè la transizione energetica. Ciò che la vecchia proprietà non è riuscita a fare in anni, gli operai l’hanno fatto in tre giorni. All’applauso sono seguiti cori che sembravano non finire più.
So che questo racconto potrebbe sembrare a tratti impersonale e a tratti sdolcinato, ma credetemi se vi dico che ho provato a mantenere un qualche distacco. È però difficilissimo: a qualche giorno dalla fine torno a sentire la solitudine, l’isolamento, la performatività del lavoro, il dolore di non riuscire a cambiare le cose. Milano e l’Art Week si preparano per l’ennesimo evento culturale che – come ricorda Lucia Tozzi in L’invenzione di Milano (Cronopio) – non è nient’altro che uno strumento per l’espulsione delle persone marginali, per la trasformazione della città in speculazione finanziaria. Per fortuna, il festival ci ha mostrato che un altro mondo è possibile, che un altro modo di fare cultura è possibile, che la lotta non può finire, deve solo diventare gigantesca.
Demetrio Marra |
Domenica 21 Gennaio 2024 12:35 |
Pubblichiamo da www.altraparola.it un articolo sui prossimi scenari delle lotte del lavoro:
Stefano Rota, ricercatore indipendente e lavoratore nomade. Gestisce il blog di “Transglobal”. Ha pubblicato recentemente con altri autori La (in)traducibilità del mondo (Ombre Corte, 2020) e ha contribuito a F. O. Dubosc (a cura di) Lessico della crisi e del possibile (SEB27, 2019). La sua ultima pubblicazione è: La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online italiane e lusofone.
The politics of invisibility involves not actual invisibility, but a refusal of those in power to see who or what is there.
Robert JC Young, Postcolonial remains
Simonetta, la driver di Amazon che ha contribuito alla stesura de “La fabbrica del soggetto. Ilva 1958 – Amazon 2021“, ha portato la sua testimonianza a due presentazioni del libro organizzate a Genova tra luglio e novembre ‘23.
Senza giri di parole, Simonetta ha detto sostanzialmente di sentirsi a suo agio in Amazon, di lavorare in un ambiente amichevole e rispettoso, dove tutti si prendono cura dei problemi dei colleghi e dove gli standard di sicurezza sul lavoro sono molto elevati.
Inutile dire che queste dichiarazioni hanno suscitato qualche perplessità tra i presenti. Almeno alcuni di loro si aspettavano una posizione incentrata sulla critica alle forme di neo-taylorismo digitale, al dominio impersonale e onnipresente dell’algoritmo nel governare il lavoro in Amazon. In altre parole, la lettura più comune che si trova nelle riviste e nelle pubblicazioni che adottano un approccio radicalmente critico all’economia delle piattaforme, che sottoscrivo.
Niente di tutto questo. Simonetta è soddisfatta del suo lavoro in Amazon.
Di fronte alla comprensibile difficoltà di una parte del pubblico ad accettare quel discorso, ho tentato di riflettere sulla verità che quello stesso discorso enuncia, prendendo come punto di partenza un film dell’anno scorso, Nomadland, della regista Chloé Zhao.
La disincantata donna di mezz’età interprete del film di Zhao gira da sola negli spazi immensi del Mid West con un camper, fermandosi per lavorare nei magazzini di Amazon, ma subito pronta a ripartire alla volta del successivo parcheggio dove incontra amici in perenne movimento come lei. Non traspare nessuna particolare tensione o rivendicazione: ciò che Amazon propone a Fern, la protagonista del film, è né più né meno quello di cui lei stessa ha bisogno per il tipo di vita – nomade – che ha scelto, o che si è trovata costretta a scegliere.
Dove si produce, allora, questo scarto tra la nostra lettura e le vite di milioni di persone che accettano il lavoro in Amazon o in una delle innumerevoli piattaforme così com’è, nonostante i tentativi (alcuni riusciti, molti no) di introdurre forme di organizzazione sindacale di base per contrattare un altro tipo di rapporto lavorativo? Prima di provare a dare una risposta del tutto personale a questa domanda, vorrei aggiungere un ulteriore elemento che, spero, faciliti la comprensione di cosa mi accingo, sia pur con dubbi, a sostenere.
Un amico sindacalista è stato in prima linea nel 2020 nella lotta di rivendicazione finalizzata al riconoscimento dei riders di Just Eat come lavoratori dipendenti. L’azienda, accogliendo la richiesta, ha introdotto anche in Italia il modello Scoober già applicato in altri paesi[1]. I riders hanno dal 2021 un orario di lavoro, una retribuzione fissa basata su ciò che quel modello prevede. È stato presentato come un successo, un cambio di direzione in un settore, quello della platform economy, che ha bisogno di regole chiare e giuste per i lavoratori, che ostacolino la giungla del cottimo come spinta allo sfruttamento e all’autosfruttamento.
I problemi sono sorti quando questo accordo è stato presentato ai lavoratori e lavoratrici: una larga parte non era per niente contenta del risultato ottenuto, dichiarando di preferire di gran lunga la forma lavorativa vigente prima. I più contrari erano prevalentemente i lavoratori migranti e i più giovani.
Eccoci arrivati al punto da cui vorrei partire per articolare il mio punto di vista. Amazon, ma più in generale la platform economy, sembra inviare implicitamente un messaggio a tutti i lavoratori attuali e potenziali (e non solo ai lavoratori, a dire il vero): ‘dimenticatevi i vecchi modelli, gerarchie, procedure, contratti, carriere. Qui il lavoro è smart’. Non sono importanti le esperienze lavorative pregresse (meglio se non se ne hanno, come dichiarano le agenzie di lavoro interinale), così come la provenienza o i piani per il futuro, ammesso che si sia in grado di farne. La platform economy vive di un perenne presente flessibile e competitivo, tutto viene deciso sul momento, tutto è on-demand (ILO Report).
Conta solo quello che fai, il modo in cui gestirlo lo scegli tu. Se il magazzino è lontano decine o centinaia di chilometri e raggiungibile solo in macchina e gli alloggi sono proibitivi, se piove e fare le consegne in bici diviene problematico e pericoloso, se sei in basso nel ranking e non ti arrivano lavori, organizzati, trova una soluzione, la piattaforma non è fatta per intervenire in questi ambiti. I “piccoli turchi” di benjaminiana memoria sono pagati per addestrare la piattaforma a fare altro.
Mi sembra che su questo punto si giochi una partita importante. Si definisce un nuovo regime di veridizione, sulla cui base ci riconosciamo (ci soggettivizziamo) e produciamo a nostra volta delle verità. Quali enunciati troviamo all’interno di questo sistema, oltre a quello descritto? Provo a individuarne alcuni. Il lavoro e il mondo che lo contiene è sempre più cyber, lavoro e gioco si avvicinano tanto da produrre sovrapposizioni, vengono usati gli stessi strumenti e lo stesso linguaggio (gamification del lavoro). Perdono di senso vecchi schemi centrati su relazioni di mercato a due lati (two-sided market), siamo lanciati verso la multilateralità (multi-sided economy), siamo allo stesso tempo lavoratori e consumatori, controllati e controllori, fornitori e utilizzatori di dati. Viene depersonalizzata la funzione del controllore onniveggente che distribuisce punizioni e meriti sulla base del suo insindacabile giudizio. L’algoritmo che lo sostituisce non dà giudizi, valuta asetticamente. E lo fa sulla base del principio che tutti controllano uno, e a sua volta questo uno contribuisce al controllo, alla punizione o all’encomio, di chiunque altro, tramite voti, likes, recensioni (siamo quindi nel regno dell’anopticon descritto da Umberto Eco).
Se questi enunciati definiscono, almeno parzialmente, il modo in cui l’economia delle piattaforme rende “vera”, riconoscibile, “parlabile” una modalità lavorativa, il discorso di Simonetta, così come quello dei riders di Just Eat, diviene altrettanto riconoscibile, altrettanto vero, all’interno del rapporto soggetto-vita-lavoro che li connota. Entrano in gioco, da un lato, le strutture economiche, le architetture sociali, istituzionali e culturali, le norme, i confini materiali o immateriali che suddividono gli spazi creando forme di inclusione, esclusione, inclusione tramite l’esclusione (De Genova), o inclusione differenziale (Mezzadra, Neilson). In una parola, il dispositivo. Dall’altro, i viventi e le loro esistenze, i percorsi individuali e collettivi, le priorità, le scelte, all’interno dell’organizzazione di un tempo di vita e di lavoro che si struttura senza soluzione di continuità. “Quando tutto il tempo della vita è tempo di produzione, chi misura chi?”, si chiedeva Negri, in un libro di quarant’anni fa. Le forme di soggettivazione si danno all’interno della rete che il dispositivo dispiega, non la precedono, non vi entrano già precostituite. Il soggetto è, allora, una “funzione derivata” (Deleuze), si definisce in un gioco di rapporti di forze che lo vedono come oggetto di conoscenza, come soggetto “identificato” e parlabile sulla base di rapporti di potere, come soggetto etico che si forma nella relazione con se stesso (Foucault).
È sulla base di questi rapporti che si creano le condizioni di possibilità per la formulazione di discorsi su come viene vissuto un determinato modo di lavorare, di vivere, abitare, immaginare. Sono i rapporti che delineano gli itinerari che ciascuno di noi ha seguito per arrivare dove si trova, quelli con i quali Stuart Hall ci ricorda di “venire a patti”, perché è in funzione di quelli che ci raccontiamo.
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Martedì 03 Ottobre 2023 14:10 |
di Paolo Rabissi
La luna, transizione di ritmi
Quando con Franco Romanò più di dieci anni fa abbiamo avviato l’impresa che sta ormai per concludersi con la sua pubblicazione in formato libro, non avevamo idea di come l’avremmo chiamata. Vero è che eravamo troppo impegnati ad analizzare lo stato della poesia presente, soprattutto perché eravamo entrambi esuli da due esperienze in due riviste per noi molto significative, lui dal Cavallo di Cavalcanti, io da Il monte analogo. Al di là delle pubblicazioni individuali di nostre raccolte di versi, l’uscita da quei due luoghi, che avevano funzionato egregiamente come osservatorio importante sulla poesia, ci sembrò quasi l’esaurimento di un’ipotesi di vita poetica e letteraria e che interrogarci sul futuro fosse terribilmente necessario. Non ci volle molto per renderci conto che entrambi avevamo alle spalle una tensione tenuta per troppo tempo sotto traccia. Era quella della Storia. Quella con la S maiuscola, facendo un po’ nostra quella usata da Morante nel suo romanzo per sottolineare che la Storia è fatta dalla gente qualunque e non solo dai personaggi famosi o dagli eroi, vincitori. Sia io che Romanò intendevamo la Storia secondo criteri che ci provenivano dal pensiero critico maturato nella seconda metà del ‘900. Anzitutto il presente come storia. Facevamo nostra la lezione benjaminiana, partire dalle urgenze dell’attualità (Jetztzeit) tramite le quali narrare e ricostruire la Storia ma avendo lo sguardo rivolto al futuro. Ci premeva la moltiplicazione della Storia in storie, declinate a seconda delle soggettività espresse: la classe operaia fordista che ha fatto la storia democratica del nostro paese per tutti gli anni sessanta e settanta, il femminismo in tutte le sue anime, l’ambientalismo, le nuove tecnologie, le nuove frontiere della scienza, della psicanalisi critica, ecc. Il tutto dentro un coacervo di forme nuove di relazione tra Sapientes dettate dalle trasformazioni nel lavoro, dagli eventi più o meno imprevisti (come il virus o l’attuale guerra) e dal mutamento di mentalità con la scoperta di emozioni, sentimenti, sensibilità, passioni, legate verosimilmente anche alle nuove povertà, alla precarietà, al disagio espresso da giovani e anziani, all’impatto con immigrati e immigrate.
A dire il vero non stavamo inventando o scoprendo nulla di nuovo. Del resto noi stessi, scrittori di righe e di versi, avevamo già tracciato qualche percorso soprattutto in versi: Romanò compulsava la Storia nelle terre della Lunigiana e nel tempo della decadenza dell’impero romano, mentre personalmente recuperavo la memoria del lavoro manuale attraverso cui ero passato. E quando decidemmo di mettere alla prova le nostre riflessioni ci accorgemmo che intorno a noi i temi che volevamo richiamare all’attenzione erano già praticati da non pochi poeti e poete.
Restava il problema del nome della nostra impresa e si mostrò necessario fare i conti con due espressioni: poesia civile e poesia politica.
Come ho già scritto altrove, da insegnante ho sempre evitato di parlare di poesia civile. L’espressione, a partire dal ’68, ha finito con l’evidenziare una sua mascherata connotazione ideologica. Era un modo tartufesco per evitare di usare l’espressione ‘poesia politica’. Tuttora, nonostante il ’68 o forse proprio per questo, sostantivo e aggettivo non abitano affatto insieme. Trascuro la totale irrilevanza della poesia in generale, vero è piuttosto che se ad essa accostiamo il termine ‘politica’ si storcono i nasi dei più. Eppure da sempre esiste una poesia politica. Ma preferiamo chiamare anche Le ceneri di Gramsci un poemetto di poesia civile. E anche quello di Giuseppe Giusti ‘Sant’Ambrogio’. E il tono satirico di Montale in ‘Satura’ contro la società dei consumi non ha forse un passo da engagé?
Ciò che poi quella parola porta con sé appesantisce di molto. Porta con sé ‘partiti’ e ‘ideologia’. Ed è del tutto inutile sperare che ‘politica’ venga intesa solo come ciò che riguarda la polis, la collettività.
Lungi dall’essere innocente, la parola ‘civile’ nasconde ideologia e partiti. Giusti e Montale erano entrambi liberali e avevano entrambi il medesimo partito a cui riferirsi, a distanza di un secolo. Quanta ideologia stia dentro il neoliberismo attuale non mette conto parlarne qui.
Così ecco che, apparentemente lontano da partiti e ideologie, nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, salta fuori il ‘poeta vate’, che, col ruolo di maestro e guida, celebra invece proprio valori e ideali politici, così Carducci, Pascoli, D’Annunzio sono annoverati tutti tra i poeti civili.
A voler andare indietro si dovrebbero rivisitare alla luce di queste considerazioni decine di poeti: da Parini ad Alfieri, da Foscolo a Manzoni per arrivare a Ungaretti e Quasimodo e così via.
Uno degli intenti che ci hanno animato dunque era quello di recuperare all’attenzione un genere di poesia che accanto alla creativa riflessione psicologica, filosofica, morale di natura individuale e intima più tipica della poesia lirica trovasse spazio quella storica, sociale, antropologica., cioè in definitiva civile e politica. Abbiamo chiamato il tutto: Di Epica nuova.
C’entra la poesia epica? Non quella nota. Né quella di Omero, né quella di Ariosto, né quella degli eroi galattici. L’eccezione, inutile dirlo è Dante, maestro di epica lirica. Ma tutto il resto è un mondo arcaico. Vero è che le propaggini, e non solo propriamente quelle, del mondo patriarcale antico arrivano fino a noi.
Zeus fulmina gl’infedeli e stupra ogni giovinetto e giovinetta che incontra, mentre Giunone, votata alla fedeltà, si vendica appena può sugli/lle amanti e figl* di lui. Una normale vita di famiglia patriarcale divina da cui discendono noti effetti tra umani: sistemi appassionati di competizione, guerre, genocidi, devastazioni, fino al totale consumo dei viventi e dell’inorganico. Il tutto oggi sotto le regole di ferro del neocapitalismo liberale all’insegna di servitù e signorie.
In questo quadro per molti versi drammatico, nel quale le poesie si mettono tra loro in febbrile ricerca di una precisa identità, noi ci collochiamo, verosimilmente, per usare un’espressione di Pier Giorgio Bellocchio, ‘al di sotto della mischia’. Un po’ anche per evitare quello che Walter Benjamin chiama il ‘chiacchiericcio sulle cose vere’ di cui i social sono piuttosto responsabili.
Al di sotto dunque dei generi poetici (coi loro presunti canoni) e anche della parola non sessuata (il maschile considerato neutro universale), ma con ragioni buone: a noi sembra infatti che comunque poesie e autori e pubblico delle poesie stanno mutando, stanno trasformando toni e accordi, fiati e archi, modanature e nodi, chiavi di volta e perni e nessi in molteplici stringhe di mondi paralleli per ora poco visibili.
C’è stato un momento dopo un paio di anni di messa a punto dei temi che ci interessavano, in cui abbiamo cominciato a sentire la necessità di misurarci con la realtà che avevamo intorno. Abbiamo prima avviato incontri (tenuti perlopiù nella libreria Franco Angeli in bicocca a Milano) ma poi aperto un blog, dando inizio a un dibattito che è durato anni, ricco degli interventi critici ma anche dei versi che tutt* hanno voluto pubblicare.
Tutti gli interventi erano passati attraverso una premessa ufficiale nella quale dichiaravamo che eravamo agli antipodi della intenzione di fondare qualcosa che potesse assomigliare a un nuovo canone. Non abbiamo mai chiesto a nessuno alcuna adesione, ci è bastato arricchire il dibattito con presenze che a nostro avviso si avvicinavano a certi requisiti, quali si sono andati precisando nel corso del lavoro e che possono essere riassunti così:
1) l'assunzione di una tensione nei confronti della Storia declinata sia come memoria che come tensione col presente stesso in quanto storia ( soggettività più o meno impreviste come migranti, femminismo, virus...).
2) l'assunzione del conflitto tra soggettività poetante e il presente nelle sue molteplici declinazioni, come consapevole linea di demarcazione rispetto alle astrattezze liriche o meno.
Fuori da questa impostazione c'è una gran quantità di poesia bella. A noi però sembra che la critica segni il passo, al di là delle individuali sensibilità e competenze linguistiche, letterarie ecc. E anche al di là delle capriole sullo sperimentalismo linguistico, che per noi ha diritto a ogni cittadinanza a patto che non resti fine a se stesso.
A ridare vigore alla critica in fondo potrebbe anche servire un dimensionamento quale quello che proponiamo. Ma forse a noi serve semplicemente per rimanere in grado di riconoscere la poesia dentro la complessità stordente del presente, le sue superficialità, le sue fumisterie.
Il nostro blog è tuttora vivo a questo link: www.diepicanuova.blogspot.it
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Venerdì 30 Giugno 2023 08:41 |
di Claudia Mazzilli Claudia Mazzilli legge la poesia di Gloria Anzaldua, poeta ancora poco nota in Italia, all'incrocio tra poesia epica e denuncia di sessismo, classismo, razzismo.Gloria Anzaldúa, Terre di confine / La frontera. La nuova mestiza, Black Coffee edizioni, 2022 [...] Cuando vives en la fronterala gente ti cammina attraverso, il vento ti ruba la voce, sei una burra, buey, capro espiatorio, anticipatrice di una nuova razza, mezza e mezza – sia donna che uomo, né l’una né l’altro –
un nuovo genere; [...]
Nelle Terre di confine sei il campo di battaglia dove i nemici sono parenti fra loro; sei, a casa, una straniera,
le dispute di frontiera sono state risolte
la raffica di colpi ha infranto la tregua sei ferita, dispersa in azione, morta, rispondi ai colpi; [...]
(Vivere nelle Terre di confine significa che, pp. 265-66)
Una scrittura radicata nella coabitazione di più mondi in continua transumanza, nei graffi e nelle ferite aperte dalle quasi duemila miglia di filo spinato tra Messico e Stati Uniti. Una narrazione di resistenza a qualsiasi stigma (razzismo, classismo, omofobia) ma anche una poesia della trasformazione psichica, del passaggio, dell’abbandono degli ormeggi, che dà coraggio a chi ha superato i confini di ciò che è presunto come “normale”. Una prosa-poesia intima ed epica insieme, che sa ripetere incantesimi per suscitare amore nella donna amata, ma sa anche fotografare lo sfruttamento, la povertà, le diaspore dei reietti tra le terre di confine, come sa perdersi nei vapori impalpabili ma non meno veri dell’immaginazione, quando recupera con orgoglio queer alcune suggestioni androgine dai miti dei nativi, o quando attinge alle simbologie arcaiche delle antiche divinità femminili precolombiane relegate in un’oscurità mostruosa e sinistra, prima dalla cultura azteca in fase di patriarcalizzazione, poi da quella cattolica dei conquistatori europei, che alle antiche dee ha definitivamente sostituito la Vergine di Guadalupe. E ogni volta che invoca le dee, Gloria intona un canto di resistenza alla cultura etero-patriarcale, suprematista, violenta e guerrafondaia, ma soprattutto si riconnette con le sue origini indie.
[...] L’ultima volta mi condannasti a questa pena: anni e anni di tua assenza. Che grande rinuncia mi hai chiesto. E ora per tutte le terre lacerata ti cerco. Antica, la tua figlia errante non può raggiungerti. Dammi un altro segno un’altra briciola della tua luce. La mia pelle in fiamme desidera conoscerti. Antica, mia dea, voglio nascere un’altra volta nella tua nerissima pelle. (Antigua, mi diosa, p. 257)
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Sabato 22 Aprile 2023 09:22 |
Redazionale
Questo che segue è il comunicato delle edizioni Alegre con i link del podcast del Festival della letteratura Working class. A meno di un mese dall’evento è possibile riascoltare tutto e rendersi conto della ricchezza di questa iniziativa:
Ne hanno scritto in tante e tanti, e per molti si è trattato di un evento che lascerà il segno sia nella storia delle più recenti lotte di classe del nostro paese sia nel panorama della produzione letteraria cancellata se non demonizzata dalla critica ufficiale. Un evento unico per modalità e qualità delle discussioni, ma soprattutto per entusiasmo e partecipazione collettiva.
Grazie a Radio Wombat Firenze che ha seguito con noi e trasmesso in streaming il nostro Festival di letteratura working class ecco le registrazioni dei vari panel del Festival a disposizione di chi non è riuscito a esserci, di chi ha seguito solo alcuni eventi e di chi vuole rivivere o approfondire alcune delle bellissime discussioni andate avanti nei tre giorni.
Ascolta tutto qui: https://edizionialegre.it/.../i-podcast-del-festival-di.../ |
Martedì 21 Marzo 2023 08:13 |
Introduzione
Il convegno di due giorni che si è tenuto alla GKN di Firenze l’11 e il 12 febbraio scorsi ha proposto molte iniziative e offerto molte riflessioni; in questo scritto il campo sarà ristretto al mutualismo e ai progetti di re industrializzazione virtuosa, che mi sono sembrati i momenti più innovativi. Chi vuole approfondire altri aspetti, li trova sia visitando il sito del collettivo, sia consultando il programma del Festival della letteratura Working class di fine marzo.
Le esperienze presentate di seguito e di cui si è discusso nei gruppi di lavoro sono solo alcune perché non ho potuto seguire tutti i gruppi, vista la contemporaneità degli orari; inoltre sono diverse, sia per peso specifico, sia per la durata e il consolidamento del loro percorso. Tuttavia, esse hanno tutte un filo che le lega insieme e che gira intorno ad alcune parole chiave: mutualismo conflittuale, autogestione, buone pratiche.
Da McDonald’s alla ristorazione di quartiere
La prima esperienza viene da Marsiglia, dove i lavoratori e le lavoratrici di un McDonald’s situato in una zona periferica si ritrovarono di punto in bianco la lettera di licenziamento. A raccontare tutta la vicenda sono stati due donne e due uomini del collettivo.
Dopo il licenziamento avviarono subito la vertenza con proteste e scioperi, ma non si sono limitati a chiedere semplicemente la solidarietà del quartiere o di altre fabbriche: il collettivo si è posto da subito il problema del luogo in cui si trovava e delle sue esigenze. Così, invece d’intraprendere il percorso standard di molte vertenze della stessa tipologia, più o meno ovunque - cassa integrazione o strumenti simili, ricerca di un nuovo proprietario ecc – i lavoratori scelsero da subito l’ipotesi di autogestione e rilevamento del sito ma anche l’idea di cambiare il tipo di offerta di ristorazione.
Un importante passaggio del loro intervento è stato proprio all’inizio, quando tutto è cominciato: invece di pensare semplicemente alla vertenza il collettivo si è chiesto:
“che cosa volevamo fare delle nostre vite,”
intendendo con questo che non avrebbero accettato ipotesi di trasferimento in altre località.
La ricerca di alleanze nel territorio è sfociata in un progetto di rapporto con le imprese agricole di prossimità per arrivare a una proposta di ristorazione più adatta alle esigenze del quartiere e anche alle tradizioni locali. Alla fine sono riusciti nel loro intento, anche grazie ad appoggi istituzionali. Naturalmente questa come altre esperienze simili dovrà reggere alla prova del tempo, ma dimostra che un altro approccio è possibile.
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Martedì 18 Gennaio 2022 14:17 |
Di Franco Romanò
Perché tornare a occuparsi di un uomo enigmatico e di un economista per lungo tempo dimenticato? Tanto più che la teoria economica appare ostica ai più. Cercherò di dirne le ragioni, evitando il più possibile argomenti troppo specifici.
Nel mondo rovesciato in cui ci capita di vivere, sono sempre più numerosi gli articoli e i saggi critici sull’andamento dell’economia e sulla teoria economica medesima, scritti da uomini di potere. Uno in particolare mi ha colpito perché al centro del suo discorso compare una metafora poco usuale in un uomo e mi piace pensare che senza il femminismo di mezzo, non gli sarebbe venuta in mente. Tanto più che Giandomenico Scarpelli, un dirigente della Banca d’Italia che si occupa di collocazione dei titoli di stato, è ritornato a occuparsi di teoria economica per aiutare la figlia a sostenere gli esami universitari. Al centro del suo discorso c’è una mirabolante cucina: il forno è acceso e va a mille, i fuochi pure, le pentole sono già pronte e così tutti gli accorgimenti tecnici più sofisticati; solo che non c’è più nulla da cucinare e infatti nel titolo del suo saggio l’economia odierna diventa una Ricetta senza ingredienti. Ecco, una prima risposta al quesito che ho proposto posto all’inizio potrebbe essere questa: perché l’economia di Sraffa, parte dagli ingredienti per arrivare alla cucina.
In economia esiste prima di tutto una sostanza fisica: il grano, per esempio, oppure la tela, le stoffe e tutto ciò che serve per riprodurre la vita di ogni giorno, che richiede cura e attenzione, oggi come migliaia di anni fa. Tale sostanza fisica si estende poi alle costruzioni, alle case e a quello che nel gergo economico si definisce infrastruttura: le strade, i ponti, le ferrovie, i beni che permettono di vivere. Questa è l’economia, ma è forse di ciò che si parla quando nella nostra contemporaneità si usa tale termine? Di questo si occupa la teoria economica? No: oppure, come accaduto in Italia dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, si nomina la sostanza fisica dei beni soltanto per registrare i danni, gli argini dei fiumi che collassano, i comportamenti anomali del clima, le morti sul lavoro. La pandemia da Covid 19 viene drammaticamente a confermare tutto questo a livello planetario. I beni sono naturalmente anche delle quantità e non solo qualità, cioè valori d’uso, su questo non c’è alcun dubbio; dunque la necessità di quantificarli e misurarli fa parte della natura fisica dell’economia, ma tale misurazione dovrebbe essere la conseguenza di una modalità di gestione delle risorse. Nelle scuole medie italiane s’insegnava un tempo l’economia
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Mercoledì 15 Maggio 2024 07:29 |
Franco Romanò
Lo spunto che mi ha spinto a scrivere questa riflessione è il dibattito che c’è stato intorno a un saggio pubblicato di Antonio Attisani su Doppiozero. L’articolo è indubbiamente interessante per molti aspetti, tanto che inizierò proprio da una citazione del suo saggio, mentre non mi convince la lettura politica che ne dà. La classe morta è stata nella drammaturgia del secondo ‘900 un evento e non solo uno spettacolo, poi è stato lasciato in un relativo oblio e nessuno si è posto il problema di metterlo di nuovo in scena, anche se alcuni lavori si sono ispirati ad esso. La mia rilettura ruota intorno a una domanda: cosa ci può dire oggi quell’evento? A mio avviso molto, ma in un senso che, pur presente anche in un breve passaggio del saggio di Attisani, viene poi da lui abbandonato.
Il teatro della morte
Il brano di Attisani che riprende anche alcune affermazioni di Kantor rispetto alla sua drammaturgia è questo:
… occorre piuttosto pensare alla scena come montaggio di elementi della “realtà pronta” (objets trouvés) e riconoscere il “ruolo del CASO” nella creazione.
Continua Attisani:
Siamo qui all’indeterminismo della fisica quantistica. Quando si esprime nel difficile linguaggio della nuova fisica, quando Kantor dichiara di rimpiangere un teatro che:
“si liberava dai vincoli della vita e dell’uomo, produceva degli equivalenti artificiali della vita, che si assoggettavano all’astrazione dello spazio e del tempo, erano più viventi e capaci di raggiungere l’assoluta coesione”,
dobbiamo intendere quelle parole alla luce dei suoi spettacoli meravigliosi, della loro semplice grandiosità che toccava il cuore degli spettatori più diversi.
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Venerdì 05 Aprile 2024 14:27 |
Ma dov'è il lavoro? Qualcuno bara o facciamo fatica a capire? Un po' l'una e un po' l'altra cosa. C'è un milione di microlavoratori sparsi nel mondo che lavorano per l'Intelligenza Artificiale. Addetti a minilavori per microsalari. Per minivite. Claudio Canal da esperto qual è ci introduce col suo vivace linguaggio dentro una realtà che ci circonda e rischia di soffocarci. Rilanciamo il suo articolo dalla rivista on line Volerelaluna.
"Clic senza frontiere: cosa c’e? alla base dell’intelligenza artificiale"
di Claudio Canal
Mi scuso con chi legge questo articolo perche? era mia intenzione aprire alla grande con una congrua citazione marxiana dai Grundrisse, quella che si avvia con: «Der Krieg ist daher eine...». Poi ho assistito in TV a una pensosa trasmissione condotta dal noto filosofo con nome primaverile, Fiorello, e ho cambiato idea. Il pensatore ha introdotto la categoria post-postmoderna di Ignoranza Artificiale. A questo punto ho meditato. Grande LLM di GPR-3! Grandissimo PaLM-2 che e? addestrato da 340 miliardi di parametri! GrandiosoGPT-4 addestrato da un triliardo di parametri! Insomma, una meditazione cabalistica la mia, che decanta le stupefacenze dell’Intelligenza Artificiale (IA) e che avrebbe potuto anche stramazzare nella acerba e sconsolata recriminazione delle sue nefandezze: il degrado del lavoro, il mantra della sicurezza, l’ambigua affidabilita?, le decisioni automatiche, i robot pigliatutto, il controllo panottico, la privacy sfasciata, le guerre dei monopoli tecnologici...
Proletario ignoto
Posso essere annichilito o eccitato dal vigente culto dell’IA, predicare Redenzione o Apocalisse, ma non riesco a sottrarmi all’Ignoranza Artificiale di cui disquisisce Fiorello il metafisico. Si tratta di quell’ignoranza applicata per cui vediamo i tipi che ci sfrecciano davanti in bicicletta con gerla colorata in spalle (cabassa, in piemontese) ma non li guardiamo per cio? che sono: proletariato al posto di lavoro, in sella a una bici.
Prendiamo un’azienda australiana, Appen Ltd, che ha come clienti Microsoft, Apple, Meta, Amazon, e Google fino a qualche giorno fa, sedi sparse in 170 paesi, Italia compresa, e piu? di un milione di... lavorator*? consulenti? intermediatori? hobbisti? freelance? nerd planetari?
Tutta questa gente non e? stipata in capannoni industriali, ma sta a casa o dove gli pare, a fare cosa? Lo spiega, senza cercare chissa? dove, la voce di Wikipedia, autogenerata daAppen: “Affinche? le macchine dimostrino l’intelligenza artificiale, devono essere programmate con dati di addestramento di fattura umana che le aiutino ad apprendere. Appen utilizza il crowdsourcing per raccogliere e migliorare i dati e ha accesso a un team qualificato di oltre un milione di lavoratori part- time che raccolgono, annotano, valutano, etichettano, testano, traducono e trascrivono dati vocali, immagini, testo e video per trasformarli in dati di training di machine learning efficaci per una gran varieta? di scopi”.
Nonostante la traduzione un po’ sgangherata si capisce che c’e? bisogno di qualcuno che imbocchi l’algoritmo con l’omogeneizzato giusto. Ma l’algoritmo e? famelico, richiede milioni di cucchiaiate. Se deve distinguere un neonato addormentato da un gatto, un cuscino, un pacco o qualsiasi altra seppur vaga somiglianza, gli tocca passare in rassegna una enormita? di immagini in cui il neonato c’e? o non c’e?. Qualcuno le deve etichettare queste immagini: non sono gli ingegneri informatici a farlo ne? i linguisti computazionali, bensi? lavorator* del clic-clickworkers portatori sani di Intelligenza Umana, che ottengono pochi spiccioli di remunerazione, attivita? a singhiozzo, tutele zero, un lavoro fatiscente. Sparsi e sparse per il pianeta, prevalentemente a Sud, ma non solo. Proletariato occultato di cui noi vantiamo una profonda Ignoranza Artificiale.
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Venerdì 17 Novembre 2023 10:23 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Nei momenti di crisi, pandemie, guerre, povertà, miseria, insicurezza collettiva e individuale, fragilità avvertite più o meno improvvisamente, la collettività degli uomini ricorre allo strumento principale che ha per proteggersi: l'imposizione. alle donne -con le buone o le cattive dei ruoli femminili "naturali" di madre e moglie, compagna, sostegno amicale....-. Si chiama patriarcato
Nel 2019 Antonella Picchio e Giuliana Pincelli pubblicano un libro che ricostruisce la storia dei gruppi Lotta Femminista e Salario al Lavoro Domestico di Modena e Ferrara, gruppi di una rete nazionale del femminismo degli anni Settanta, collegata alla International Wages for Housework Campaign (1) Il libro è pubblicato nel giugno 2019, nel dicembre c’è la comunicazione ufficiale dello scoppio della pandemia in Cina, la vicinanza di queste date è una interessante coincidenza se si considerano i temi trattati nel testo, focalizzato sulle lotte contro il carico di lavoro delle donne -che oggi chiamiamo Lavoro di Cura ma negli anni Settanta si chiamava Lavoro Domestico- e se si riflette sulle conseguenze per molte del periodo di confinamento obbligatorio, il lockdown, nei termini di intensificato impegno di carichi familiari, impegno legato alla visione stereotipata di ruoli e funzioni di genere sedimentata nelle nostre cultura e società. Un’indagine condotta durante il periodo della pandemia dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr-Irpps Covid 19 ha messo in risalto il fatto che se le conseguenze psicologiche, sociali, economiche hanno colpito l’intera popolazione con il corredo di emozioni negative: tristezza, paura, ansia e rabbia, il lockdown “ha impattato negativamente soprattutto sulle donne, sia a livello psicologico che lavorativo (significativo anche l'aumento delle violenze domestiche)… l’isolamento forzato [è stato visto] come il momento in cui la donna ha potuto riacquistare ‘il suo ruolo naturale di madre e moglie”. (2) Come succede nei momenti di crisi e soprattutto in guerra, non a caso l’ordine del discorso dominante per tutto il periodo della pandemia è stato improntato alla guerra contro il virus, nel lessico, nei toni e nelle espressioni di scienziati/e, medici/che, politici/che, opinionisti/e, giornalisti/e…. La guerra ripristina l’ordine sociale disordinato dalle lotte delle donne.
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Mercoledì 19 Luglio 2023 06:23 |
Di Franco Romanò
Premessa
La morte di Cormac McCarthy, a poca distanza dall’uscita in Italia del suo ultimo romanzo, sembrerebbe conferire ad esso il ruolo di testamento spirituale. In realtà, le cose non stanno così perché la casa editrice Einaudi ha in programma la pubblicazione di Stella Maris il prossimo settembre. Fra i due romanzi c’è un nesso che viene dichiarato anche nella presentazione de Il passeggero. La tentazione di attendere anche la seconda opera è stata forte, ma la lettura del libro e un’intervista rilasciata poco prima della morte, mi hanno convinto a scriverne subito. Il romanzo è da un lato un compendio di tutto quello che McCarthy ha scritto; in secondo luogo, come afferma nell’intervista concessa alla fine del 2022, quest’ultima opera è anche il distillato di una riflessione su scienza, antropologia e tecnologia che lo hanno visto impegnato nelle discussioni del Santa Fe Institute, fondato dall’amico fisico e premio Nobel Murray Gell-Mann. Dell’associazione fanno parte altri scienziati che discutono proprio sui temi più scottanti e attuali che riguardano il rapporto fra le scienze e la società. Il solo scrittore a far parte del gruppo è stato McCarthy. Mi è sembrato che nel romanzo ci sia proprio una eco di queste riflessioni recenti, che ne fanno un’opera in qualche modo definitiva. Il romanzo è costruito intorno a due diversi nuclei narrativi, a loro volta stratificati al proprio interno, che si alternano di capitolo in capitolo. Il primo nucleo, sempre in corsivo, inizia con una premessa, la scena del ritrovamento di un cadavere. Il secondo nucleo, scritto invece in tondo, comincia da uno spunto narrativo più immediatamente decifrabile: Bobby Western – nome quanto mai evocativo –1 sommozzatore di recupero di navi affondate, durante un’immersione vede un aereo che giace su un fondale con nove uomini morti a bordo. Bobby comincia ad avere dei sospetti, ma nel proseguimento del capitolo e nella conversazione fra lui Oiler - un altro sommozzatore - e Campbell, con cui discute dei suoi dubbi, le ragioni di tali preoccupazioni sono indicate in modo vago. La conclusione però è repentina e drastica: Bobby decide che è bene sparire.
La fuga
Tale scelta permette al narratore di costruire intorno al cliché del genere giallo una trama assai complessa e di chiamare a raccolta, in una ideale rappresentazione totale che spazia dal cinema, al teatro, al circo, i personaggi dei suoi romanzi precedenti. Se ci sono proprio tutti lo vedremo alla fine. Alcuni altri sono invece nuovi perché le tipologie più note - specialmente quelle maschili - della narrativa di McCarthy, vestono la fisionomia del tempo storico che hanno attraversato: allora ecco comparire un professore di fisica coinvolto nel progetto Manhattan - forse lo stesso Oppenheimer o addirittura il padre di Western medesimo. La costruzione del primo ordigno nucleare statunitense fu la sintesi novecentesca di quel male assoluto che accompagna dalle origini la narrativa dello scrittore. Alcuni altri personaggi sono strani poliziotti o agenti dell’agenzia delle entrate: cercano Bobby, gli fanno delle domande in momenti diversi, gli perquisiscono la casa, senza tuttavia arrestarlo e infatti la vicenda iniziale - quel velivolo sul fondale con nove morti a bordo e un decimo probabilmente sopravvissuto - sfuma nell’indeterminatezza. Questo nucleo narrativo è fatto di molteplici incontri, di dialoghi dalle diverse temporalità, visto che si tratta di personaggi che riprendono a parlare con quelli odierni: John Sheddan, Borman, Oiler, Kline, lo stesso Bobby, la nonna, una trans di nome Debussy. Proprio durante uno dei primi dialoghi con Sheddan e poi fra quest’ultimo e un personaggio femminile di nome Bianca, il ritratto di Bobby Western assume qualche contorno più preciso:
… Mi piace il tuo amico, disse Bianca. Bel culo.
Fai un buco nell’acqua mia cara.
Perché, è gay?
No. È innamorato.
Peccato.
Peggio ancora.
Cioè?
È innamorato di sua sorella.2
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Mercoledì 14 Giugno 2023 12:21 |
di Adriana Perrotta Rabissi
Noi, comuni natali*
Uno dei principali compiti della filosofia è dar forma al modo di pensare di una collettività, dar vita a costrutti mentali stabili e soggettivi che orientano la percezione del mondo e permettono di attribuire significati a quanto accade intorno a noi.
Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e racconti di Rosella Prezzo propone una concettualizzazione diversa da quella canonica della condizione umana e della sua finitudine -la mortalità- sostituendola con un’altra finitudine, -la nascita, la venuta al mondo- come tratto comune del nostro essere umani, dal quale ricavare significati simbolici e materiali, sulla scorta di due filosofe da lei amate e studiate, Hannah Arendt e Maria Zambrano, che per prime, e quasi contemporaneamente, hanno focalizzato l’attenzione su questo aspetto.
La nascita di ciascuno/a non è un semplice fatto, ma un evento, perché comporta la “rottura della catena temporale e l’irruzione del nuovo”(p.63).
Il suggerimento è passare dalla considerazione che gli umani “sono per la morte”, la caratteristica unificante dell’umano nella nostra filosofia, al concetto che gli umani nascono.
Tutti nasciamo, siamo tutti dei natali, non solo dei mortali.
Il più conosciuto sillogismo aristotelico recita:
“Tutti gli uomini sono mortali/Socrate è un uomo/Socrate è mortale”.
Avrebbe avuto un corso diverso la storia del nostro pensiero e della nostra vita collettiva se fosse stato:
Tutti gli uomini nascono (da un corpo di donna)/Socrate è un uomo/Socrate è nato (da un corpo di donna)?
Avrebbe potuto, e lo potrebbe oggi, questa semplice attenzione all’evento fondante la condizione umana cambiare ila struttura sociale, impedendo l’appropriazione patriarcale delle donne da parte degli uomini?
Messa così la domanda non ha senso, ma la uso per richiamare alcune suggestioni del testo di Prezzo, un percorso filosofico, antropologico, religioso, artistico che pone l’accento sull’evento della nascita.
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Lunedì 17 Aprile 2023 13:02 |
Dopo la vita da impiegato contabile a Milano e dopo il periodo di lavoro manuale a Colonia (capitoli primo e secondo) nel nuovo capitolo inizia la storia di Cosma e Corinna.
Quando si sono conosciuti Cosma e Corinna portavano con sé quasi a pelle marchi invisibili di una ricerca inedita e universale di nuove libertà. Portavano con sé le lotte di liberazione dei paesi colonizzati, portavano con sé le lotte di liberazione dei neri, portavano con sé le lotte di liberazione femministe. Antirazzismo, anticolonialismo, antisessismo. Non dobbiamo dire più ‘negro’ perché è il termine adoperato per indicare la schiavitù. Non dobbiamo più dire ‘colonie’ perché i popoli colonizzati si stanno liberando dall’oppressione politico militare economica d’Europa e d’America. Non dobbiamo più dire ‘uomo’ per dire una ‘umanità’ che non comprende la donna. Libertà da secondo Novecento, senza nazifascismo, senza gulag, senza dittature, senza imperialismi. Tutto ciò poteva anche appartenere al sogno e al desiderio, eppure il progetto non era una semplice questione di diritti civili. Le guerre di liberazione dei paesi colonizzati dal Vietnam all’Africa e poi le lotte dei neri e delle femministe negli USA, almeno quelle di cui si cominciava a sapere in Europa quasi ancora solo oralmente o in opuscoli di diffusione limitata, tutte quelle lotte per la libertà ponevano il problema non solo e non tanto per il rispetto verso le cosiddette differenze. In molti si faceva strada la consapevolezza che quei problemi nati dall’oppressione e dal soffocamento delle libertà era possibile superarli solo con il superamento del sistema economico e politico legato all’esaltazione dei consumi, al basso valore dato al lavoro, alle gerarchie sociali e alle classi sociali stesse considerate un prodotto naturale. Una diffusa presa di coscienza che nasceva come reazione al silenzio dell’educazione familiare, al silenzio dei programmi scolastici che finivano con l’alba del Novecento. Nella maggior parte dei casi poi di quella coscienza in erba faceva parte una certa diffidenza verso il sistema dei partiti che governavano il paese. Di quest’ultima non erano sicuramente incolpevoli i genitori di Cosma e Corinna che da un lato non nascondevano le loro simpatie per il passato regime ma dall’altra, avendone vissuta e patita la sconfitta, suggerivano nella loro educazione dispetto e diffidenza verso tutti i partiti della repubblica democratica, fatta eccezione per il Movimento Sociale che si muoveva in maniera all’apparenza inconsistente.
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Martedì 28 Febbraio 2023 09:46 |
di Adriana Perrotta Rabissi
ricostruzione storica di come è stato affrontato il tema del rapporto donne parole all'interno del femminismo
Un Archivio/Memoria
Il Gruppo di studio della Casa delle Donne di Pisa ha dato vita nel 2008 a un blog intitolato Il sessismo nei linguaggi per combattere gli stereotipi linguistici contro le donne.
L’esperienza si è conclusa all’inizio del 2022, le autrici hanno deciso di mantenere generosamente visibile in rete tutto la ricca produzione raccolta nei tredici anni di vita del blog, organizzata secondo aree tematiche e tempi di pubblicazione, per costruire: un “Archivio/Memoria delle iniziative nostre e altrui riguardanti il sessismo nel linguaggio parlato/scritto e figurato…… Questo materiale costituisce una Memoria preziosa di documenti, pensieri, manifestini, immagini e altro a disposizione di chiunque, citandone la fonte, ne voglia fare uso”.
Il blog esamina l'uso sessista nei linguaggi della comunicazione e dell'informazione in Italia e fuori, in tutti i settori dalla politica, all’arte, alla cultura, al lavoro, ai costumi sociali, alla cartellonistica stradale, al cinema, al mondo dell’intrattenimento, presentando manifesti, analisi, interventi a convegni e seminari, interviste, bibliografie aggiornate fino al 2022.
Negli ultimi anni il dibattito sui modi per contrastare l’uso sessista della lingua si è intensificato anche in Italia, numerose sono pertanto oggi le fonti disponibili per la ricerca, libri, periodici, Seminari, Convegni e Corsi.
La particolarità di questo blog consiste non solo nella miriade di riflessioni, analisi e teorie proposte, ma nella quantità di soluzioni pratiche presentate e rintracciate in Italia e in Europa, nelle sperimentazioni, più o meno condivisibili, adottate progressivamente da istituzioni, da singole donne e da collettivi, oltre agli scambi di lettere, domande e risposte, tutto quel flusso di esperienza di vita e di pensiero prezioso per una ricerca pratico-teorica su come si è sviluppato il discorso sui linguaggi all’interno del femminismo. Un patrimonio che avrebbe rischiato di perdersi se non fosse stato raccolto in un Archivio.
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